Appunti di Storia moderna

Visualizzazione post con etichetta classismi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta classismi. Mostra tutti i post

domenica 7 febbraio 2016

Geopolitiche del gusto

Al di là dello snob e del poveretto
Ogni volta che qualcuno ostenta la musica che ascolta, le sue letture, i posti che frequenta, i suoi consumi culturali in quanto indiretta emanazione dal suo status, il mio pensiero va alla buonanima di Pierre Bourdieu: mentre ci si crede i più very autentici, i più fighi di tutti, quelli con i gusti giusti, resta che ciascuno tende a esibire dei consumi culturali come distintivo di classe (leggi: habitus). 

martedì 11 marzo 2014

Quote di genere, è solo propaganda.

Lo so che è tardi. Ma a 'sto punto lo pubblico lo stesso come spunto di riflessione. Del resto, si sa che il blog è anacronistico.

Si dice che le quote di genere servano "per la parità": ma di cosa stiamo parlando?

Le quote hanno senso se:
- i meccanismi di cooptazione continuano a essere il criterio nella selezione delle candidature nelle liste? 
- manca un approccio sistematico e sostanziale inteso a intervenire sulla questione di genere?

Per me la questione "parità" nell'accesso alle cariche pubbliche ha senso solo se collegata (almeno) a queste due domande. 

martedì 28 gennaio 2014

Sul potere dei gruppi

Post scritto alcuni mesi fa, che pubblico adesso perché nel frattempo non ho potuto che trovare clamorosa conferma dei meccanismi descritti - certo, nulla di nuovo sotto il sole. Magari più avanti spiegherò perché lo pubblico proprio oggi.

Più passa il tempo più mi convinco dello straordinario potere legittimante dei gruppi (molto probabilmente scoprendo l'acqua calda, nda). Mi sembra cioè di riscontrare, in più ambiti, più o meno sempre uno stesso meccanismo di fondo: il fatto che si sia in tanti a pensare o fare la stessa cosa, conferisce a questa idea o azione un'aura di legittimità difficile da scalfire, davvero potentissima.  E' un filtro cognitivo, è la società che ti entra nei sensi. Penso che nessuno sia immune da questo meccanismo - che poi in un certo senso è costitutivo, avendo fra l'altro a che fare con la trasmissione delle idee e dei costumi, cioè con le basi della civiltà, per dire. 

domenica 5 gennaio 2014

Gli "shmoo" e la lotta di classe

In Class Counts (1997) Erik O. Wright inizia la sua magnifica analisi della divisione in classi negli USA e in alcuni paesi europei con una vignetta degli anni '40 di Al Capp, che getta luce in modo davvero immediato sul concetto di "lotta di classe". 
Abbiamo da un lato la classe operaia e dall'altro la classe capitalista: il tradizionale rapporto tra le due viene messo in crisi, però, dagli shmoo, degli strani esserini che si autoriproducono e che possono trasformarsi in qualsiasi bene necessario per l'esistenza umana.

Se per le prime necessità materiali ci sono gli shmoo, viene a saltare, da un lato, la possibilità per il capitalista di sfruttare l'0peraio; e, dall'altro, la costrizione per l'operaio di sottostare alle condizioni del capitalista. I due capitalisti della vignetta sono molto nervosi, temendo un proliferare incontrollato degli shmoo: nessuno avrà più bisogno del lavoro massacrante nelle nostre fabbriche!, dicono. Il timore è ben fondato: tanto che il loro autista si licenzia seduta stante, con un certo sorrisino soddisfatto. 

sabato 12 ottobre 2013

Razzismo e odio di classe

"Sottoproletari dell'identità" (A. Sayad).
Che talvolta il razzismo si combini, fra le altre cose, con un odio di classe, è un fatto che bisognerebbe non stancarsi mai di sottolineare ed esplorare. Questa sinistra combinazione fra classismo e razzismo (e non solo) è approfondita dagli studi intersezionali, che cercano di analizzare le dinamiche delle discriminazioni considerando le categorie sociali non isolatamente, ma appunto nelle loro intersezioni (genere, razza, classe, ecc.). Si tratta di una prospettiva che sembra riuscire a superare il limiti del discorso antidiscriminatorio tradizionale, tendente a ipostatizzare una categoria a scapito di altre (benché qualcuno rifiuti la nozione stessa di "categoria") e non riuscendo in tal modo a cogliere del tutto la complessità delle situazioni sociali. La trovo molto interessante e opportuna e intendo approfondirla.
Ho trovato illuminante e decisamente attuale la riflessione di Renate Siebert in Il razzismo. Il riconoscimento negato, Carocci 2004, che ho letto da poco, che dedica un sottocapitolo all'intersezione razzismo/classismo e che voglio perciò ripostare qui.

mercoledì 7 agosto 2013

Sul sapere e la pagnotta


One cannot think well, love well, sleep well, if one has not dined well
(Virginia Woolf)


Virginia Woolf ha scritto, nel suo memorabile A room of one’s own, che era grazie alla rendita mensile della sua zia deceduta che poteva scrivere, leggere, studiare. Il testo di quel libro fu scritto in occasione di due conferenze significativamente intitolate:
"Intellectual freedom depends upon material things. Poetry depends upon intellectual freedom."       
Marx ha lottato a lungo contro l'indigenza, con tutti quei figli, e poi ha avuto la fortuna di trovare un certo industriale – gente d’altri tempi – disposto a mantenerlo per anni, Friedrich Engels; così Marx ha potuto scrivere il Capitale.
Rousseau dovette lo stesso a una nobildonna, Françoise Louise de Warens, che lo salvò per un certo periodo dalla povertà.

venerdì 19 luglio 2013

Ottimismo di classe

Ovvero quando l'ottimismo è una legittimazione dello status quo. (Post arrabbiato).


[In realtà volevo postare questo, ma non mi riesce, ma il succo è lo stesso].

Ultimamente sono incappata nella spiacevole circostanza di sentire alcune interviste di attuali rappresentanti di due ministeri. In particolare, mi riferisco alla sottosegretaria al ministero del lavoro e delle politiche sociali Jole Santelli e la ministra Carrozza, istruzione. Contrariamente alle aspettative - per chi ancora ne abbia nei confronti dell'attuale classe politica italiana - il loro ruolo istituzionale consiste nell'infaticabile espressione di un approccio sentimentalisticamente e paternalisticamente ottimistico nei rispettivi settori.

lunedì 25 marzo 2013

Una generazione di ricattabili

Scritto per terrearse.it

La resistenza all’introduzione del reddito di cittadinanza ha molte spiegazioni. Ho la sensazione che la più importante non consista del tutto nella difficoltà nel trovare le risorse necessarie a tale spesa, ma nella fonte di inesauribili guadagni che la ricattabilità strutturale (determinata dalla mancanza o dall’incertezza cronica del reddito) di una parte della società procura all’altra.
La precarietà, la disoccupazione, l’illegalità istituzionalizzata nel posto di lavoro e la paura di denunciarla per timore di perdere una misera occupazione, la vita in quartieri e condizioni di degrado, la provenienza da una famiglia a basso reddito (il cosiddetto ascensore sociale bloccato al piano terra), l’incubo di arrivare a metà mese sono tutti fattori che tengono una intera generazione sotto ricatto, in un contesto che è terreno fertile per lo sfruttamento.

venerdì 3 agosto 2012

Della criminalizzazione di fuori corso e disoccupati ai tempi di Monti

Scritto per terrearse.it

E’ da un po’ di tempo che circolano notizie e pseudostatistiche sul peso economico e sociale di una manica di banditi che lucrano astutamente alle spalle dello Stato, meglio noti come “fuori corso”. Non abbiamo ancora dimenticato la battuta di Michael Martone del team Monti, sui 28enni non ancora laureati definiti in termini sottilmente istituzionali come “sfigati”, che oggi la spending review propone di tassare ulteriormente i fuori corso. Ciò è la riprova che presso il governo si promuove una certa polarizzazione ideologica: parassiti buontemponi pigri sfaticati da un lato, martiri dell’efficienza incompresa dall’altro – dove i secondi tassano i primi, naturalmente, rieducandoli a suon di insulti (“sfigati” docet), perle pseudoneoliberiste di saggezza e tasse.
La logica appare un po’ la stessa della criminalizzazione ideologica del disoccupato: si tende a far passare per parassita quello che, spesso, subisce delle inefficienze e delle miopie istituzionali.
Certo, nessuno può escludere che molti studenti pascolino pigramente nelle università, e questa è per l’appunto la rappresentazione corrente che si fa – e, sembra, conviene fare – dei fuori corso. Al contempo trascurare che una grande percentuale di fuori corso lavora e non può permettersi di non farlo, che magari ha anche figli e al contempo non intende rinunciare a studiare, e in ciò è completamente sola, è un tantino disonesto.
Ce lo dicono, fra l’altro, le statistiche di Eurostudent, secondo cui oltre il 40% degli studenti (dati 2009) lavora: va da sé, precariamente. Quest’ultima precisazione è fondamentale: per fare un esempio, la legge delle 150 ore per il diritto allo studio concesse a chi lavora non vale – come la maternità, la malattia, le ferie e quant’altro – per chi è precario e lavora magari in nero.
Gli studi richiedono dedizione, tempo, energie, risorse economiche tali che lo studente, per rispettare la durata normale dei corsi di studio avrebbe bisogno di essere mantenuto per anni dalla famiglia – unico vero grande welfare italiano -, magari non abbiente, magari precaria anch’essa. Ciò evidentemente non è sempre possibile. Studiare laureandosi in tempo e al contempo dover lavorare per mantenersi, fra l’altro, gli studi, è impresa che neanche i supereroi. Eppure lo Stato oggi chiede ai giovani proprio questo. Come per la ministra Fornero il lavoro non è un diritto, e sono i giovani difettosi di una qualche specie di qualità morale (magari genetica?) di frainteso stacanovismo che li porterebbe naturalmente a lavorare qualora la possedessero; così per gli autori della spending review i fuori corso (per soffermarci solo su quest’aspetto dell’emendamento) sono dei buontemponi che succhiano risorse all’università e allo stato, che per parte loro, vere “vittime”, fanno il possibile.
Ora, una riflessione seria sull’eliminazione degli sprechi e l’acquisizione di risorse richiederebbe che si chiamasse in causa la vera realtà delle università italiane. La fonte dei loro sprechi sono davvero i fuori corso? Se lo sono, in virtù del 40% di studenti lavoratori di cui sopra, ciò è anche per l’incapacità istituzionale di garantire il diritto allo studio, questo concetto astratto che trova assai scarsa realizzazione in Italia. Nel 2009, circa il 65% degli studenti non ha ricevuto alcun aiuto economico, considerando che la ristretta fetta di beneficiari di borse non può contare su più di 1600 euro di sostegno, che in un anno sono veramente pochi e che non permettono a chi non può fare diversamente di non lavorare.
Le istituzioni non fanno nulla per garantire la possibilità di studiare anche a chi non può permettersi di non lavorare. Anzi, a quanto sembra, penalizzano proprio coloro che dovrebbero sostenere. Il risultato è disperatamente classista: solo chi ha a monte una famiglia con un reddito alto può studiare e laurearsi in tempo. E oggi chi è ricco potrà permettersi di pagare più tasse se fuori corso, chi non lo è, no. E’ l’ennesimo incentivo ad abbandonare gli studi, in sostanza.
Qual è la vera fonte di sprechi delle università? Non pretendiamo di esaurire il problema in poche battute, ma ci sembra quanto mai curioso attribuire nel maxiemendamento ai soli fuori corso il carico degli stessi. Le nostre università non brillano notoriamente affatto per trasparenza, meritocrazia, efficienza: il cosiddetto baronato e annesso blocco del turn over delle docenze è solo un esempio di un sistema farraginoso che gli autori della spending review hanno evidentemente dimenticato. Alla luce del suddetto articolo sui 4,4 miliardi che i fuori corso costerebbero allo Stato, verrebbe da suggerire analoga analisi sugli sprechi che queste falle determinano sul sistema università in Italia, con annesso enorme costo per la collettività. Fuori corso compresi.
Inoltre se il 56% dei laureati nel 2010 era fuori corso, fossi il governo qualche domanda me la farei. Davvero oltre la metà degli studenti è, come piace pensare, “bambocciona”? Strano, no? Caspita che popolo di sfaticati gli italiani. Riformiamo gli italiani, allora, se le cose stanno così.
Per l’appunto, il pedagogist… ehm ministro Martone – simbolo della scuola di pensiero dell’attuale governo, imperniata sul concetto di scaricabarile delle responsabilità istituzionali sulla coscienza individuale – dice di voler “spronare i giovani”. Riecco il ritornello già cantato da Fornero, del lavoro che non è un diritto. Cos’hanno in comune le due prospettive? Una contraddizione: da un lato, un pedagogismo dell’ultim’ora, da Stato paternalista che impartisce lezioni morali alla popolazione (“studiate e lavorate insieme e laureatevi anche in tempo”; “rimboccatevi le maniche: se non trovate lavoro è colpa vostra”), la quale evidentemente è difettosa delle virtù richieste dal mercato che per contro funziona nel migliore dei modi; dall’altro, tale pedagogismo sembra funzionale a giustificare mosse istituzionali improntate alla deresponsabilizzazione: il contrario, cioè, del paternalismo. Il concetto è, infatti, sempre lo stesso: “fatti vostri, noi non c’entriamo. Quindi pagate”.
Ecco il diagramma: criminalizza una categoria, attribuendole la colpa – cioè il costo – di sprechi e inefficienze, e secondo la logica del “nemico ideologico” avrai la tua giustificazione all’introduzione di nuove tasse. La gente penserà che è giusto tassare i buontemponi, il governo apparirà buono e giusto, e intanto per gli “sfigati” fuori corso che spesso lavorano e pensa un po’ pretendono anche di studiare, le tasse aumentano. L’ombra del sospetto dello spreco viene distolta dalla sua vera fonte: clientelismo, burocratismo – e gettata sulla cosiddetta povera gente. Come per il lavoro che non è un diritto, valutazione che esclude i privilegi della casta politica e i redditi alti dalla critica, uguale uguale. Tac, perfetto: falso moralismo a scopo di tassa.
Sarebbe dunque giusto supertassare i fuori corso solo se in Italia esistesse davvero il diritto allo studio (permettere di non lavorare a chi non ha risorse allargando il ristrettissimo target e la portata delle borse di studio, per esempio; o ancora ideare un sistema per la conciliazione genitorialità/studio) e se l’università funzionasse in modo trasparente, meritocratico, razionale, “efficiente”. Allora si sgombrerebbe il campo dalle responsabilità istituzionali del “fuori corsismo” e si potrebbe eventualmente addebitare allo studente fuori corso la colpa di esserlo.

martedì 24 novembre 2009

Stacanovismo militante post-mussoliniano

Burocraticamente rotonda e brunetta.

Concederò un immeritato spazio all'attualità, discutendo della proposta del Sig. Rotondi in merito all'inopportunità della pausa pranzo durante il lavoro.
Beh, io sono profondamente d'accordo con la proposta del Sig. Rotondi. Ha fottutamente ragione. Ne abbiamo abbastanza, io, Brunetta, e il Sig. Rotondi, di questa fama di pelandroni che gli italiani hanno nel mondo, ma soprattutto, del vertiginoso calo dell'italico Pil dovuto ai panini del McDonald's che ogni giorno, per almeno una lunghissima mezz'ora, si adoperano a infilare nelle loro maledettamente improduttive fauci.
Tuttavia la proposta del Sig. Rotondi ha dei limiti evidenti, ai quali io, in qualità di cittadina attivista, leghista e stakanovista, m'impegno personalmente ad ovviare raccogliendo firme in tutt'Italia perché la proposta che sto qui per delineare in anteprima mondiale diventi legge.
Eccola.
Io mi chiedo.
A questo punto, per essere coerenti fino in fondo, stakanovisti fino in fondo, fedeli alla mentalità aziendale fino in fondo, produttivi fino in fondo, perché non abolire la pausa pipì durante l'orario di lavoro?