Lo so che è tardi. Ma a 'sto punto lo pubblico lo stesso come spunto di riflessione. Del resto, si sa che il blog è anacronistico.
Si dice che le quote di genere servano "per la parità": ma di cosa stiamo parlando?
Si dice che le quote di genere servano "per la parità": ma di cosa stiamo parlando?
Le quote hanno senso se:
-
i meccanismi di cooptazione
continuano a essere il criterio nella selezione
delle candidature nelle liste?
- manca un approccio sistematico e sostanziale inteso a intervenire sulla questione di genere?
Per me la questione "parità" nell'accesso alle cariche pubbliche ha senso solo se collegata (almeno) a queste due domande.
Qualcuno critica la confusione, che fa chi contesta le quote, tra il diritto di accesso alle cariche e il problema sostanziale di genere. Secondo me, invece, la confusione è oggettiva: nel senso che non si può trattare un problema senza considerare l'altro, ammenoché non vogliamo fare finta di trattarlo per motivi strumentali. Non discuto sulla buona fede di molte/i, ma non possiamo trattare i due piani come se fossero distinti, sarebbe schizofrenico. I due piani vanno "confusi" per forza, perché sono "confusi" in partenza - in quanto il problema del diritto di accesso alle cariche esiste perché esiste una discriminazione sul piano sostanziale.
All'interno di un contesto che funziona ancora per cooptazione, all'interno di un contesto in cui già in partenza una donna che volesse impegnarsi nei partiti è penalizzata per motivi culturali e materiali, il meccanismo delle quote continuerebbe a funzionare nell'ambito abbondantemente marcio di giochi di forza di partito, segnati da cooptazione, classismo e sessismo, strettamente intrecciati. La parola "democrazia" fa a pugni con tutte e tre, com'è noto (o forse non è noto?).
Per me non si può affrontare la questione di genere come problema di democrazia senza affrontare al contempo la questione cooptazioni.
Nelle ultime elezioni politiche, le liste sono state decise dalle cricche di partito, nel chiuso delle stanze: la legge elettorale lo permetteva e continuerà a permetterlo. Sicché a me cittadina mi si presentavano delle liste profondamente schizofreniche: dico solo che in Calabria c'era Rosy Bindi nella lista PD e Scilipoti per il PDL. Questa cosa non è normale: io non li avevo mai visti in Calabria, prima. Ma al di là della rappresentanza regionale, la cooptazione è grave e vergognosa perché riguarda in primo luogo in base a quale criterio Pinco Pallo e Ciccia Bomba sono capolista, rispetto a Gigia e Sempronio che ne sono stati esclusi perché piazzati sotto o non inseriti del tutto. Si tratta di logiche da cricca, che questa legge elettorale continua ad avallare.
(L'unica eccezione alle ultime politiche è stato, oggettivamente, il M5S. Un movimento che, sebbene in modo imperfetto, all'interno di un sistema elettorale marcio ha quantomeno permesso ai suoi iscritti di scegliere chi mettere in lista e a che altezza. M5S che del resto si è mostrato in diverse occasioni mediatiche ben sessista).
Quindi, dicevo, non si può considerare la questione parità senza considerare la questione cooptazione, e il modo stesso con cui concepiamo il concetto "elezioni". Perché comunque la parità e il merito non c'entrano già in partenza. Non è per merito che Scilipoti, per fare l'esempio più clamoroso, è finito nella lista elettorale PDL Calabria alle ultime politiche ed è da noi tutti, oggi, regolarmente stipendiato. Non è per merito che Rosy Bindi è finita capolista PD in Calabria (io in Calabria, prima, non l'avevo mai vista).
Quindi anche chi contesta le quote di genere con l'argomento del merito dimentica che il merito manca proprio alla radice, nel metodo - che è sostanza - stesso della creazione delle liste.
E al contempo, a chi invece usa lo stesso dato dell'assenza del merito sostenendo le quote - "comunque non c'è merito, tanto vale fare le quote" - risponderei che non so che farmene di una ripartizione simmetrica di poltrone per generi, se già in partenza il meccanismo è profondamente antidemocratico. E' inutile. Ma anche dannoso, secondo me, come spiego più avanti.
In secondo luogo, per me non si può affrontare la questione di genere senza affrontare al contempo la questione di classe. Perché è nell'incrocio genere/classe che la discriminazione si fa viva nel problema della carenza di donne nei luoghi di potere.
Per arrivare ai luoghi di potere, infatti, è necessario in primo luogo un reddito. Per entrare nell'attivismo dei partiti è necessario molto tempo e dedizione, e lo fa, a conti fatti, solo chi se lo può permettere.
Questo vale anche per gli uomini. Lei, però, nel nostro contesto sociale, per fare lunghi mesi di militanza assidua non deve avere figli e al contempo un reddito basso, semplicemente perché se fosse così, non potrebbe contare su strutture pubbliche e gratuite adeguate e tanto meno, nella maggioranza dei casi, su una divisione simmetrica del lavoro domestico. Se non è madre, il discorso non cambia: conosciamo benissimo la situazione occupazionale femminile, che per altro al Sud è massima (solo una donna su quattro lavora, dati Svimez).
In un paese in piena crisi economica, dove la disoccupazione femminile è ai massimi storici e l'occupazione - quando c'è - è estremamente instabile e soggetta allo sfruttamento legalizzato (forme contrattuali che possiamo definire "creative", vedi stage non retribuiti & co.), dove la mia generazione è considerata politicamente zero e deve, di fatto, sopravvive affidandosi alle ultime briciole dei genitori, che politicamente rappresentano l'ultimo scoglio in termini di reddito dell'Italia garantita ("i privilegiati col posto fisso", ecc: nei casi ancora fortunati), dico, nel paese delle dimissioni in bianco e della conciliazione impossibile maternità/lavoro, in un paese del genere è chiaro che una donna può buttarsi in politica soltanto se se lo può permettere e molto spesso questo non avviene. E oltre al problema del reddito, già segnato da asimmetria profonda di genere, la cultura è potente e la nostra cultura è patriarcale oltre che classista.
Il problema è dunque prima di tutto materiale, reddito.
Ma come sappiamo il problema è al contempo culturale. Senza pretendere di esaurire il problema, sappiamo che sin dalla più tenera infanzia si viene educate ad aspirare a un raggio decisamente ristretto di ambizioni e modelli in cui identificarsi: questi hanno sempre come sfondo la casa, la cura familiare. Poca stima in se stesse. L'assertività viene mal vista nelle donne, e generalmente viene scoraggiata in ambito educativo se non punita e sanzionata socialmente. Non sei una vera femmina se sai quello che vuoi, se non tremi per eccesso di emotività incontrollata, se l'abito bianco non è la tua ragione di vita e se desideri un'indipendenza in primo luogo psicologica oltre che economica. Questo modello è fomentato in famiglia, è fomentato nelle istituzioni educative, è fomentato dai media con la rappresentazione quantomeno monolitica delle donne ancora ferma allo schemino ottocentesco puttana o madonna. In questo contesto culturale e sociale, che scoraggia sin dall'inizio la stessa lontana idea che una donna possa avere qualcosa a che fare con l'arena politica, che richiede appunto non solo molto tempo a disposizione e un reddito, ma anche assertività, fiducia in se stesse, riconoscimento sociale come soggetto capace, non ci meravigliamo se le donne in politica sono poche. Non saranno le nostre quote a sfiorare neanche da lontano il problema, che è materiale: classe, e culturale: modelli educativi e mediatici patriarcali.
Allora, se il problema da risolvere è quello dell'accesso alle cariche politiche, e se i motivi della carenza di presenza femminile sono, in linea generale, questi, e se non si interviene sistematicamente su di essi, che senso ha parlare di quote di genere?
Il punto è che non si fa praticamente niente per invertire la rotta, sia in termini di reddito, sia in termini culturali. Non esiste un ministero per le pari opportunità, è vero, ma non credo che, a parte qualche simpatico proclama, avrebbe davvero cambiato qualcosa. Potrebbe cambiare qualcosa, invece, un approccio trasversale ai ministeri finalizzato alla promozione sistematica e continua delle pari opportunità. Ma per questo serve in primo luogo una consapevolezza seria di che cosa siano le pari opportunità, la quale, intuile ripeterlo, non ce l'hai in automatico perché donna; in secondo luogo di come vadano promosse in modo serio; e in terzo luogo, che è il più importante, una volontà autentica di promuoverle. E' questa che è sempre mancata e continua a mancare nelle sedi preposte. Ho un'idea precisa sul perché manchi: magari ne riparliamo.
Le pari opportunità, com'è noto (o non è noto?), sono le uguali condizioni sostanziali e concrete di partenza per tutte e per tutti. Hanno a che fare con la condizione di classe, con il genere e anche con la nazionalità delle persone; con la provenienza geografica, ma anche con la salute.
Le pari opportunità sono cioè una questione concreta e sostanziale, non una questione formale. Le quote di genere intervengono solo su un piano estrinseco e formale, che non c'entra affatto con le pari opportunità, le quali hanno a che fare con la dimensione sostanziale.
Un Parlamento che mi fa l'alternanza di genere nelle liste bloccate, dunque, senza realizzare in modo sistematico politiche realmente intese alle pari opportunità, può utilizzarmi la questione delle quote soltanto per:
1) propaganda
2) autoassoluzione.
Che sono strettamente intrecciate. Infatti, chi è pro quote potrà sventolare il suo attaccamento alla causa di genere per motivi elettorali, il che però si comprende soltanto alla luce di 2), e cioè l'autoassoluzione: non mi impegno davvero per le pari opportunità, però voglio le quote, quindi come vedi sono progressista. Quel che sta facendo Renzi, precisamente.
Il risultato è cioè meramente ideologico ed "elettorale". Non incide neanche da lontano sulla realtà della discriminazione di genere e di classe.
Qualcuno dice che non comprende le femministe che sono contro le quote. Io invece dico: non comprendo le femministe che ne sono a favore, perché si prestano a un concetto che strumentalizza la questione di genere.
Mi spingo infatti a credere che le quote sarebbero addirittura dannose, non solo inutili. I danni, qualora fossero introdotte le quote, sono almeno tre:
1) si crea l'illusione che le donne abbiano davvero pari opportunità nell'accesso alle cariche;
2) si distoglie l'attenzione dai meccanismi marci della cooptazione perché se facciamo le quote sembriamo democratici;
3) si avalla il classismo già ampiamente esistente nella selezione della classe partitocratica.
Che c'entra la parità con tutto questo?
Accettare le quote di genere, dunque, sarebbe non solo la sanzione pubblica e la prosecuzione di un fallimento, ma anche un'ottima bandiera da sventolare per strumentalizzare un problema serio che nessuno vuole affrontare, ma al contempo presentandosi come autenticamente interessati alla parità.
Secondo me dunque la questione nella sua essenza è solo pinkwashing e propaganda.
Ora, per onestà, non posso ignorare l'unico argomento a favore - posti tutti i punti già espressi - delle quote di genere.
L'unico "vantaggio" che potrei riconoscere alle quote di genere, è un vantaggio di immagine. Vedremmo donne - sempre che se lo sono potuto permettere, sempre non necessariamente consapevoli in tema pari opportunità esattamente come gli uomini, sempre avvantaggiate in partenza - sulle poltrone e in tv. Svecchieremmo un po' l'immagine della casalinga disperata e della valletta. Magari qualche adolescente potrebbe sentirsi ispirata e desiderare di entrare in un partito. Ma questa adolescente continuerebbe a doverselo poter permettere, continuerebbe a muoversi dentro un sistema che ne ostacola a ogni passo l'autodeterminazione e anzi, se riuscisse ad arrivare ai famosi piani alti delle cricche di partito, dopo averne accettate le bieche logiche di cooptazione, magari sarebbe ulteriormente ostacolata perché le si direbbe: tu sei qui solo per le quote. Di discriminazioni ne abbiamo già troppe, non creiamo un altro problema con lo strumento che si pensava lo risolvesse.
L'unico approccio che ha un senso è quello sostanziale. Servirebbe cambiare radicalmente la logica elettorale - ma de che stamo a parlà? a chi interessa? visto lo sbarramento? eheheh: ridiamo che è meglio - ma prima di tutto un'autentica volontà di promuovere le pari opportunità in modo sistematico.
We only need reddito e femminismo (non strumentale): queste parolacce. Tutto il resto è propaganda.
Consiglio di leggere l'articolo di Elettra Deiana. E mi trovo d'accordo su diversi punti con il blog Abbatto i muri.
Per me la questione "parità" nell'accesso alle cariche pubbliche ha senso solo se collegata (almeno) a queste due domande.
Qualcuno critica la confusione, che fa chi contesta le quote, tra il diritto di accesso alle cariche e il problema sostanziale di genere. Secondo me, invece, la confusione è oggettiva: nel senso che non si può trattare un problema senza considerare l'altro, ammenoché non vogliamo fare finta di trattarlo per motivi strumentali. Non discuto sulla buona fede di molte/i, ma non possiamo trattare i due piani come se fossero distinti, sarebbe schizofrenico. I due piani vanno "confusi" per forza, perché sono "confusi" in partenza - in quanto il problema del diritto di accesso alle cariche esiste perché esiste una discriminazione sul piano sostanziale.
All'interno di un contesto che funziona ancora per cooptazione, all'interno di un contesto in cui già in partenza una donna che volesse impegnarsi nei partiti è penalizzata per motivi culturali e materiali, il meccanismo delle quote continuerebbe a funzionare nell'ambito abbondantemente marcio di giochi di forza di partito, segnati da cooptazione, classismo e sessismo, strettamente intrecciati. La parola "democrazia" fa a pugni con tutte e tre, com'è noto (o forse non è noto?).
Per me non si può affrontare la questione di genere come problema di democrazia senza affrontare al contempo la questione cooptazioni.
Nelle ultime elezioni politiche, le liste sono state decise dalle cricche di partito, nel chiuso delle stanze: la legge elettorale lo permetteva e continuerà a permetterlo. Sicché a me cittadina mi si presentavano delle liste profondamente schizofreniche: dico solo che in Calabria c'era Rosy Bindi nella lista PD e Scilipoti per il PDL. Questa cosa non è normale: io non li avevo mai visti in Calabria, prima. Ma al di là della rappresentanza regionale, la cooptazione è grave e vergognosa perché riguarda in primo luogo in base a quale criterio Pinco Pallo e Ciccia Bomba sono capolista, rispetto a Gigia e Sempronio che ne sono stati esclusi perché piazzati sotto o non inseriti del tutto. Si tratta di logiche da cricca, che questa legge elettorale continua ad avallare.
(L'unica eccezione alle ultime politiche è stato, oggettivamente, il M5S. Un movimento che, sebbene in modo imperfetto, all'interno di un sistema elettorale marcio ha quantomeno permesso ai suoi iscritti di scegliere chi mettere in lista e a che altezza. M5S che del resto si è mostrato in diverse occasioni mediatiche ben sessista).
Quindi, dicevo, non si può considerare la questione parità senza considerare la questione cooptazione, e il modo stesso con cui concepiamo il concetto "elezioni". Perché comunque la parità e il merito non c'entrano già in partenza. Non è per merito che Scilipoti, per fare l'esempio più clamoroso, è finito nella lista elettorale PDL Calabria alle ultime politiche ed è da noi tutti, oggi, regolarmente stipendiato. Non è per merito che Rosy Bindi è finita capolista PD in Calabria (io in Calabria, prima, non l'avevo mai vista).
Quindi anche chi contesta le quote di genere con l'argomento del merito dimentica che il merito manca proprio alla radice, nel metodo - che è sostanza - stesso della creazione delle liste.
E al contempo, a chi invece usa lo stesso dato dell'assenza del merito sostenendo le quote - "comunque non c'è merito, tanto vale fare le quote" - risponderei che non so che farmene di una ripartizione simmetrica di poltrone per generi, se già in partenza il meccanismo è profondamente antidemocratico. E' inutile. Ma anche dannoso, secondo me, come spiego più avanti.
In secondo luogo, per me non si può affrontare la questione di genere senza affrontare al contempo la questione di classe. Perché è nell'incrocio genere/classe che la discriminazione si fa viva nel problema della carenza di donne nei luoghi di potere.
Per arrivare ai luoghi di potere, infatti, è necessario in primo luogo un reddito. Per entrare nell'attivismo dei partiti è necessario molto tempo e dedizione, e lo fa, a conti fatti, solo chi se lo può permettere.
Questo vale anche per gli uomini. Lei, però, nel nostro contesto sociale, per fare lunghi mesi di militanza assidua non deve avere figli e al contempo un reddito basso, semplicemente perché se fosse così, non potrebbe contare su strutture pubbliche e gratuite adeguate e tanto meno, nella maggioranza dei casi, su una divisione simmetrica del lavoro domestico. Se non è madre, il discorso non cambia: conosciamo benissimo la situazione occupazionale femminile, che per altro al Sud è massima (solo una donna su quattro lavora, dati Svimez).
In un paese in piena crisi economica, dove la disoccupazione femminile è ai massimi storici e l'occupazione - quando c'è - è estremamente instabile e soggetta allo sfruttamento legalizzato (forme contrattuali che possiamo definire "creative", vedi stage non retribuiti & co.), dove la mia generazione è considerata politicamente zero e deve, di fatto, sopravvive affidandosi alle ultime briciole dei genitori, che politicamente rappresentano l'ultimo scoglio in termini di reddito dell'Italia garantita ("i privilegiati col posto fisso", ecc: nei casi ancora fortunati), dico, nel paese delle dimissioni in bianco e della conciliazione impossibile maternità/lavoro, in un paese del genere è chiaro che una donna può buttarsi in politica soltanto se se lo può permettere e molto spesso questo non avviene. E oltre al problema del reddito, già segnato da asimmetria profonda di genere, la cultura è potente e la nostra cultura è patriarcale oltre che classista.
Il problema è dunque prima di tutto materiale, reddito.
Ma come sappiamo il problema è al contempo culturale. Senza pretendere di esaurire il problema, sappiamo che sin dalla più tenera infanzia si viene educate ad aspirare a un raggio decisamente ristretto di ambizioni e modelli in cui identificarsi: questi hanno sempre come sfondo la casa, la cura familiare. Poca stima in se stesse. L'assertività viene mal vista nelle donne, e generalmente viene scoraggiata in ambito educativo se non punita e sanzionata socialmente. Non sei una vera femmina se sai quello che vuoi, se non tremi per eccesso di emotività incontrollata, se l'abito bianco non è la tua ragione di vita e se desideri un'indipendenza in primo luogo psicologica oltre che economica. Questo modello è fomentato in famiglia, è fomentato nelle istituzioni educative, è fomentato dai media con la rappresentazione quantomeno monolitica delle donne ancora ferma allo schemino ottocentesco puttana o madonna. In questo contesto culturale e sociale, che scoraggia sin dall'inizio la stessa lontana idea che una donna possa avere qualcosa a che fare con l'arena politica, che richiede appunto non solo molto tempo a disposizione e un reddito, ma anche assertività, fiducia in se stesse, riconoscimento sociale come soggetto capace, non ci meravigliamo se le donne in politica sono poche. Non saranno le nostre quote a sfiorare neanche da lontano il problema, che è materiale: classe, e culturale: modelli educativi e mediatici patriarcali.
Allora, se il problema da risolvere è quello dell'accesso alle cariche politiche, e se i motivi della carenza di presenza femminile sono, in linea generale, questi, e se non si interviene sistematicamente su di essi, che senso ha parlare di quote di genere?
Il punto è che non si fa praticamente niente per invertire la rotta, sia in termini di reddito, sia in termini culturali. Non esiste un ministero per le pari opportunità, è vero, ma non credo che, a parte qualche simpatico proclama, avrebbe davvero cambiato qualcosa. Potrebbe cambiare qualcosa, invece, un approccio trasversale ai ministeri finalizzato alla promozione sistematica e continua delle pari opportunità. Ma per questo serve in primo luogo una consapevolezza seria di che cosa siano le pari opportunità, la quale, intuile ripeterlo, non ce l'hai in automatico perché donna; in secondo luogo di come vadano promosse in modo serio; e in terzo luogo, che è il più importante, una volontà autentica di promuoverle. E' questa che è sempre mancata e continua a mancare nelle sedi preposte. Ho un'idea precisa sul perché manchi: magari ne riparliamo.
Le pari opportunità, com'è noto (o non è noto?), sono le uguali condizioni sostanziali e concrete di partenza per tutte e per tutti. Hanno a che fare con la condizione di classe, con il genere e anche con la nazionalità delle persone; con la provenienza geografica, ma anche con la salute.
Le pari opportunità sono cioè una questione concreta e sostanziale, non una questione formale. Le quote di genere intervengono solo su un piano estrinseco e formale, che non c'entra affatto con le pari opportunità, le quali hanno a che fare con la dimensione sostanziale.
Un Parlamento che mi fa l'alternanza di genere nelle liste bloccate, dunque, senza realizzare in modo sistematico politiche realmente intese alle pari opportunità, può utilizzarmi la questione delle quote soltanto per:
1) propaganda
2) autoassoluzione.
Che sono strettamente intrecciate. Infatti, chi è pro quote potrà sventolare il suo attaccamento alla causa di genere per motivi elettorali, il che però si comprende soltanto alla luce di 2), e cioè l'autoassoluzione: non mi impegno davvero per le pari opportunità, però voglio le quote, quindi come vedi sono progressista. Quel che sta facendo Renzi, precisamente.
Il risultato è cioè meramente ideologico ed "elettorale". Non incide neanche da lontano sulla realtà della discriminazione di genere e di classe.
Qualcuno dice che non comprende le femministe che sono contro le quote. Io invece dico: non comprendo le femministe che ne sono a favore, perché si prestano a un concetto che strumentalizza la questione di genere.
Mi spingo infatti a credere che le quote sarebbero addirittura dannose, non solo inutili. I danni, qualora fossero introdotte le quote, sono almeno tre:
1) si crea l'illusione che le donne abbiano davvero pari opportunità nell'accesso alle cariche;
2) si distoglie l'attenzione dai meccanismi marci della cooptazione perché se facciamo le quote sembriamo democratici;
3) si avalla il classismo già ampiamente esistente nella selezione della classe partitocratica.
Che c'entra la parità con tutto questo?
Accettare le quote di genere, dunque, sarebbe non solo la sanzione pubblica e la prosecuzione di un fallimento, ma anche un'ottima bandiera da sventolare per strumentalizzare un problema serio che nessuno vuole affrontare, ma al contempo presentandosi come autenticamente interessati alla parità.
Secondo me dunque la questione nella sua essenza è solo pinkwashing e propaganda.
Ora, per onestà, non posso ignorare l'unico argomento a favore - posti tutti i punti già espressi - delle quote di genere.
L'unico "vantaggio" che potrei riconoscere alle quote di genere, è un vantaggio di immagine. Vedremmo donne - sempre che se lo sono potuto permettere, sempre non necessariamente consapevoli in tema pari opportunità esattamente come gli uomini, sempre avvantaggiate in partenza - sulle poltrone e in tv. Svecchieremmo un po' l'immagine della casalinga disperata e della valletta. Magari qualche adolescente potrebbe sentirsi ispirata e desiderare di entrare in un partito. Ma questa adolescente continuerebbe a doverselo poter permettere, continuerebbe a muoversi dentro un sistema che ne ostacola a ogni passo l'autodeterminazione e anzi, se riuscisse ad arrivare ai famosi piani alti delle cricche di partito, dopo averne accettate le bieche logiche di cooptazione, magari sarebbe ulteriormente ostacolata perché le si direbbe: tu sei qui solo per le quote. Di discriminazioni ne abbiamo già troppe, non creiamo un altro problema con lo strumento che si pensava lo risolvesse.
L'unico approccio che ha un senso è quello sostanziale. Servirebbe cambiare radicalmente la logica elettorale - ma de che stamo a parlà? a chi interessa? visto lo sbarramento? eheheh: ridiamo che è meglio - ma prima di tutto un'autentica volontà di promuovere le pari opportunità in modo sistematico.
We only need reddito e femminismo (non strumentale): queste parolacce. Tutto il resto è propaganda.
Consiglio di leggere l'articolo di Elettra Deiana. E mi trovo d'accordo su diversi punti con il blog Abbatto i muri.
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