Ho scoperto Carl Einstein da poco. Tedesco trapiantato in Francia, ha fatto la guerra di Spagna nella colonna Durruti e si è suicidato, come Walter Benjamin, per sfuggire ai nazisti. Ho subito ammirato la sua vis polemica, il suo spirito critico tagliente, la violenza dei suoi pensieri. Aveva un modo di scrivere aspro, che i più consideravano incomprensibile, e perciò era un po' esiliato nel suo tempo.
Anche se preannuncia diversi tratti "postmodernisti" e, nonostante, credo, debba molto a Nietzsche e a Freud, le sue posizioni in alcuni casi vanno oltre, secondo me, il già detto, e quel che è interessante è soprattutto il modo con cui si approcciava alle cose. Ha scritto molto e ha lavorato con Georges Bataille per la rivista Documents. Di entrambi apprezzo il gusto per gli scheletri nell'armadio dell'esistenza, come dire, l'attitudine alla dissacrazione.
Carl Einstein è un autore semisconosciuto, anche in Italia. Didi-Huberman ha spiegato perché in un bellissimo profilo critico. Fra l'altro, considerava l'arte come un'esperienza di conflitto: parlava dell'immagine come di una lotta di tutte le esperienze. Per questo detestava l'arte compiacente, la "strizzata d'occhio psicologica" (Cfr. G. Didi-Huberman, Storia dell'arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007). L'arte deve creare il mondo, non lo deve presupporre, secondo Einstein.
Mi piace la sua libertà, il suo tormento. Non separava i campi, era tutto insieme - la conoscenza, l'esperienza artistica, la lotta in Spagna erano tutte un'unica istanza radicale. Questo volere tutto dalla vita, volersi prendere tutto e voler fare tutto, senza sconti e senza mai dire no all'inquietudine, è già di per sé qualcosa di speciale.
Voleva distruggere il "moi", il sé, ha provato a farlo attraverso uno sperimentalismo libero - in Bebuquin, ovvero i dilettanti del miracolo e in seguito anche in Bebuquin II, rimasto incompiuto. L'io, secondo lui, è solo una razionalizzazione ex post, l'ennesima superstizione borghese (!). Di Goethe, per esempio, diceva che avesse scritto un'unica, gigantesca autobiografia, che il suo era solo un narcisismo sublimato. Era dunque uno che poteva permettersi di dire che Goethe era un dilettante: a leggerlo si è quasi convinti che non avesse torto. Insomma, anche se non condivido molte cose da lui sostenute, è un autore che dà da pensare, e mi sembra valga la pena riportare qualche passaggio della sua riflessione, che, non so perché, mi torna spesso in mente...
Da Carl Einstein, Rivolta, in Lo snob e altri saggi, a c. di G. Zanasi, Guida, Napoli 1985, pp. 157 - 158:
Anche se preannuncia diversi tratti "postmodernisti" e, nonostante, credo, debba molto a Nietzsche e a Freud, le sue posizioni in alcuni casi vanno oltre, secondo me, il già detto, e quel che è interessante è soprattutto il modo con cui si approcciava alle cose. Ha scritto molto e ha lavorato con Georges Bataille per la rivista Documents. Di entrambi apprezzo il gusto per gli scheletri nell'armadio dell'esistenza, come dire, l'attitudine alla dissacrazione.
Carl Einstein è un autore semisconosciuto, anche in Italia. Didi-Huberman ha spiegato perché in un bellissimo profilo critico. Fra l'altro, considerava l'arte come un'esperienza di conflitto: parlava dell'immagine come di una lotta di tutte le esperienze. Per questo detestava l'arte compiacente, la "strizzata d'occhio psicologica" (Cfr. G. Didi-Huberman, Storia dell'arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007). L'arte deve creare il mondo, non lo deve presupporre, secondo Einstein.
Mi piace la sua libertà, il suo tormento. Non separava i campi, era tutto insieme - la conoscenza, l'esperienza artistica, la lotta in Spagna erano tutte un'unica istanza radicale. Questo volere tutto dalla vita, volersi prendere tutto e voler fare tutto, senza sconti e senza mai dire no all'inquietudine, è già di per sé qualcosa di speciale.
Voleva distruggere il "moi", il sé, ha provato a farlo attraverso uno sperimentalismo libero - in Bebuquin, ovvero i dilettanti del miracolo e in seguito anche in Bebuquin II, rimasto incompiuto. L'io, secondo lui, è solo una razionalizzazione ex post, l'ennesima superstizione borghese (!). Di Goethe, per esempio, diceva che avesse scritto un'unica, gigantesca autobiografia, che il suo era solo un narcisismo sublimato. Era dunque uno che poteva permettersi di dire che Goethe era un dilettante: a leggerlo si è quasi convinti che non avesse torto. Insomma, anche se non condivido molte cose da lui sostenute, è un autore che dà da pensare, e mi sembra valga la pena riportare qualche passaggio della sua riflessione, che, non so perché, mi torna spesso in mente...
Da Carl Einstein, Rivolta, in Lo snob e altri saggi, a c. di G. Zanasi, Guida, Napoli 1985, pp. 157 - 158:
«[...] Rivolta e rivoluzione vanno nettamente distinte: la rivolta è il principio costante che il singolo porta dentro di sé, un modo di pensare e di sentire. I più lo dimenticano in omaggio all'integrazione sociale etc., molti lo riducono a opposizione dialettica.
La rivolta presuppone il convincimento che questo mondo indifferente, dall'esito imprevedibile, sia irrilevante per l'uomo, che importi soltanto la realizzazione di un'idea e che quest'idea, tuttavia, ogni qual volta apparentemente si realizza, sia subito deturpata dal concorso di imprevedibili sfumature, controcorrenti e così via. La rivolta non è dogmatica, poiché il dogma dà sempre all'idea la veste di una realtà desiderata.
Il revolteur possiede un concetto inteso sempre a livello trascendentale, cioè a se stante. In una cosa non crede: nell'arricchimento delle idee in virtù del nesso funzionale. [...] Per il revolteur questo mondo sarebbe giustificato solo dal puro appagamento di un'istanza divina, dalla realizzazione di una logica. Dal momento che ciò non è possibile, egli rifiuterà sempre questo mondo [...].
Ciò che al revolteur appare assolutamente inverosimile è la legge, ossia la logica applicata. Egli è individuo metafisico (non psicologico) e la metafisica non è applicabile. [...] Per lui, infatti, la storia è del tutto insignificante, financo falsa in sé, perché in essa non si è mai potuta né si può realizzare un'idea.»
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