Appunti faziosi. Spero si capisca che con 'serietà' non intendo qui semplicemente la mancanza di senso dell'umorismo. (Anche se, a pensarci bene, in un certo senso sì).
Sembra che da un certo momento in poi, ci si aspetti da ognuno che diventi una persona seria. Questo rientra tra le richieste più bizzarre che la società fa a ogni suo malaugurato membro. Non si è capito bene perché, probabilmente perché sennò finirebbe male. Se non esistesse il monito 'persona seria' nell'universo morale delle persone, esse non circolerebbero tutte impettite e prese dai problemi molto seri della loro molto seria e più o meno gretta quotidianità, ma più probabilmente farebbero sesso in pubblico con gente sconosciuta, eviterebbero accuratamente di lavorare, picchierebbero il prossimo che non gli va a genio e si darebbero liberamente alle droghe.
Diventare una persona seria evoca immediatamente l'immagine del dovere, in ogni caso di qualcosa che col piacere - fino a prova contraria tutto quel che di interessante ha la vita, nda - non ci azzecca per niente. Mi pare a questo punto legittimo rievocare quella massima:
"crescere è rassegnarsi".Sembra la tipica frase da scrivere, tutti arrabbiati kol sistema, sui muri di una città invasa da centri commerciali e persone per bene. Può essere una frase da esibire se abbiamo una visione manichea della società, voi tutti schifo io buono. Ma c'è un fondo di verità molto importante. Una persona cresciuta è una persona che ha ricevuto svariati calci nel sedere ("il principio di realtà") e a quel principio smette di fargli la guerra a viso scoperto, di qui la rassegnazione, cioè, come dire, l'interiorizzazione del calcio nel sedere. La persona cresciuta ha dovuto scendere a patti con la realtà, rassegnarsi ad essa. Volessimo fare una sinossi molto molto succinta dell'opera omnia di Freud, probabilmente questa massima non sarebbe inadeguata.
Ma non è del tutto vero che le persone serie si rassegnano nel senso di deporre le armi. Esse in realtà hanno le stesse armi di prima, solo che le hanno camuffate con le buone maniere, ovvero con quelle che comunemente chiamiamo "le apparenze". Nella storia dell'umanità, da un certo momento in poi non è stato più possibile per gli umani esprimere totalmente se stessi senza incappare nel problema che tutti nello stesso tempo facevano altrettanto, con tutto il corollario di disordine che ciò probabilmente implicava. Almeno, questa è la narrazione corrente. Ma in realtà io non so cosa sia accaduto. So soltanto che nella mia epoca, berluscorenziana d.C., le cose funzionano che bisogna girare col dito sul grilletto ma senza darlo troppo a vedere - che è appunto la definizione più appropriata di "serietà".
Tutta questa serietà che la gente si aspetta da me, tutta questa serietà nella quale la gente si applica sadicamente ogni giorno quando diviene adulta, non è altro che la banalissima e maldestra espressione di una certa paura di vivere che si fa fatica a confessarsi. Questa paura si tramanda di generazione in generazione. Rispedirla al mittente non è del tutto possibile. Ci siamo tutti dentro. Ma per quanto possibile, occorre prendere le distanze da tutta questa gente seria in circolazione, senonaltro per motivi igienici. Per mantenersi sempre aperti, cioè, alle cose veramente interessanti della vita (cioè alla vita tout court).
Mi dicono dalla regia che comunque bisogna lavorare, quindi non si scappa. Infatti è così che diventiamo tutti seri, quando si tratta di lavorare. Nel lavoro esistono le regole e le gerarchie e soprattutto ci sono di mezzo i commercialisti. Quindi, poiché tutti odiano lavorare ma devono pur farlo, ecco che l'odio represso prende le forme di una frustrazione coatta: se sono depresso io, devi esserlo anche tu, di qui ad essere tutti seri il passo è breve.
Mi dicono dalla regia che comunque bisogna lavorare, quindi non si scappa. Infatti è così che diventiamo tutti seri, quando si tratta di lavorare. Nel lavoro esistono le regole e le gerarchie e soprattutto ci sono di mezzo i commercialisti. Quindi, poiché tutti odiano lavorare ma devono pur farlo, ecco che l'odio represso prende le forme di una frustrazione coatta: se sono depresso io, devi esserlo anche tu, di qui ad essere tutti seri il passo è breve.
E' che vedo tutta questa gente che dice le cose giuste al posto e al momento giusto. Che calza perfettamente le scarpe della normalità, che fa le cose che si fanno, che guarda storto quelli che fanno le cose che non si fanno. Per quelle c'è il privato, il proprio cantuccio, il particolare: quando è nascosto, è tollerato. Occhio non vede...
Particolarmente drammatico poi è il giovane - colui che in teoria deve ancora crescere, colui che può ancora arrogarsi il diritto di sottrarsi alla morsa del principio di realtà - che parla il linguaggio del vecchio. Questa cosa mi procura dei dolori lancinanti a metà tra la trachea e l'esofago, ne ho visti a decine, di giovani vecchi. Vai a vedere perché. Forse per farsi rilasciare l'autorizzazione a esistere da chi detiene il potere e il monopolio del linguaggio legittimo, notoriamente i vecchi: essere accettati ed esistere o essere rifiutati e stare ai margini, è questo il grande ricatto sotto cui soccombono intere generazioni. Per farsi accettare il giovane si piega al ricatto, che a sua volta perpetua su tutti gli altri.
Si badi che tutto ciò è infinitamente lontano da una predica giovanilista: qui si dice proprio il contrario, che certo giovanilismo è esso stesso vecchio...
La serietà non è soltanto noiosa - almeno quanto la frivolezza obbligatoria -, è anche prepotente, nel senso che si presenta immediatamente come normativa. Ha l'aria delle percosse e della punizione, è lo sguardo del padre padrone prima di picchiare il figlio monello. E' un monito ambulante: chi lo ha ricevuto lo deve ripetere.
L'arroganza della serietà risiede nel fatto che ignora completamente il fattore "morte". Nessuna persona che sia profondamente cosciente di dover morire, e di poter morire in quanto suscettibile di malattia e di rottura, può essere una persona seria...
Dice che crescere comporta questo e quello, la pacchia finisce, fai la persona seria, lascia perdere, basta illusioni. Io penso che crescere consista essenzialmente nell'avere inanellato una certa quantità di lutti. Questi lutti sono lutti di idee, di esperienze, di identità, di percorsi, di oggetti, di persone: il percorso di ciascuno è costellato di tante piccole e grandi perdite, che vanno ad accumularsi e che ci si racconta in qualche modo significativo. Ebbene, crescere è solo conoscere meglio il sapore del lutto, muoversi nella perdita con l'aria di chi l'ha già fatto, ma non per questo lo fa più a suo agio. Non credo che crescere significhi altro che non un certo disincanto. La distanza tra il crescere in questo senso e il crescere nel senso di rassegnarsi si misura sul modo di intendere questo disincanto: c'è un disincanto radicale e ottuso, che è quello di chi diventa una persona seria, e c'è un disincanto che non ha chiuso tutte le porte all'incanto, in qualunque modo si voglia intendere questa parola.
Si badi che tutto ciò è infinitamente lontano da una predica giovanilista: qui si dice proprio il contrario, che certo giovanilismo è esso stesso vecchio...
La serietà non è soltanto noiosa - almeno quanto la frivolezza obbligatoria -, è anche prepotente, nel senso che si presenta immediatamente come normativa. Ha l'aria delle percosse e della punizione, è lo sguardo del padre padrone prima di picchiare il figlio monello. E' un monito ambulante: chi lo ha ricevuto lo deve ripetere.
L'arroganza della serietà risiede nel fatto che ignora completamente il fattore "morte". Nessuna persona che sia profondamente cosciente di dover morire, e di poter morire in quanto suscettibile di malattia e di rottura, può essere una persona seria...
Dice che crescere comporta questo e quello, la pacchia finisce, fai la persona seria, lascia perdere, basta illusioni. Io penso che crescere consista essenzialmente nell'avere inanellato una certa quantità di lutti. Questi lutti sono lutti di idee, di esperienze, di identità, di percorsi, di oggetti, di persone: il percorso di ciascuno è costellato di tante piccole e grandi perdite, che vanno ad accumularsi e che ci si racconta in qualche modo significativo. Ebbene, crescere è solo conoscere meglio il sapore del lutto, muoversi nella perdita con l'aria di chi l'ha già fatto, ma non per questo lo fa più a suo agio. Non credo che crescere significhi altro che non un certo disincanto. La distanza tra il crescere in questo senso e il crescere nel senso di rassegnarsi si misura sul modo di intendere questo disincanto: c'è un disincanto radicale e ottuso, che è quello di chi diventa una persona seria, e c'è un disincanto che non ha chiuso tutte le porte all'incanto, in qualunque modo si voglia intendere questa parola.
Ma per farla breve. Ho rivisto delle persone che frequentavo in adolescenza, e sono sconvolta, sono diventate persone serie. Un minuto di silenzio. Mentre chiacchieravamo amabilmente, dentro di me si consumava una tragedia. Perché, perché, si chiedeva il mio subconscio tra le lacrime. Possibile? Così giovane? Aveva tutta la vita davanti.
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