Quando uno ha avuto l’ormai per
niente rara fortuna di trascorrere uno, due, tre, sei o dodici mesi all’estero,
sembra indispensabile che da quel momento in poi debbano saperlo tutti. Il
mondo ruota attorno al mio Erasmus, pensa ossessivamente il protagonista dello
stesso. Ciò si rivela in modo stringente soprattutto nelle conversazioni con
persone appena conosciute.
Ciao, piacere, Maria.
Piacere, Francesco, ho fatto l’Erasmus.
Tutti i discorsi che da allora in poi Francesco affronterà con il prossimo, non potranno evitare di includere questo passaggio obbligato, anche e soprattutto nel caso di conversazioni che non richiedono affatto alcun riferimento a quel tipo di esperienza. Non ci sarà conversazione sul tagliaunghie, sulla lavastoviglie, sul tanga come sull’amabilità degli uccelli a primavera, che non possa in qualche modo essere dirottata sul concetto:
Impossibile dirottare a propria volta la conversazione. Essa
sarà in ogni caso concepita in termini competitivi, come una succosa occasione
di sfoggio dei rispettivi vanti, e il soggetto in questione è particolarmente abile a portare avanti relazioni verbali di tipo sostanzialmente autistico. Perché se non c'è ascolto, viene meno l'obbligo dell'argomento condiviso, sicché mentre io parlo di patate, il soggetto si sarà tranquillamente autolegittimato a parlare di quell'esperienza incredibile fatta il 16 maggio a Valencia col suo coinquilino cinese coinvolgendo gagliardamente le ragazze del piano di sotto e quanta sangrìa che c'era.
Mi trovo mio malgrado a notare inoltre, che purtroppo ormai associo all'espressione "Erasmus" tutto tranne che lo studio: cazzeggio, discoteche, relazioni genitali internazionali, tutto fuorché libri e lezioni. Con questo intendo semplicemente esprimere una mia consueta associazione mentale, sperando davvero che non esaurisca il concetto di Erasmus.
La persona ostenterà, quindi,
disinvolta e superiore conoscenza del Mondo, dei cui segreti ignoti alle masse discetterà
gettando occhiate alle unghie e/o sistemando superbamente il ciuffo di capelli
cascato sugli occhi. Tutto sarà valutabile a partire da una prospettiva
comparata, vieppiù soggettiva, che manicheisticamente presuppone una
superiorità a prescindere dell’ “estero” e un’inferiorità a prescindere
dell’Italia. (Ci limitiamo a constatare: non è detto che tale opposizione sia del tutto infondata, ma nutriamo il sospetto che lo sia sempre e per ogni ambito di questioni).
Ma va detto che il
fenomeno è diffuso e prepotente anche nell’ambito di quella cerchia di
persone che ha viaggiato molto per motivi universitari anche di superiore
livello: dottorati, postdottorati, master, progetti Leonardo o che. In quel
caso le caratteristiche del banalissimo studente Erasmus sono infinitamente più
marcate, e tendono a colorarsi di un senso di superbia e di esclusività che ha,
francamente, qualcosa di ottuso. Tu,
tu che rimani nella tua città di provincia (per costoro anche la Capitale è
perfettamente qualificabile in questi termini), sei intrinsecamente
deficitario, e il mio compito, adesso, è rimarcarlo a ogni pié sospinto: non per
comunicare o condividere alcunché, ma solo per ribadire a me stesso e al mondo
che
Io all’estero mi sento come a casa mia.
Perché andare all’estero fa fico.
Ed è fico davvero. Ma tutto ciò
che è ostentazione a noi anacronisti non ci piace manco per niente. Lo studio viene a risolversi in questa
dinamica tra chi ha collezionato più viaggi all’estero. Si tratta di meccanismucci relazionali
tipici del primo mondo: del borghese medio ai tempi di Ryanair. Ormai non è più
eccezionale, dunque poco senso ha vantarsene – ammesso e non concesso che se fosse
eccezionale sarebbe sensato vantarsene.
Devo aggiungere una postilla che
forse c’entra poco, ma non è detto. Ormai le università si stanno riempiendo di
emo e di 14enni incidentalmente incappati nella maggiore età che scimmiottano gli “alternativi”.
In conclusione, fra questi
e quelli sembra che per studiare sia meglio chiudersi in casa a quattro
mandate, in scrupolosa solitudine.
PS: beninteso, viaggiare e farlo anche per studio sia una delle cose più belle che possano capitare. Né critichiamo il parlare stesso di esperienze all'estero: ne critichiamo l'involuzione narcisistica e del tutto autoreferenziale che ha luogo presso molte persone.
Il discorso è diverso, e chi non vuole capirlo, beh, fatti suoi.
Bel post. Sottoscrivo tutto. Trovo inquietante, in particolare (forse perché più vicino alla mia esperienza diretta, ma anche in relazione alle conseguenze di lungo periodo sulla forma mentis generale), l'imporsi di questa tendenza nell'università. Quasi che lo studio, la riflessione, il confronto con i testi, contino meno delle "esperienze all'estero" (da elencare sul CV, ovvio). Poi, magari, ci si stupisce che chi non ha viaggiato più di tanto abbia pubblicato di più, e su un più alto livello qualitativo, di chi ha saltabeccato per anni di qua e di là. Parlo per esperienza vissuta, e vissuta da parte mia con incredulità nel constatare lo stupore dell'interlocutore... Se si riesce a studiare con serietà e al contempo inanellare viaggi "di studio" all'estero, ben venga (purché lo si faccia per propria volontà, senza doversi conformare a un modello imposto); ma che anche nell'unico luogo istituzionale in cui dovrebbe essere ancora possibile rivendicare il valore della riflessione e dello studio, debba acriticamente prevalere il modello del "giovane dinamico tanto estroverso" che spadroneggia ovunque... beh, come al solito ci si fa del male da soli.
RispondiEliminaGià. Questo punto andava sottolineato. La quantità prende il sopravvento sulla qualità.
RispondiEliminaIl modello del giovane dinamico tanto estroverso ha dunque validità assoluta, trasversale ai settori. Lo studio ahinoi mal si concilia con quello. Da un po' mi ronza un'idea in testa: e se l'università così com'è attualmente, fosse il luogo meno adatto per lo studio, paradossalmente?
Ciao Ele, mi fa sempre piacere leggerti :)
Bella domanda... per quanto riguarda lo studio in vista della laurea, il modo in cui l'università è organizzata (lo saprai meglio di me) sicuramente non facilita la concentrazione e la riflessione su ciò che si studia. Mi riferisco soprattutto alla burocrazia, ai crediti, agli esami semestrali da preparare in gran numero e di gran carriera, alle borse che non ci sono, e amenità varie. Allo stesso tempo, non potrei neanche dire che essa è il luogo "meno adatto" per lo studio: raramente ho incontrato autodidatti che avessero un'idea sufficientemente chiara dei problemi retrostanti ai concetti e alle categorie che usavano con tanta disinvoltura. Questo mi porta a credere che una simile consapevolezza possa formarsi più probabilmente all'università, in cui comunque si viene indirizzati a uno studio (abbastanza) metodico e sistematico, che fuori di essa.
RispondiEliminaLa questione si fa più intricata, secondo me, per chi decide di proseguire dopo la laurea. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, ho conosciuto persone davvero appassionate, per le quali conta la sostanza e non l'apparenza. Però ho trovato anche parecchia competizione, narcisismo, strategia, e, spesso, il darsi da fare frenetico dietro a cose che assicurino visibilità personale, che "facciano colpo /facciano curriculum /facciano conoscenze", a discapito di un vero approfondimento di ciò che si dovrebbe studiare. E il problema più grave, secondo me, è quando questo atteggiamento viene premiato dall'alto, sulla base di un malinteso realismo (della serie "bisogna sapersi vendere") o di un'acritica venerazione per chi propone-fa-interviene. Con buona pace di tutti quelli che magari, in maniera meno appariscente, "semplicemente" studiano. Di conseguenza, questi ultimi, di solito, almeno ai primi tempi si trovano malaccio. Poi magari i risultati vengono fuori sulla lunga distanza... però è vero che in una certa misura bisogna "difendersi dall'università" (attuale) per poter studiare sul serio; il tutto con l'aggravio, per molti, di dover anche lavorare fuori di essa. Una volta che si sia riusciti ad assestarsi un po', tuttavia, si studia anche bene, perché comunque non mancano gli aspetti positivi e stimolanti. Infine, triste a dirsi, se non sei "dentro" l'università, diventa assai più difficile pubblicare i risultati dei propri studi, e quindi poter essere letti da persone a cui interessino ricerche specialistiche. Insomma, molto dipende dall'atteggiamento del singolo (e questo fa capire quante siano le cose che non vanno).
Ps: anche per me è un piacere leggere i tuoi aggiornamenti, ti seguo sempre con moolto interesse ;)
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RispondiEliminaPurtroppo competizione, narcisismo e strategia, sono una mia recente scoperta. Ho Infatti appurato che in tutti i settori dell'organizzazione del lavoro umana, c'è sempre questo piccolo problemino che rende il da farsi angosciante. Diceva Gaber, "la parola io è un'idea che si fa strada a poco a poco", per poi dominare tutto, "Io che non sono nato/ per restare per sempre/confuso nell'anonimato/ io mi faccio avanti/ non sopporto l'idea di sentirmi/ un numero fra tanti/ ogni giorno mi espando/ io posso essere il centro del mondo." Il particolare deforma l'universale, l'io deve rimarcare se stesso anche là dove l'oggetto dell'operare non lo contempla affatto. Questo c'è negli uffici comunali come nell'azienducola di provincia e nella mega azienda. Questo c'è nelle associazioni, come c'è nell'università. Disturba che anche la sede della riflessione (si pensava) per eccellenza, debba farci i conti.
RispondiEliminaD'altro canto, si potrebbe dire: senza competizione non ci sarebbe lo stimolo ad andare avanti. Ma non ci credo molto. La competizione è solo un'interferenza, un fastidioso elemento di disturbo al processo della conoscenza, soprattutto quando è contornata da tutta una serie di corollari simpatici del tipo sgomitiamo, del tipo facciamoci sempre vedere in prima linea, emergiamo danneggiando gli altri. Quando, cioè, prende pieghe sottilmente disoneste.
Per quanto riguarda quello che dici sulle pubblicazioni, ho di recente scoperto un bellissimo blog di una docente di Pisa che tratta il problema dell'open access delle pubblicazioni. La sua proposta credo che possa rendere più agevole un'apertura dei prodotti della ricerca a un numero crescente di persone, e la corrispondente possibilità per un numero crescente di persone di pubblicare e far conoscere i risultati delle proprie ricerche. Si scalzerebbe, cioè, quel sistema chiuso qual è quello attuale e permetterebbe una valutazione più oggettiva dei risultati di ricerca, in tal modo rendendo la competizione più esposta al vaglio del confronto di quanto non lo sia oggi. Vabé insomma, meglio sentire direttamente lei: http://www.youtube.com/watch?v=KtYEGNQnkeg
e questo è il blog http://minimacademica.wordpress.com/
Non so fino a che punto conti in questo discorso, ma è uno spunto in più di riflessione, che condivido con te perché mi ha colpito molto :)
Conosco, conosco (anche di persona), e approvo :)
RispondiEliminaPenso che il sistema dell'open access si imporrà in pochi anni, vista anche l'insostenibilità di quello attuale. Le biblioteche universitarie non ce la fanno più ad acquistare gli abbonamenti ai periodici ad accesso chiuso, e i fondi di ricerca per finanziare le pubblicazioni scarseggiano. Se l'open access prendesse davvero piede mi farebbe molto piacere (a riprova di questo, nel mio piccolo, presto pubblicherò un articolo e una tradizione su una rivista online); però, per come stanno adesso le cose, non mi sembra si possa già prescindere interamente dal vecchio sistema. Non per suoi meriti oggettivi, quanto per la diffusa concezione: "uh guarda quante pubblicazioni per editori prestigiosi"... la quale, purtroppo, ha anche risvolti pratici nei concorsi e nell'attribuzione di finanziamenti alle università. Tutto ciò ha poco a che fare con l'amore per il sapere e la diffusione di esso; è, ancora una volta, la facciata che garantisce (o dovrebbe garantire) per la sostanza, nonché una delle tante scelte autolesioniste che il sistema vigente fa apparire obbligate. Però, almeno su alcuni punti (di cui sarebbe un po' lungo scrivere qui, magari ne parliamo a voce ;)) si stanno elaborando collettivamente delle buone scappatoie. :)
Nel tuo breve racconto rivedo le facce, i toni, le espressioni di un quantitativo di studenti Erasmus et simili veramente non indifferente che ho incontrato. Per esperienza diretta posso confermare questo velo di presunta superiorità che si forma intorno a questi ragazzi. Per carità non tutti, c’è chi la vive come esperienza personale di vita da non ostentare continuamente, chi addirittura riesce a combinare qualcosa di significativo a livello accademico in Erasmus.
RispondiEliminaMa per la maggiore purtroppo va il modello che presenti tu.
L’irritazione sorge soprattutto dal vedere che non riescono ad esimersi dal dover constatare quanto tu sia statico, o poco curioso, quanto tu non ti voglia mettere in gioco, ecc… invece loro grandi viaggiatori del mondo, grandi conoscitori delle umane genti di tutto il globo. Gente che è partita alla scoperta di sé stessa…
Ma dove??
A far festa per 6 mesi a Barcellona con i soldi di Papy? Bel modo di mettersi in gioco guarda!
E tu ovviamente che sei rimasto perché hai scelto una tua via per perseguire i tuoi obiettivi, rimani sempre e comunque un passo indietro, uno rimasto nel suo bozzolo per troppo tempo, automaticamente uno meno “inn”, meno al passo coi tempi.
Tra l’altro dall’alto della loro profonda apertura mentale acquisita all’estero ne avessi mai trovato uno che si fosse mai domandato se magari ci possano essere ragioni più profonde nel non aver potuto fare l’erasmus. Tutti a puntare il dito contro e darti dell’arretrato.
Mi viene da pensare a Pascal per un attimo, ad una sua riflessione all’’interno dei Pensée “Molto spesso dietro la curiosità c’è solo vanità”. Ecco questo è quello che penso, che dietro questo desiderio di partire in realtà ci sia solo la voglia di colorire la proprio persona priva di particolarità, con un’esperienza che ti elevi dalla massa e ti renda “fico”. Non vedo il sano desiderio di confrontarsi col mondo per viverlo meglio e capire il prossimo. Vedo solo dei motivi estremamente egoistici.