Sono giunta alla conclusione che la maternità è, da un punto di vista non solo affettivo, ma anche cognitivo - una grande opportunità: un'angolatura speciale dalla quale guardare il mondo, un particolare che schiude le porte all'universale, la consapevolezza di essere natura e la concomitante coscienza di essere di più, la palestra di un'etica peculiare, relazionale, affettiva e più ampiamente normativa e sempre work in progress, il sentirsi snodo ontogenetico di un più vasto, immenso processo filogenetico. Inoltre, la sorpresa e la sfida della crescita, l'ingegnarsi per stimolare il potenziale del figlio, l'approccio autocorrettivo, l'autoriflessione e la messa in pratica, il dubbio pedagogico stemprato dalla distensione intellettuale nel gioco, la reviviscenza di uno stadio passato della propria storia, quindi l'immedesimazione in un formidabile esercizio di empatia e l'immersione nel microcosmo mentale del figlio, il piacere in questo, nel cogliere i suoi codici, nell'adattarvisi per leggerli, nella cornice della responsabilità e al contempo appunto del piacere, ne fanno un'esperienza prolungata, mentale oltre che affettiva, assolutamente unica. Sono portata dunque a pensare che la maternità costituisca un vantaggio cognitivo, un'apertura inedita alle cose, una possibilità concreta che si evolve e si attua, in un gioco del tutto peculiare fra atto e potenza. La maternità scolpisce il figlio nell'atto stesso in cui scolpisce la madre, in un perpetuo prendere forma ed evolversi a partire da una forma.
Naturalmente, non è detto che la maternità sia sempre così né che sia solo questo, né che chi non è madre difetti di alcun ché. Qui, inoltre, si fa astrazione dalle concrete condizioni materiali nelle quali la maternità deve realizzarsi.
Voglio solo soffermarmi a considerare il positivo di una condizione altrimenti rappresentata prevalentemente secondo due direttrici:
Voglio solo soffermarmi a considerare il positivo di una condizione altrimenti rappresentata prevalentemente secondo due direttrici:
1) maternità come devozione assoluta, smarrimento nel figlio, emotività simbiotica, cura indefessa, azzeramento del pensiero e del sé, concomitante beatitudine da eterea madonna scesa in terra, che ringrazia Dio e gli angeli a ogni piè sospinto della fortuna che ha avuto e non si permette di lamentarsi mai;
2) maternità come privazione, difficoltà gestionale del quotidiano, martirio della donna abbandonata dalle istituzioni e ghettizzata in termini di genere nel ruolo di cura, donna esaurita e stanca, che non esce la sera non ha ambizioni e si accontenta in modo un po' frustrato chiudendosi nel privato che si ripete, sempre uguale, e sul quale non vale la pena discettare criticamente.
Per quanto riguarda la prima, benché si continui a rappresentare la maternità in termini esclusivamente naturali e attribuendole in modo ingiustificato i crismi dell'irrazionalità e del sentimentalismo, la maternità è anche cultura, è anche pensiero, è anche conoscenza, è anche un me madre che continua e si evolve e che come soggetto avoca a sé autonomia, un sussistere per sé oltre che per l'altro/a. E soprattutto, è autorizzarsi a saperlo, pensarlo e dirlo: ho come la sensazione che molte madri interiorizzino nel proprio super-io il divieto di smentire quella rappresentazione favolistica, in definitiva funzionale al patriarcato tutt'oggi attualissimo, confermando zelanti il cliché consolidato. Questo ha portato, nel passato e nel presente, molte donne a rifiutare la sfera della maternità fatta coincidere in toto con la rappresentazione patriarcale della stessa, interiorizzata da molte: da un lato comprendo perfettamente questo rifiuto, dopo duemila anni di inchiodamento in un ruolo, e per di più in un modo ben preciso di intendere un ruolo, della rappresentazione del quale le donne sono state espropriate a lungo e a tutto'oggi; dall'altro penso che ciò ha fatto perdere alle donne e tutti/e la possibilità di realizzare e rappresentarsi una maternità libera da vincoli di potere che hanno colonizzato l'immaginario sul materno, togliendo dunque terreno a un'altra maternità. Come anche, non meno importante, ma qui trascurato per motivi di spazio: a un'altra paternità.
Va detto che oggi le "condizioni materiali" non aiutano a uscire dall'impasse: ovvio che maternità è privazione se da 1 a 6 anni gli asili sono a pagamento ammenoché non vinci al lotto delle graduatorie comunali, se oltre il 70% del lavoro di cura familiare è a carico delle donne, se dunque rischio di perdere il lavoro diventando madre.
Per quanto riguarda la seconda, è la rabbia per le difficoltà materiali della maternità, per motivi socio-culturali e soprattutto di indifferentismo politico rispetto alle stesse; quest'ultimo attribuendo alle sole donne che scelgono di essere madri ogni onere, senza la consapevolezza del ruolo cruciale che esse svolgono, di nuovo in termini politici e sociali, e soprattutto senza la consapevolezza che inchiodarle nel martirio del faccio-tutto-non-ho-tempo-per-me significa promuoverne l'esclusione da tutta una serie di ambiti quali il lavoro, il lavoro manageriale, i luoghi di potere, la scienza, la politica, eccetera. Col risultato, cioè, di suggellarne la subordinazione all'uomo a oltranza. Per la donna che voglia emanciparsi da quell'asfissiante binomio di cui sopra, è estremamente difficile trovare una terza via, prendere le distanze dall'uno e dall'altro.
Poi, il social della maternità per me è particolarmente problematico. Perché:
A) non sono molto social, o almeno, non sono social quando quest'ultimo prevede - pena l'implicita esclusione dall'ambito relazionale - cerimoniali, automatismi verbali, ostentazione, reciproche fomentazioni dei rispettivi narcisismi, e via tacendo. Altrimenti, sono più socievole e estroversa di quanto pensassi, ma solo quando l'occasione mi è data da confronti autentici, privi di rigidità conformistiche e con un tasso di aspettativa sull'altro inferiore alla media.
B) sono una madre giovane, e ciò in Italia sembra sempre una specie di stigma sociale. Il 70% abbondante delle mie colleghe madri di altri bimbi dell'asilo non mi saluta, o mi guarda con diffidenza e/o sprezzante indifferenza. Non è detto che io faccia diversamente, e tutto questo può benissimo essere addebitato al punto A. Inoltre c'è una questione generazionale. Le madri oggi - hanno tutta la mia comprensione in questo - fanno figli tardi o molto tardi rispetto agli stantard di una volta, ad almeno 30 o 35 anni. Sono circondata da madri quarantenni, e non ho che un paio di conoscenti coetanee madri.
Ora, non me ne importa assolutamente nulla di essere approvata da gente che neanche conosco, ma voglio riflettere su una cosa. Fra le motivazioni, credo, c'è anche un punto C:
C) prurito esistenziale mio nel constatare nel 99% dei casi, che con le madri la conversazione è strapiena di ovvietà e di aspettative discorsive preconfezionate. Per far capire cosa intendo, ecco una conversazione tipo:
Quanto ha?
3. Il tuo?
Appena compiuti 4. Mangia?
Sì molto!
Ma dai. Il mio non mangia nulla, mi fa disperare.
Ah...
Ho provato a fargli X e Y ma li ha sputati, ieri ha mangiato Z ma dopo un sacco di insistenze! Sono disperata
Eh...dài, sembra sveglio, che occhi che ha.
Eh sì (impennata di orgoglio), vero, è proprio intelligentissimo, ce lo dicono tutti! Pensa, sa contare fino a dieci e sa anche i numeri in inglese! Ma è un diavoletto! Mette sottosopra casa, non sta fermo un momento, blablablablabla
Io non sento più nulla. Sbadigliando, tronco la conversazione. Difficile poi farmi sopportare quel comprensibile ma altrettanto fastidioso narcisismo materno, del mio-figlio-è-un-genio-e-questo-ti-deve-interessare-per-forza. Mi verrebbe da dire: dai, mamme! Parliamo d'altro! E' estremamente raro uscire da questa specie di diktat tematico. Ho un sacco di aneddoti al riguardo, penso che potrei scriverci un libro in più tomi. Solo poche volte mi è capitato di conoscere madri con cui il confronto non scivolava in una trita riproposizione del tema sempre nella stessa salsa. Una per esempio ha intercettato la mia incredulità di fronte alla ressa creatasi per l'organizzazione del famigerato REGALO ALLE MAESTRE™, nella quale sono stata inavvertitamente coinvolta, con esortazioni del tipo
allora, che ne dici di questa collana di perline colorate? allora, che te ne pare del braccialetto per le maestre? non è stupendo?! abbiamo preso dei fiori, guarda qui, guarda che bel mazzo! sai dove li ho presi? te lo consiglio, è quel fioriaio ecc ecc ecc
Sì, ci vado subito guarda, io compro mazzi di fiori tutti i giorni.
In questi casi, lo ammetto, il mio cinismo dirompente emerge in tutta la sua carica annientativa. Do i miei dieci euro, dopo di che non voglio saperne più nulla. Se sparite dalla mia vista è ancora meglio.
Dunque dicevo, una madre ha intercettato il mio maldissimulato fastidio e mi ha detto
che palle, io mi romperei da morire a passare i pomeriggi a cercare il regalo per le maestre, fare tutte le telefonate, mettersi d'accordo sul colore dei braccialetti....
Lo diceva ad alta voce, probabilmente in un modo che i più considererebbero maleducato, con aria strafottente ma con assoluta leggerezza d'animo. In quell'attimo, ho amato quella donna.
C'è, in effetti, un problema. Le donne spesso, si dice, non sono complici, si fanno la guerra, non si aiutano e ciò le indebolisce anche in termini di potenziale "lobby" antipatriarcale, disgregata così sul nascere. Tuttavia, il punto è che questo scimmiottare le madonnine rende possibile o contribuisce a questo. Le madri madonnine spesso criticano le altre madri madonnine (ehi! lo sto facendo anch'io, ecco, ci risiamo?) in virtù del modello madonnina in cui si investe tutta l'aspettativa di riscatto sociale per una femminilità che è legittimata e riconosciuta a esistere solo in quei termini (sul "o troie o madonne" qui si è detto molto in passato). In sostanza, questo modello patriarcale di maternità continua a "mietere vittime", e queste sono molte donne che lo accettano senza metterlo in discussione, per motivi complicati e in modi complicati, e questo contribuisce pesantemente alla guerra senza quartiere inter-femminile. Un po' come la retorica della disoccupazione, del disoccupato che è colpa sua se non trova (o, si dice, non vuole trovare) lavoro, che gli manca qualcosa di intrinseco da correggere: in questo modo i cittadini si guardano con sospetto, in virtù di una rappresentazione calata dall'alto che ha, fra l'altro, lo scopo di dividerli e di diffidare reciprocamente. Quella che una volta si chiamava coscienza di classe viene resa sempre meno possibile, l'ombra del sospetto si aggira fra gli ultimi della società, i quali anziché aiutarsi e migliorare le cose insieme, si isolano e si ignorano, mentre chi lavora fa la guerra implicita a chi non lavora, spesso, specie nella retorica del "prendono i sussidi (eh, anche questo, è da vedere), mentre io mi faccio un mazzo tanto e pago anche le tasse", ecc. Ma forse è un paragone complicato.
Ora, per chiudere questo sconclusionato post, riporto un aneddoto particolarmente esemplificativo dello stigma sociale della maternità giovane:
Dalla pediatra. Signore vede mio figlio, mi squadra, si vede che scalpita dalla voglia di attaccare bottone, anzi direi semplicemente, farsi i cazzi miei, con una maldissimulata aria gossippara di quelle più becere e non senza una specie di gusto maligno per la gratuita intrusione nella vita altrui.
Lei è la sorella? indicando mio figlio.
Io rispondo, indicando il suo. No. Lei è il nonno?
Lo sapevo benissimo, che era il papà. Purtroppo però, ho mal sopportato quello sguardo malignamente inquisitore e ho dovuto ripagarlo con la moneta del falso equivoco a scopo derisorio.
PS: non mi pesa assolutamente questo "stigma", ho meglio di cui occuparmi. Mi interessa solo da un punto di vista "sociologico" e culturale.
una delle prime volte che ho letto questo blog mi aveva colpito il fatto che fosse/fossi madre...nel frattempo lo sono diventata anch'io e trovo idealmente valida l'idea di maternità come crescita cognitiva, ma forse più auspicabile che valida. sono rimasta incinta in un periodo di devastazione psico-fisica che in parte dura tutt'ora (guardandomi dall'esterno forse mi direi che sono stata incosciente ed egoista nel far nascere la bambina), quindi permane una condizione di stanchezza e di mancanza di concentrazione che mi rende impossibile dedicarmi a qualcosa, anche a pensare. la prima figura di madre (quella devota, eterea, insomma inesistente) è molto lontana dal mio modo di intendere la maternità ma mi rendo conto che non assomiglio alla madre che vorrei essere e che scivolo pericolosamente nella seconda condizione. per quanto riguarda la socialità e gli scambi mi sento molto strana, perché il più delle volte sto malissimo - per motivi indipendenti dalla presenza della bambina - ma riesco a dare l'impressione di essere molto "solare", e non so se compiacermene. gli scambi di natura pratica non li trovo quasi mai noiosi, anzi: egoisticamente mi ritrovo a succhiare parti dell'esperienza altrui, anche se a volte è difficile non farsi fagocitare dalle supermamme, quelle esperte che muoiono dalla volta di dare consigli- mi mettono a disagio, invece, gli scambi che vorrebbero essere più profondi. per esempio mi inquieta sentire frasi come "ora che sta per nascere (la seconda figlia) ormai penso solo a loro". per me non è bello, ecco. non è bello essere solo mamma, essere completamente dedita - ma serpeggia il dubbio del futuro pentimento per non aver saputo vivere a pieno i primi istanti - anche se pensare a me non mi fa per nulla piacere. non riesco ad annullarmi, e credo che non sia un buon esempio per il figlio che ti osserva costantemente (soprattutto, ma questa magari è una mia paranoia, se si tratta di una figlia femmina). al corso pre-parto che ho frequentato ho conosciuto persone che in gran parte la pensano come me su questo punto fondamentale, ma preferisco che il rapporto e le conversazione restino in ambiti superficiali e non troppo vicini all'interiore...infatti in gran parte si tratta di donne che non hanno la mia stessa insoddisfazione almeno a livello esteriore (superficialmente, è gente che non odia il proprio lavoro e allo stesso tempo teme di perderlo). quanto allo stigma della gioventù, vorrei riuscire a capirlo. per me lo stigma è completamente opposto, o almeno così lo percepisco. fino a poco più di un anno fa credevo che non avrei più avuto figli e avevo 28 anni inoltrati: un po' mi dispiaceva rinunciare completamente ma credevo fosse la scelta più saggia. intorno a me avevo persone (madri dei miei alunni alle elementari) poco più grandi con figli già alle elementari o alle medie, per non parlare di alcune ragazze straniere di mia conoscenza, incinte o madri in condizioni che per me sarebbero state inaccettabili (disoccupate e completamente affidate al lavoro precarissimo e sporadico dei mariti-fidanzati). insomma, sono combattuta tra l'idea che avere un figlio prima forse mi avrebbe "salvato" da una certa calcificazione interiore e l'idea che fosse ancora troppo presto. e le donne che hanno un figlio in giovanissima età non mi paiono molto consapevoli, ma spesso molto più orientate per ingenuo entusiasmo verso la prima direttrice. certo non è detto che aspettando le cose cambino, se il contesto sociale e culturale resta quello. il mio problema è anche quello di un aspetto che definire "sciupato" è eufemistico (la domanda che più odio è "è la prima?"), che mi fa sentire l'inesorabile mancanza di tempo e l'ansia nella quale gli stimoli che vorrei dare a mia figlia non possono maturare
RispondiEliminaCiao, ho trovato molto interessanti le tue parole. Ho trascurato nel post quel "non riesco a concentrarmi" che è davvero cruciale e che comprendo. Parlavo anche delle condizioni materiali qui del tutto trascurate. Mi sembra di aver capito che tu abbia un problema con il tuo lavoro: insoddisfazione e frustrazione. Beh anche per me è stato così, per due anni. Tristezza assoluta, scarsa capacità e soprattutto tempo per la concentrazione, ansia di rivalermi eccetera. Non a caso posso parlare della maternità in questi termini, ora che per fortuna non lavoro più in quel posto ammorbante - col conto in rosso, ma sono ottimista.
RispondiEliminaQuello che dici sul social, non so se ti riferissi a quanto scritto da me, in ogni caso non volevo opporre alla metafisica della pappetta discorsi sull'interiorità dell'esperienza materna. Semplicemente, mal sopporto le "aspettative discorsive preconfezionate". Ma capisco quell'interesse nelle esperienze delle altre che possono essere utili. Sarà che quando ero incinta ho letto di tutto e mi sono confrontata con moltissime mamme - rigorosamente preselezionate, donne cioè che non scimmiottano le madonnine, con quelle ho seri problemi relazionali - e davvero, non vorrei sembrare presuntuosa, ma alla nascita ero perfettamente consapevole di tutto quel che mi aspettava (mi riferisco agli aspetti "tecnico-logistici" della cura), quindi risentirne parlare a ogni piè sospinto mi suonava come una trita ripetizione di quanto già acquisito.
La maggioranza della gente reputa le madri giovani scarsamente consapevoli - anche se l'entusiasmo da madonnina è anagraficamente trasversale, credo. Io mi sento appiccicata addosso questa credenza e guardo di rimando con "compassione" chi crede di conoscere il mio universo solo per il facile binomio mamma giovane - mamma inconsapevole, dalla mente adolescenziale.
Quanto dici sul personale, i ma e i se in questo come in altri casi hanno spesso un effetto logorante. Mi spiace solo che non riesci - per condizioni, mi sembra, oggettive - a vivere l'esperienza positivamente. Per i primi anni è stato così anche per me, quindi provo un'istintiva - anche se non so quanto giustificata, data la diversità delle esperienze e la mia non conoscenza della tua - vicinanza a questa tua "calcificazione interiore".