Scritto per terrearse.it
In tempi di semplicismi linguistici trasmessi a colpi di titoloni nei giornali e acquisiti dal linguaggio corrente, c’è grande bisogno di libri come quello di Federico Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza 2011, presentato venerdì presso l’International House di Reggio Calabria. Il suo obiettivo è quello di promuovere un uso critico e vigile delle parole in virtù della consapevolezza del carattere politico del linguaggio. Fra i tanti modi in cui le parole veicolano rapporti di potere radicati e rappresentazioni discriminanti di gruppi sociali, l’autore riflette in particolare sul razzismo latente radicato nel linguaggio quotidiano e mediatico.
L’illusione che il razzismo si sia estinto è denunciata dallo studioso (Università di Reading, UK) con la lente del sociolinguista che sonda le parole scorgendone la sostanza tutt’altro che neutra. Il lavoro che Faloppa realizza, e di cui auspica l’estensione a docenti, allievi, giornalisti, consiste infatti in un “esercizio di smontaggio delle parole” che aiuti a individuarne criticamente il contenuto spesso ambiguo e inavvertitamente razzista. Tuttavia, la lingua la fa l’uso, essa “si evolve da sé”, perciò poco senso avrebbe, sottolinea Faloppa, intendere il libro come un “manualetto normativo”, come un insieme d’istruzioni sul politically correct nella lingua. Piuttosto, si tratta di riflettere e di stimolare l’uso di strumenti intesi a “interrompere quella cinghia di trasmissione tra il linguaggio e il potere” di cui il lessico dell’ordinario razzismo è preoccupante esempio.
Da “clandestino” a “nomade”, si attribuiscono a determinate realtà caratteristiche che non possiedono, secondo un’insistita accezione priva di ogni appiglio realistico, motivata in ultimo dal carattere di netta alterità che dei gruppi sociali acquisiscono in rapporto a chi li definisce. Quello che definiamo nomade è ormai da decenni ben stanziale in Italia, eppure continuiamo a chiamarlo “nomade” attribuendogli il carattere itinerante che ha perso. Illuminante è anche la prassi di presentare con pretese finanche “ontologiche” – come sottolinea Monica Francioso, ricercatrice e moderatrice dell’incontro – la provenienza geografica di autori di crimini nelle notizie di cronaca: come rileva Faloppa, marocchino, albanese, rumeno, sono termini che tradiscono l’individualità dei crimini, base del diritto, il cui uso amplificato e quasi sostitutivo del soggetto, rivela l’implicita intenzione di giudicare delle persone “riconducendole al gruppo etnico”.
Lo stesso valga per “clandestino”, che, osserva il linguista, aveva “accezione positiva in passato, quando stava a significare nascosto, segreto […] oggi, paradossalmente, si è tanto più clandestini quanto più si è visibili. L’aspetto della segretezza è stato rovesciato”. La parola, riflette l’autore, andrebbe utilizzata quando un migrante, attraversata la frontiera, trovi chi ne certifichi il passaggio irregolare. Ma il sostrato semantico del termine è stato stravolto dall’uso che ne hanno veicolato media e non di rado politici, contribuendo a trasformarla in una “categoria antropologica per tutti i migranti”, in una sorta di sineddoche perversa che prende la parte per attribuire indiscriminatamente al tutto caratteristiche parziali o improprie: degli immigrati solo una parte è veramente clandestina, eppure si continua a promuovere una coincidenza semantica fra immigrato e clandestino tout court. A fondare questa operazione logica è in ultima istanza un implicito razzismo, da cui tutti si affrettano a prendere le distanze ma, appunto, paradossalmente ‘solo a parole’. Significativo è in tal senso il triste refrain che accompagna tante conversazioni: “io non sono razzista, ma…”.
Di qui l’auspicio che la “consapevolezza linguistica e metalinguistica” raggiunga non solo docenti e allievi, ma anche i giornalisti, spesso responsabili di questi slittamenti semantici tutt’altro che innocui. I giornalisti in sala hanno per contro evidenziato le difficoltà e i meccanismi che presiedono alla produzione di un giornale: dalle pressioni degli editori alla ‘bassa manovalanza’ senza esperienza utilizzata solo per “riempire la pagina”, spesso i giornali non brillano per acutezza linguistica e, diremmo, concettuale – inoltre, il giornalista deve farsi capire da tutti e spesso è tenuto a semplificare. Tuttavia, se da un lato non si tratta di accusare in blocco il giornalismo di razzismo, “esplicito o implicito”, dall’altro bisogna rilevare la sua funzione “di cassa di risonanza, spesso priva di ruolo critico”. Alla luce di ciò, fino a che punto è opportuno demandare la responsabilità a incagli organizzativi? Secondo Faloppa questa “pigrizia giornalistica” non è dunque generalizzabile, ma di questa responsabilità semantico-politica gli attori dell’informazione dovrebbero prendersi carico.
L’incontro si è svolto fra acute riflessioni e un’agghiacciante ma significativa aneddotica sul razzismo ordinario, col contributo dei presenti vivamente coinvolti nel dibattito. Vale la pena fra l’altro di ricordare l’osservazione di qualcuno sull’importanza di considerare l’immigrazione come risorsa economica. La reazione non si è fatta attendere: parlarne in questi termini apparentemente positivi, finisce per essere ancora più discriminatorio. E poi, a dirla tutta, perché legittimare l’esistenza di una persona o di un gruppo sempre in virtù del suo ruolo economico? Non è un caso, osserva Faloppa, che la disoccupazione sembra sia diventata, ormai, quasi “una colpa”. Rifiutiamo dunque questo carattere fondativo dell’economia in rapporto alle persone, le quali si legittimano, per così dire, da sole.
L’importanza del discorso si comprende alla luce del “carattere performativo del linguaggio”, il quale “non è solo parlare, ma anche agire”. Il libro non è, in fondo, che un modo di mostrarlo. Benché, come detto, l’autore non intenda porre la propria riflessione in termini normativi, egli esprime comunque un’istanza etica di autocoscienza e responsabilità, fondata sul riconoscimento del carattere politico, decisivo, del linguaggio.
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