Oggi, festa della mamma, per “festeggiare” proporrei alcuni dati relativi al 2011.
1) Circa il 76% del lavoro di cura della coppia è a carico delle donne. I padri dedicano 1h42’ al lavoro familiare, contro le 6h47’ delle madri (Relazione di Laura Sabbadini, ISTAT, 2011).
Questa percentuale avrebbe avuto un senso nei secoli scorsi, quando ancora ci si poteva permettere un solo reddito in famiglia e soprattutto quando l’indipendenza economica femminile non era contemplata fra le ambizioni politiche correnti. Nel 2012 questa statistica ha dell’assurdo, considerando che le donne oggi lavorano (quando sono ‘fortunate’), dunque si trovano a dover conciliare quello che facevano secoli fa con quello che la società chiede loro oggi. Se infatti il ruolo del padre tradizionalmente era quello di portare la pagnotta e quello della madre di curare la prole e la casa, oggi le donne devono insieme portare la pagnotta e curare la prole e la casa, mentre il ruolo dei padri si direbbe invariato rispetto al passato. Per le madri insomma si sovrappongono prassi culturali antiche con esigenze produttive moderne.
La biologia da sola non deve mutarsi – come di norma avviene – in alibi legittimante la sproporzione: il neonato cresce in fretta emancipandosi dal corpo materno, la vita incombe, e da che mondo è mondo i figli si fanno in due. Dopotutto, volendo considerare fino in fondo la biologia in senso normativo, senza un padre non ci sarebbe una madre e viceversa, quindi la cura dovrebbe – fatto salvo l’inaggirabile dato biologico relativo alle primissime fasi della maternità – assumere una carica universale, senza nette genderizzazioni ormai del tutto ingiustificate. Se ancora oggi si concepisce la cura in termini a tal punto genderizzati, diretta conseguenza è che alle donne spetti di rapportarsi al mondo del lavoro e della maternità in termini di aut aut. O madre o lavoratrice. Se sei madre e sei anche lavoratrice, lavori il doppio dell’uomo, ma a livello sociale nessuno lo riconosce. Ergo, il risultato è una massa di donne che, qualora la desiderino, si trovano costrette a rinunciare o a rimandare ad infinitum la maternità, o a vivere una maternità irta di ostacoli organizzativi da risolvere in totale solitudine; ovvero una massa di madri estromessa dalla vita politica del Paese, che continua a domandarsi perché le donne non facciano politica, perché le donne nelle aziende siano più dipendenti che manager rispetto agli uomini e così via. Le madri, cioè, devono farsi carico di una contraddizione politica che nessuno è interessato a risolvere.
Aggiungiamo ora al dato della cura quello relativo ai servizi pubblici per l’infanzia:
2) “Facendo un confronto tra i posti disponibili e la potenziale utenza (numero di bambini in età 0-3 anni) in media in Italia la copertura del servizio è del 6,2% (…) con un massimo del 15,7% in Emilia Romagna ed un minimo dell’1% scarso in Calabria e Campania” (Indagine 2011 di Cittadinanzattiva). Siamo cioè molto lontani dall’obiettivo del 33% di copertura territoriale di servizi per l’infanzia fissato nel summit europeo di Barcellona nel 2002.
Ciò significa che le stesse donne che devono scegliere tra il lavoro e la maternità, o che conciliano i due con molte difficoltà, per di più con una crisi economica in corso, devono anche pagare delle strutture private per l’infanzia che, data la scarsità dell’offerta pubblica, può permettersi di chiedere ai genitori cifre che mensilmente, a seconda del contesto, non differiscono da quelle di un mutuo per la casa: a Lecco per esempio, pagare un asilo privato può costare 500 euro al mese. I bambini e le bambine da 0 a 3 anni – ma diremmo, fino all’ingresso nella scuola primaria – e rispettive madri sono dunque in balìa di un sistema di servizi inadeguato. Trascurare questo fatto è sintomo di una sottovalutazione politica: a) dell’importanza della socializzazione e dell’apprendimento ludico in età prescolare, fondamentale per gli sviluppi cognitivi futuri; b) del nesso che intercorre fra le pari opportunità e i servizi per l’infanzia. Questa trascuratezza si risolve, infine, nel risultato di 1,4 figli per donna, mentre la quota di nati con almeno un genitore straniero cresce dall’1,7% al 18,0%.
Il seguente dato può essere letto alla luce dei primi due:
3) “il 30% delle madri con meno di 65 anni che lavorano o hanno lavorato in passato ha interrotto l’attività lavorativa per motivi familiari (matrimonio, gravidanza o altri motivi familiari), contro il 2,9% degli uomini” (Relazione di Laura Sabbadini, ISTAT, 2011). A livello europeo, sono circa 6 milioni le donne che devono rinunciare al lavoro per motivi di responsabilità familiare.
Va da sé che, come afferma Sabbadini, “i tassi di occupazione femminili delle single [si presume intendesse: senza figli] sono simili a quelli degli uomini, quelli delle madri sono molto diversi da quelli dei padri”. La maternità è dunque il vero terreno della differenza occupazionale: investire sui servizi per l’infanzia significa investire sulle pari opportunità; sembra che ancora le istituzioni fatichino a capirlo, però.
Dopo aver guardato a questi dati, pensiamo a una donna scopertasi incinta, ipotizziamo che desideri portare avanti la gravidanza, ma non abbia un lavoro stabile e come lei anche il suo compagno. Ipotizziamo che non abbia il welfare in casa, ovvero nonni e parenti che garantirebbero la cura del nipote quando la madre non c’è, pronti a tappare gli enormi buchi lasciati aperti dallo Stato. Le possibilità a quel punto saranno due: a) abortire b) portare avanti la gravidanza.
Nel primo caso dovrà fare psicologicamente i conti con una decisione forte che non vorrebbe prendere (l’ipotesi è che desiderasse la gravidanza, appunto), al contempo fare i conti con frotte di obiettori di coscienza negli ospedali (in Italia il 70,7% dei ginecologi del servizio pubblico è obiettore – Relazione del ministero della salute, 2009), se credente dovrà subire la scomunica della Chiesa cattolica (ammenoché non decida di confessare il peccato presso un vescovo – non è infatti sufficiente l’assoluzione di un qualunque parroco -; ricordiamo al proposito che secondo Monsignor Girotti la pedofilia è un peccato meno grave dell’aborto), dovrà fare l’intervento nello stesso reparto di donne gravide, puerpere e quant’altro, dovrà passare questo delicato momento in non richiesta compagnia degli antiabortisti capillarmente presenti in ogni angolo della società, che faranno leva sul senso di colpa e su termini di grande spessore analitico come “assassina” – non ultimi i Movimenti per la vita all’ingresso delle cliniche e nei consultori pronti a rigirare il dito nella piaga e a darle giudizi non richiesti nonché offrirle irrisori aiuti a breve termine.
Nel secondo caso dovrà accettare la dipendenza da mezzo mondo: accettare qualsiasi lavoro anche malpagato per la pagnotta di cui sopra, dipendere economicamente dal compagno con tutte le implicazioni restrittive per la sua autonomia, scegliere se spendere il suo stipendio interamente per l’asilo o se non lavorare e fare la mamma 24h/24, dovrà dunque rinunciare ai suoi progetti (che so, diventare imprenditrice nel settore che le interessa) o raggiungerli partendo da una condizione nettamente svantaggiata rispetto al resto del mondo non-madre, e. In entrambi i casi è abbandonata a se stessa, in un contesto che da un lato la divinizza (dall’immaginario della Vergine Maria alla retorica pubblicitaria) dall’altro, oggettivamente, la ignora.
Questo è lo stesso Paese in cui le istituzioni non si vergognano di patrocinare ipocrisie collettive dal sapore carnevalesco come la “marcia per la vita” nel giorno della festa della mamma. Non entriamo nel merito di quest’ipocrisia istituzionalizzata (al proposito, ne segnaliamo volentieri la controproposta), chiedendoci piuttosto: perché non utilizzare tutte le energie investite per una demenziale manifestazione a favore di un generico concetto di vita (la vita di chi?), per chiedere concrete misure politiche per le pari opportunità? Perché non scendere in piazza per chiedere una copertura totale di servizi per l’infanzia? Perché non manifestare per sensibilizzare alla cultura universale, trasversale ai generi, della cura familiare, non riconosciuto pilastro etico oltre che economico della “vita” – appunto – di ogni società? Perché non chiedere al governo di affrontare in modo sistematico e organico il problema della violenza alle donne, investendo risorse sulla formazione e sostenendo stabilmente i centri antiviolenza spesso anch’essi abbandonati a se stessi?
L’iniziativa di Roma promuove, come spessissimo avviene, un’idea del tutto astratta, decontestualizzata, puramente ideologica, profondamente sessista, della maternità: che il sindaco della capitale appoggi un simile schiaffo alla realtà della stessa è sintomatico della contraddizione tutta italiana fra predicare bene bene (“la Vita! La Natura! La Famiglia!”) e razzolare malissimo (non fare nulla per migliorare la rete dei servizi per l’infanzia e le possibilità occupazionali femminili). Nonché dell’atavica incomprensione di ciò che concretamente diventare madri comporta*. L’ideale propugnato non può essere che quello, caro agli anni mussoliniani, di una donna rigogliosa che, sorridendo beata, produce figli per la Nazione. Ci chiediamo quale utilità sociale abbiano simili iniziative, che se producono qualcosa è solo rumore che si aggiunge ad altro rumore, contribuendo, come al solito, a fare del corpo femminile un campo di battaglia. D’altronde, questo è lo stesso Paese in cui istituzioni possono investire le proprie energie per la realizzazione di un cimitero di feti: c’è, dunque, una paradossale coerenza in tutto questo.
Le madri riceveranno oggi un fiore dai loro figli, un bacio, una carezza. L’unico riconoscimento “sociale” concreto di quel 76% di lavoro sulle loro sole spalle è, alla fine, questo, mentre fuori i megafoni strillano e le tv parlano in vece loro di cose che non conoscono.
*l’articolo non parla delle donne che non desiderano la maternità e hanno il diritto di non desiderarla, perché intende riflettere solo sull’esercizio concreto della maternità in Italia e non perché dia per scontato che se le donne non fanno figli è solo perché il sistema è inadeguato.
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