Scritto
per terrearse.it
75 anni fa la Disney produceva il primo lungometraggio animato
tratto dalla favola dei fratelli Grimm, Biancaneve e i sette
nani. Per
rendere omaggio all’anniversario, rifletteremo brevemente sull’effetto che le
storie più famose veicolate da cinema e libri producono in termini di
rappresentazioni di genere, senza la pretesa di dire alcun ché di nuovo, ma con
l’obiettivo di accennare a quanto poco sia cambiato dopo tanti decenni.
Nel classico in questione ripreso da Disney, com’è noto l’invidia
di una donna per la bellezza di un’altra donna è il motore della storia, in
quello che è ormai divenuto il topos letterario della rivalità
femminile. Non solo la regina interroga continuamente lo specchio sullo status
del proprio primato estetico e quindi abusa del proprio potere tentando di
eliminare la rivale, ma quest’ultima è una innocente donna buona che in ultima
istanza deve la propria sopravvivenza a sette piccoli uomini e a un principe
azzurro. Il patto nel primo caso consiste nello sbirgare faccende domestiche in
cambio di vitto, alloggio e protezione da parte dei nani, nel secondo un
matrimonio che suggella la felice conclusione della tutta-femminile-vicenda.
Faccende domestiche e matrimonio, schema trito, ma ok: siamo nel 1937.
In sostanza la donna è rappresentata in due modi: o come cattiva
invidiosa ossessionata dal proprio aspetto, o come buona e pura e soggetta alla
salvifica protezione dell’uomo in quanto evidentemente incapace di farlo da
sola (si è ingenuamente fidata della vecchietta…). Gli uomini per contro sono
rappresentati in modo molto variegato: tutti i 7 nani sono diligenti
lavoratori, (producono ricchezza socialmente riconosciuta, diciamo, al
contrario delle faccende domestiche) e ogni nano incarna sfumature caratteriali
diverse, ha, cioè, una diversa personalità – c’è il coccolone come c’è il
brontolone, c’è il timidone come c’è l’aggressivo. Il cacciatore, poi, per
fortuna che c’è lui a opporsi alla cattiveria della regina, decidendo in un
moto di pietà di graziare la bella Biancaneve. Il principe chiude il quadro
incarnando il massimo dell’operatività e della magnanimità maschile.
La solidarietà, ci racconta Biancaneve e i sette nani della
Disney, è appannaggio dell’uomo, le donne insieme non possono che far danni, ma
comunque li fanno anche da sole: l’uomo è cioè necessario alla donna per
salvarla dalle altre donne, nonché da se stessa. Siamo, cioè, a un classico del
sessismo scolpito nelle menti di milioni di infanti da appunto 75 anni.
Ora, tralasciamo Cenerentola e La
bella addormentata del bosco che si commentano da sé: rivalità
femminile in entrambi i casi fulcro della storia, e in entrambi casi un uomo
detiene le chiavi della redenzione da quella. Così come tralasceremo Peter Pan, lo
stesso memorabile Robin Hood che benché sia memorabile è in come al solito una
storia fra uomini, o Il Re Leone, per citarne solo alcuni,
dove le donne o sono del tutto assenti in termini di peso narrativo o litigano
fra di loro per la suddetta rivalità o sono oggetto di ammirazione estetica
maschile e basta. Tutto ciò è arcinoto, in specie alle fautrici dei women studies
e alle donne attente alla comunicazione di genere, ma chiediamoci: più recentemente
la situazione è forse cambiata? Si pensi per esempio all’Isola del
tesoro del 2002, o al Pixar-Disney Toy Story (dall’1 al
3 nessuno escluso): che ruolo hanno le donne in questi cartoni animati? Se
infatti possiamo perdonare al primo lungometraggio Disney i suoi limiti
rappresentativi giustificandoli con la data del 1937, non possiamo ahinoi fare
lo stesso per i cartoni animati più recenti.
Nell’Isola del tesoro compaiono di fatto solo due
donne: la prima è la madre del protagonista, preoccupata per un ragazzino
combinaguai e proprietaria-cuoca di una locanda; la seconda è l’aggressiva
capitana della nave in rotta per l’isola del tesoro. Entrambe sono
quantitativamente e qualitativamente poco presenti nella trama. La capitana,
che sembrerebbe introdurre nel mondo Disney una rappresentazione alternativa
della donna, è presentata come estremamente sicura di sé, oltremodo aggressiva,
competente in tema navigazione e anche cattiva; va da sé che competenza e
sicurezza debbono per forza conciliarsi con una dose di cattiveria e di
insensibilità per essere, ad avviso degli autori, narrativamente credibili.
Alla fine tuttavia tale ruolo viene ammorbidito dall’amore per il dottor
astronomo, la capitana risolvendosi infine a sposarlo, sicché con questo avrà
tre figli. Le chiavi per il successo del viaggio, che in un primo momento
sembravano affidate all’incontro con la capitana, sono invero del tutto tenute
da Jim il protagonista e il Cyborg, come dimostra il finale della storia. Ecco
la rappresentazione maschile: abbiamo qui un illustre uomo di scienza, un po’
impacciato ma competente, un ragazzino intelligente e ardito, un Cyborg-pirata
ambiguo ma poi capace di profonda amicizia, una marea di pirati cattivi. La
rappresentazione del maschile è anche in questo caso varia, plurale,
articolata. Quella femminile si attesta sul, diremmo, solito binario: la
dicotomia madre-buona / donna-potente-cattiva (poi però redenta dalla
maternità, sempre fedelmente alla dicotomia). In fondo, sostanzialmente si
tratta dello stesso “binario” di Biancaneve e i sette nani.
Toy story ci duole dire che è caratterizzato dalla stessa limitatezza
rappresentativa femminile: come sempre, i personaggi femminili sono presenti in
modo estremamente minoritario rispetto ai colleghi maschili. Ma oltre alla
quantità, preoccupa l’aspetto qualità: qui le donne esistono solo come Barbie
stupidelle o come principessa giocattolo o come entusiaste cowgirl prive di
consistenza, come dire, intellettuale; poi c’è la madre di Andy: al proposito,
ma padri mai, Disney? Se la memoria non m’inganna sembrerebbe che solo in Peter
Pan ci sia
appena una comparsa per la debole categoria. ‘Per fortuna’ la rivalità è adesso
maschile; ma accanto alla rivalità è mostrata finanche la grande solidarietà di
cui sono capaci Buzzlightear e Woody, entrambi brillanti nel loro genere. Il
maschile appare cioè generalmente rappresentato come portatore di etica, capace
di relazioni umane evolute e dunque di superiore amicizia; esso è declinato
anche nel senso della cattiveria, ma quantomeno non mancano entrambi i lati
della medaglia. Nel caso del femminile non si può ahinoi dire lo stesso. Sfido
chiunque a trovare un cartone animato famoso in cui sia rappresentata
un’amicizia solidale, carica di moralità, fra due donne: pur esistendo, si
tratterebbe senz’altro di un’eccezione alla regola.
Questa riflessione non è un’oziosa proposta di 50 e 50 nei
cartoni, è un problema molto più serio di quel che appaia. I fruitori dei
cartoni essendo principalmente i bambini e le bambine, che assumono fra l’altro
a mezzo fiabe categorie, rappresentazioni, modelli relazionali, meccanismi di
identificazione, questi si troveranno a farsi un’idea molto monolitica delle
donne. Le bambine in particolare non potranno che identificarsi con la cattiva
o con la stupidella o con la madre oblativa; i bambini non potranno che
rappresentarsi il femminile in termini eticamente e addirittura
intellettualmente mancanti, comunque marginali rispetto al maschile. Va bene
che il mondo della narrazione non esaurisce la realtà, e che dunque è in primo
luogo nel quotidiano che conta che essi siano in contatto con diversi modelli
di maschile e di femminile, ma non si può trascurare l’asimmetria
rappresentativa oltre, data la potenza di diffusione e il carattere normativo
che un film per bambini implicitamente assume. La Disney amplifica i luoghi
comuni con il risultato di conferire loro una sorta di implicita
legittimazione. Il cartone animato ha un grande potere e non guasterebbe una
messa in discussione degli stereotipi piuttosto che una piatta riproposizione
degli stessi a oltranza: ci augureremmo che i 75 anni dal primo lungometraggio
Disney segnassero, come finora non hanno fatto, una svolta in tal senso.
Mostrando sempre il solito trito modello di donna si rischia di renderlo
normativo – più di quanto già non lo sia – col risultato di eternizzarlo. In
questo senso, classici non sono solo i cartoni, ma anche gli stereotipi
veicolati, è giusto a nostro avviso il tempo di “cambiare registro”.
Pluralismo rappresentativo, Disney, e presa di coscienza della tua
influenza sull’immaginario collettivo, nonché della tua responsabilità
pedagogica nello specifico in relazione alle rappresentazioni di genere, per i
tuoi 75 anni da Biancaneve, questo ti auguriamo. Quanto a noi, ci auguriamo che
i genitori possano attingere a una più articolata gamma di rappresentazioni dei
ruoli di genere nei cartoni da vedere con i propri figli e figlie.
Naturalmente, tutto ciò è possibile nella misura in cui la maggior
parte dei film e dei programmi televisivi anche per adulti concordano di fatto
sull’opportunità del modello. Questo è il dramma.
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