Da La vita agra (1962), Feltrinelli 2014, p. 118:
«Tutto comincia il giorno che ti cambiano di stanza, col pretesto dello spazio te ne danno una più piccola da dividere con altra persona; e il tavolo tuo sarà quasi sempre più basso, più stretto, più scomodo, e piazzato dietro la porta, sì che, entrando, un ospite veda subito il tuo collega, ma non te.
O addirittura può accaderti di restare senza locale, senza scrivania, senza sedia: ciò avviene in genere approfittando dei traslochi. Infatti, quando una ditta cambia sede, si noterà sempre un'affannosa corsa alla stanza migliore, più appariscente, più centrale, meglio arredata. Chi nel bailamme è riuscito ad arraffare una stanza tutta per sé, di solito viene immediatamente premiato con un aumento di stipendio e di autorità. Chi invece, per sua incuria e pigrizia, resta senza nemmeno la sedia, viene subito licenziato. L'ho visto fare più volte, questo scherzo, e volendo potrei citare nomi e dati precisi.
A me accadde, sempre dopo la fine delle vacanze (il settembre, ripeto, è il mese tipico dei licenziamenti), d'essere messo alla scelta fra un sottoscala e un terzo di stanzuccia, con tavolo dietro la porta, e orientato in modo che entrando, il vetro smerigliato andava a sbattere contro lo spigolo e si rompeva fragorosamente, e questo diventava un altro elemento negativo, che preludeva al licenziamento.
Ma poi, se proprio non sei ottuso, te ne accorgi perché cambia anche l'aria attorno a te: i colleghi perdono man mano ogni consistenza fisica, sono gli stessi, ma paiono vuotarsi della loro sostanza spirituale. Ti guardano, ma pare che non ti vedano, non sorridono più, mutano anche voce, hai l'impressione che non siano più uomini, ma pesci, non so, ectoplasmi, baccelloni di ultracorpo, marziani travestiti da terricoli.
Dicono: "Ah sì, ah sì, eh davvero, molto interessante". Chiedi una cosa qualunque, che riguarda il lavoro, e quelli dicono: "Ah non so, non ho visto, non ho sentito. Non ci sono disposizioni". Il lavoro già da un paio di settimane ti è sfuggito, vedi gli altri passarsi le carte, ma non una approda sul tuo tavolo, e tu resti lì, con le mani in mano, non osi chiedere, perché sai che ti risponderebbero sempre in quel modo, vai al gabinetto, e rischi di restarci chiuso da una segretarietta secca che finge di essersi sbagliata.
"Ah, c'era lei, dottàre? Non l'avevo vista, sa". [...]
La lettera di licenziamento, tutto sommato, è una liberazione, perché ti annulla definitivamente e ti lascia libero di reincarnarti altrove. "Tu avrai già capito perché ti ho fatto chiamare", dice il dirigente, e non aggiunge altro. Raccogli le tue robe, sfili davanti a porte chiuse, da dove non viene né una voce né un suono, non incontri nemmeno la telefonista, nessuno per le scale, anche il portiere ha abbandonato il suo abitacolo a vetri, e ti ritrovi nel turbinio della strada. Voltando l'angolo prendi una gran spallata da un camminatore frettoloso, che oltre tutto si volta a guardarti male.»
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