Essere d'accordo con se stessi, ma anche no.
E' un fatto. Pare che nel mondo esista gente che la pensa diversamente da me.
Sgomento a parte, apprezzo e detesto il fatto che la gente non sia d'accordo con me; che possa cioè disinvoltamente formulare pensieri che non hanno tenuto conto del lungo defatigante processo che ci ho messo per pensare i miei. Lo detesto perché, diamine, come fai a non vedere che x è y? E' del tutto evidente in virtù di z e q! Devi rendertene conto! Pago le conseguenze della tua ignoranza! Io mi sono già accomodata, gli unici posti liberi sono là, sì, proprio là. Dalla parte del torto. E perle ai porci, e la ggente non capisce, e compagnia bella.
E' un fatto. Pare che nel mondo esista gente che la pensa diversamente da me.
Sgomento a parte, apprezzo e detesto il fatto che la gente non sia d'accordo con me; che possa cioè disinvoltamente formulare pensieri che non hanno tenuto conto del lungo defatigante processo che ci ho messo per pensare i miei. Lo detesto perché, diamine, come fai a non vedere che x è y? E' del tutto evidente in virtù di z e q! Devi rendertene conto! Pago le conseguenze della tua ignoranza! Io mi sono già accomodata, gli unici posti liberi sono là, sì, proprio là. Dalla parte del torto. E perle ai porci, e la ggente non capisce, e compagnia bella.
Ma lo apprezzo quando mi permette di attivare qualche zona imprecisata del cervello che mette un po' di disordine tra le mie convinzioni (che tendo a rappresentarmi, realizzo adesso, come giuste e ineluttabili nella loro cristallina verità: ci ho messo una vita a farmele!), e le costringe a un momento di reset, o di regresso verso i presupposti. Insomma, a pormi domande che altrimenti, con gente che la pensa come me, non mi sarei posta, perché col tempo le risposte prendono il sopravvento sulle domande e tendono un po' - ma solo un po' - a dimenticarle.
Perché lo spazio pubblico richiede che si argomenti, e le premesse che dopo un po' sopiscono per esistere solo come conclusioni, devono riessersi premesse e nella dinamica dialogica esse non devono dare per scontato nulla.
Perché nell'argomentazione le persone non hanno storia, ma solo argomenti.
Perché nell'argomentazione le persone non hanno storia, ma solo argomenti.
C'è qualcosa di crudele in questo, ma gli è che finora non è stato trovato un criterio migliore per, come dire, "negoziare intersoggettivamente verità".
Poi non è detto che tu dici il vero, eh*. Ma ti ringrazio perché mi hai permesso di capire meglio cosa io stessa intendo (sic!) e di elaborare strumenti di difesa razionale che altrimenti avrei lasciato ammuffire nella mia invisibile cassetta degli attrezzi, tra un "sono d'accordo con me stessa" e l'altro.
Se, invece, alla fine non posso che ammettere che tu dici il vero, finisce che abbandono le mie convinzioni perché la tua tesi è giusta e sarebbe incontrovertibilmente sciocco ostinarsi a ritenere il contrario. Può essere sgradevole e richiede una certa autodisciplina che naturalmente mi manca; ma ci sto lavorando.
Quel briccone di Aristotele non poteva non essersene accorto.
"[...] ed è bene essere grati non solo a coloro di cui condividiamo le credenze, ma anche a coloro le cui opinioni si sono dimostrate più superficiali; perché anche loro hanno portato un contributo - perché ci hanno preparato la strada. Se Timoteo non fosse esistito, ci mancherebbe una parte importante della poesia lirica; ma se non fosse esistito Frini, Timoteo non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. Lo stesso vale per coloro che hanno espresso opinioni sulla realtà. Perché da alcuni di loro abbiamo ricevuto certe opinioni, ma altri sono stati la causa dell'esistenza dei primi". [Da Metafisica, 2.1]
E insomma ecco a me questa cosa sembra proprio fichissima. Quello che chiamiamo progresso esiste non solo grazie a chi pensa cose corrette, ma troppo sottovalutato è il ruolo degli errori, il ruolo di chi pensa cose rivelatesi sbagliate.
Diceva William James che "l'intelligenza non è altro che una riorganizzazione dei propri pregiudizi". Non si finisce mai di scoprire che, per quanto ci si creda illuminati e al passo con la Visione Giusta del Mondo, si è pieni fino al collo di pregiudizi. (Ok, è il caso di aggiungere che non ci sono più le mezze stagioni?). C'è un meccanismo perverso di interiorizzazione di autorità nelle persone; e forse quella che Hume chiamava abitudine svolge in questo un ruolo fondamentale.
Quanto alle dinamiche sociocognitive connesse, avviene che quando stai sempre con quelli del tuo stesso ambiente, il tuo modo di ragionare ne esce riconfermato e rafforzato, ma al contempo potenzialmente più chiuso, che fa rima con ottuso. Quando esci dal tuo ambiente, è allora che - oserei dire - finisci veramente per pensare. C'è tutta un'altra epistemologia là fuori, e tu non te ne eri neanche accorto, la cosa non ti riguardava né lontanamente ti sfiorava, tutto preso com'eri in quest'esercizio di riconferme nel quale pensavi si risolvesse l'attività intellettuale.
Forse, dal momento che hanno tutta l'aria di essere, in fondo, ineliminabili, quel che fa davvero la differenza è il saperci convivere, con questi indesiderati ospiti fantasma (i pregiudizi), sviluppando magari una sorta di prontezza cognitiva a rimetterli in questione in ogni momento (con le dovute garanzie, però, ché non è che "i fatti sono interpretazioni e tanti saluti" e tutto tutto può essere messo in discussione così, come bruscolini - chiaro). Non è per nulla facile ed è anzi uno dei problemi principali dell'umanità - ne ostacola cerebralmente il progresso -, benché riconosca ai pregiudizi anche un ruolo di, come dire, stabilizzazione cognitiva.
Ma comunque.
Conclusione: chi la pensa come me è per ristoro socio-esistenziale, per l'azione, per l'approfondimento viscerale di quanto già confermato e per la commemorazione delle proprie idee medesime e insomma ci siamo capiti. Chi non la pensa come me, però, mi riesce, spesso, dannatamente più interessante.
Talvolta, entrare nelle epistemologie altrui, in altri universi cognitivi, che funzionano con altre premesse, con altre esigenze veritative, può costituire un'esperienza eccitante, da cui si esce in qualche modo rinnovati, cresciuti. Si potrebbe poi aprire tutto un capitolo sulla cosiddetta apertura mentale delle persone - che non consiste in altro che in quella luce che si accende quando qualcuno intende altro da te, ma tu anziché chiudergli la porta provi per un attimo a entrare nel meccanismo delle sue domande (perché non tutti partiamo dalle stesse domande, e ciò condiziona le risposte). Qui c'è poco da fare. Hai voglia a dirti filosofo e pensatore. Puoi benissimo dirti tale ed essere di un ottuso che dio ce ne scampi. Conosco filosofi (sedicenti, ça va sans dire) così fastidiosamente dogmatici, che quasi provo pena per la loro strutturale inaccessibilità a questo mondo dove ti poni veramente le domande, e non per finta. Naturalmente questo è un rischio che corriamo tutti, ma c'è chi ha uno speciale talento nel turarsi le orecchie di fronte all'eventualità che possa avere torto. Con tutti i rischi che ciò comporta. Siamo sempre lì: è il desiderio di sicurezza a orientarti, o il desiderio di verità? Ma è ben possibile imbrogliare anche nel rispondere a questa domanda...
Ecco, questo genere di imbroglio è veramente urtante, specie perché è molto diffuso. Farsi carico fino in fondo del rischio di mettersi a pensare non consente questo genere di sicurezze, significa disporsi a valicare dei confini comodi preparandosi all'eventualità di sconfinare nell'inaccettabile. Su questo ha scritto molto Nietzsche, che non a caso utilizzava il termine pericolo quando parlava di ricerca della verità.
*qua uso i termini "vero", "corretto" e simili, nella loro accezione comune, e non nel senso della logica.
Diceva William James che "l'intelligenza non è altro che una riorganizzazione dei propri pregiudizi". Non si finisce mai di scoprire che, per quanto ci si creda illuminati e al passo con la Visione Giusta del Mondo, si è pieni fino al collo di pregiudizi. (Ok, è il caso di aggiungere che non ci sono più le mezze stagioni?). C'è un meccanismo perverso di interiorizzazione di autorità nelle persone; e forse quella che Hume chiamava abitudine svolge in questo un ruolo fondamentale.
Quanto alle dinamiche sociocognitive connesse, avviene che quando stai sempre con quelli del tuo stesso ambiente, il tuo modo di ragionare ne esce riconfermato e rafforzato, ma al contempo potenzialmente più chiuso, che fa rima con ottuso. Quando esci dal tuo ambiente, è allora che - oserei dire - finisci veramente per pensare. C'è tutta un'altra epistemologia là fuori, e tu non te ne eri neanche accorto, la cosa non ti riguardava né lontanamente ti sfiorava, tutto preso com'eri in quest'esercizio di riconferme nel quale pensavi si risolvesse l'attività intellettuale.
Forse, dal momento che hanno tutta l'aria di essere, in fondo, ineliminabili, quel che fa davvero la differenza è il saperci convivere, con questi indesiderati ospiti fantasma (i pregiudizi), sviluppando magari una sorta di prontezza cognitiva a rimetterli in questione in ogni momento (con le dovute garanzie, però, ché non è che "i fatti sono interpretazioni e tanti saluti" e tutto tutto può essere messo in discussione così, come bruscolini - chiaro). Non è per nulla facile ed è anzi uno dei problemi principali dell'umanità - ne ostacola cerebralmente il progresso -, benché riconosca ai pregiudizi anche un ruolo di, come dire, stabilizzazione cognitiva.
Ma comunque.
Conclusione: chi la pensa come me è per ristoro socio-esistenziale, per l'azione, per l'approfondimento viscerale di quanto già confermato e per la commemorazione delle proprie idee medesime e insomma ci siamo capiti. Chi non la pensa come me, però, mi riesce, spesso, dannatamente più interessante.
Talvolta, entrare nelle epistemologie altrui, in altri universi cognitivi, che funzionano con altre premesse, con altre esigenze veritative, può costituire un'esperienza eccitante, da cui si esce in qualche modo rinnovati, cresciuti. Si potrebbe poi aprire tutto un capitolo sulla cosiddetta apertura mentale delle persone - che non consiste in altro che in quella luce che si accende quando qualcuno intende altro da te, ma tu anziché chiudergli la porta provi per un attimo a entrare nel meccanismo delle sue domande (perché non tutti partiamo dalle stesse domande, e ciò condiziona le risposte). Qui c'è poco da fare. Hai voglia a dirti filosofo e pensatore. Puoi benissimo dirti tale ed essere di un ottuso che dio ce ne scampi. Conosco filosofi (sedicenti, ça va sans dire) così fastidiosamente dogmatici, che quasi provo pena per la loro strutturale inaccessibilità a questo mondo dove ti poni veramente le domande, e non per finta. Naturalmente questo è un rischio che corriamo tutti, ma c'è chi ha uno speciale talento nel turarsi le orecchie di fronte all'eventualità che possa avere torto. Con tutti i rischi che ciò comporta. Siamo sempre lì: è il desiderio di sicurezza a orientarti, o il desiderio di verità? Ma è ben possibile imbrogliare anche nel rispondere a questa domanda...
Ecco, questo genere di imbroglio è veramente urtante, specie perché è molto diffuso. Farsi carico fino in fondo del rischio di mettersi a pensare non consente questo genere di sicurezze, significa disporsi a valicare dei confini comodi preparandosi all'eventualità di sconfinare nell'inaccettabile. Su questo ha scritto molto Nietzsche, che non a caso utilizzava il termine pericolo quando parlava di ricerca della verità.
*qua uso i termini "vero", "corretto" e simili, nella loro accezione comune, e non nel senso della logica.
Nessun commento:
Posta un commento
Per motivi imperscrutabili, capita spesso che i commenti spariscano nel nulla. Io tolgo solo insulti e spam. Meglio perciò eventualmente salvarli e riprovare.