Il giorno e la notte delle persone.
[Avvertenza: in questo post mescolerò discorsi molto diversi e che meriterebbero riflessioni a sé stanti e certo più approfondite. Si tratta solo di appunti sparsi: come sempre, del resto.]
Molto spesso, mi capita di trovare le persone estremamente banali, e mi serve molta immaginazione per rendermele interessanti. Questa cosa mi fa pensare: possibile che certa gente sia così vuota e poco interessante? Sui cretini e sulle antipatie personali glissiamo, e proviamo a spostare un attimo il piano del discorso. Io credo che si possa evitare di rispondere semplicemente "dipende", prestando attenzione a un fatto magistralmente messo in luce anni fa dallo spot di Bacardi Breezer. Sì, insomma, quello spot in cui un ragazzo, a un colloquio di lavoro, rievocava mentalmente le sue usuali nottate di sfrenato giubilo in certi locali. L'espediente retorico era perfettamente riuscito: si contrapponeva retoricamente la scena di cravatte, impettimenti, brillantina e serietà, alla scena di godimento sfrenato in discoteca. Il giorno e la notte delle persone, insomma. Lo spot toccava un nervo scoperto, in cui ci si attendeva, probabilmente con successo, che vi si sarebbero riconosciuti più o meno tutti.
[Avvertenza: in questo post mescolerò discorsi molto diversi e che meriterebbero riflessioni a sé stanti e certo più approfondite. Si tratta solo di appunti sparsi: come sempre, del resto.]
Molto spesso, mi capita di trovare le persone estremamente banali, e mi serve molta immaginazione per rendermele interessanti. Questa cosa mi fa pensare: possibile che certa gente sia così vuota e poco interessante? Sui cretini e sulle antipatie personali glissiamo, e proviamo a spostare un attimo il piano del discorso. Io credo che si possa evitare di rispondere semplicemente "dipende", prestando attenzione a un fatto magistralmente messo in luce anni fa dallo spot di Bacardi Breezer. Sì, insomma, quello spot in cui un ragazzo, a un colloquio di lavoro, rievocava mentalmente le sue usuali nottate di sfrenato giubilo in certi locali. L'espediente retorico era perfettamente riuscito: si contrapponeva retoricamente la scena di cravatte, impettimenti, brillantina e serietà, alla scena di godimento sfrenato in discoteca. Il giorno e la notte delle persone, insomma. Lo spot toccava un nervo scoperto, in cui ci si attendeva, probabilmente con successo, che vi si sarebbero riconosciuti più o meno tutti.
Dunque, per rispondere alla suddetta domanda probabilmente è utile distinguere tra due entità, che solitamente vivono insieme - non senza, molto spesso, muoversi reciproca spietata guerra:
- la persona ufficiale,
- la persona ufficiosa.
Probabilmente è una banalità, ma le persone sono interessanti in misura inversamente proporzionale ai loro ruoli. Potrei dire che, tanto più è costrittivo il ruolo da una persona incarnato, tanto più essa è ai miei occhi suscettibile di trasgredirlo, o interessante solo nella misura in cui può trasgredirlo. Tanto più rigidamente lo incarna, tanto più non me la racconta giusta. Tanto più è ufficiale, quanto più vado a cercare, ove possibile, la sua ufficiosità, la sua notte.
Non c'è bisogno di tirare in ballo la vecchia esemplare vicenda di Marrazzo; si tratta di un aspetto molto più quotidiano di quanto sembri. Per dire, io provai subito una certa simpatia per Marrazzo; non (solo) quel genere di simpatia che suscitano talvolta le vittime di linciaggi moralisticheggianti - ah, maledetti capri espiatori! -; quanto piuttosto quel genere di simpatia che deriva dal riscontrare nella sua vicenda tutta l'umanità di una persona che riveste una carica istituzionale e che, nonostante ciò [sic!], ha dei desideri incomunicabili. Di giorno barbose questioni istituzionali, di notte appagava quel che è inappagabile dentro ogni contesto che anche lontanamente odori di istituzionale. Sposato e con figli, il presidente della regione Lazio di notte diventava un'"altra persona".
Non c'è bisogno di tirare in ballo la vecchia esemplare vicenda di Marrazzo; si tratta di un aspetto molto più quotidiano di quanto sembri. Per dire, io provai subito una certa simpatia per Marrazzo; non (solo) quel genere di simpatia che suscitano talvolta le vittime di linciaggi moralisticheggianti - ah, maledetti capri espiatori! -; quanto piuttosto quel genere di simpatia che deriva dal riscontrare nella sua vicenda tutta l'umanità di una persona che riveste una carica istituzionale e che, nonostante ciò [sic!], ha dei desideri incomunicabili. Di giorno barbose questioni istituzionali, di notte appagava quel che è inappagabile dentro ogni contesto che anche lontanamente odori di istituzionale. Sposato e con figli, il presidente della regione Lazio di notte diventava un'"altra persona".
Sbagliato: era la stessa persona. La riprovazione morale, che avrebbe dovuto orientarsi sul vergognoso ricatto fatto dai carabinieri, si è invece orientata sul fatto che un uomo sposato e con figli (dove con questo si intende generalmente qualcosa come "mummia" o "mulino bianco") potesse cercare il godimento presso la dimora di un paio di persone transessuali. E qui si schiude tutto l'universo morale del sinistro concetto di "reputazione", che non mi stancherò mai di detestare.
Di giorno l'istituzione, di notte il desiderio. Sotto la luce, quel che è visibile, cioè quel che gli altri si aspettano da te; al buio, lontano dal grande fratello della società, l'indicibile, il censurato, il proibito. Forse il desiderio di Marrazzo era direttamente proporzionale allo scandalo che potenzialmente suscitava? Cioè al suo carattere moralmente proibito? Forse Marrazzo non ne poteva più di tutta l'ufficialità del suo nome, di cravatte e brillantine? E ci credo, come si fa a vivere per anni recitando il ruolo dell'uomo perbene, moralmente impeccabile, politicamente vincente, impersonale fino alla nausea?
La dimensione istituzionale della vita è un pugno nell'occhio della vita stessa: istituzione e vita, sembra una contraddizione in termini. Eppure, è stata messa in luce tutta la carica sessuale che l'istituzione, il potere, l'identità ufficiale, presentano a livello individuale e sociale; per esempio, da Freud e da molti altri. C'è una peculiare dialettica tra norma e eccezione, per cui la norma stessa, in qualche modo, deve citare quel che reprime, in tal modo evocandolo e invitando al desiderio di ciò che è represso. Si tratta, insomma, della dinamica del tabù - tanto più qualcosa è omesso e vietato, quanto più si fa oggetto di pulsioni e desideri con una certa carica sessuale.
L'istituzione, intesa in senso lato come l'aspetto normativo dell'identità, è definibile come la calcificazione delle aspettative sociali in seno all'individuo: le persone istituzionalmente sono ciò che l'attesa di un gruppo sociale prescrive loro. Questo implica una rimozione o comunque una forzatura rispetto a quel che le persone sentono "autenticamente" di essere. La gente impara a gestire quest'ambivalenza dell'identità che in qualche modo tocca tutti (anche se non si rivestono particolari ruoli istituzionali strictu sensu); ed è forse appunto a causa dell'eccessiva - apparente - facilità con cui taluni si identificano in toto con il loro ruolo pubblico, che si finisce per prendere sul serio, in modo totalizzante, quel che le persone devono essere ufficialmente piuttosto che quello che esse sono. Posto, sempre, che non è del tutto scontato porre le due entità come radicalmente diverse e separate.
E quindi c'è il grado di frustrazione derivato da quella cosa impersonale, che ostenta oggettività e si dà arie di serietà, che è l'istituzione; col suo incarnare le norme, i doveri, il super-io, le colpe e le punizioni; e invece il bisogno delle persone di affetto, di desideri, di soddisfazione dei desideri, bisogni questi che eccedono le norme e l'impersonalità di quella. Data questa dialettica, il desiderio e la trasgressione della norma assumono dunque una fortissima carica liberatoria. Domanda: come andrebbero le cose se, in un'ipotetica società "priva di ufficialità", ciascuno potesse essere libero di desiderare e soddisfare i propri desideri? In che misura i desideri sono continuamente fomentati dalla norma che li reprime?
Ma ho dimenticato il punto da cui ero partita. Tendo a pensare che le persone siano banali nel momento in cui fraintendono il ruolo che rivestono con la loro identità reale (c'è poi il problema: esiste un'identità reale? Vabè). La brava ragazza, la prima della classe che fa contenti mamma e papà, che fa sempre tutti i compiti alla perfezione, non esce mai di casa, eccetera, ebbene, è una persona interessante? Certamente sì, perché quella ragazza ha sicuramente uno scheletro nell'armadio, detto, va da sé, con espressione infelice (strane ossessioni e manie, un mucchio di fobie, desideri indicibili, ecc). Come gestire questa dialettica tra ruolo e vita? Nessuno, probabilmente, glielo insegnerà; in essa abbiamo il compiacimento dell'altro in luogo del "vero sé" - ammesso che esista -, per dirla con Alice Miller, cioè una vita alienata, segnata da una schizofrenia; una schizofrenia che bisogna poter gestire per non esserne inghiottiti. Il professore di liceo noto per la sua severità e il suo bacchettonismo, non è escluso che di notte pratichi del sadomaso con sua moglie o chi per lei, salvo poi alle luce dell'alba reindossare l'abito della persona normale. Questo, ovviamente, non è in alcun modo in contraddizione con il suo ruolo, sebbene lo si creda usualmente; lo stesso vale per la ragazza. Naturalmente, qui "giorno" e "notte" sono intesi nella loro carica simbolica, non letterale.
Le persone che perdono e liquefanno se stesse nel ruolo sono persone che odorano di impersonalità, e, proprio alla stregua di tutto ciò che è impersonale, sono prevedibili e quindi noiose. Ma questo genere di persone, salvo certo dei casi, di solito tradisce in un dettaglio la sua ufficiosità, la sua notte, e forse proprio questa dinamica intangibile scaturita tra la tensione tra essere e dover essere (e relativa interiorizzazione) rende le persone ancora più interessanti. Questo dettaglio è insomma quel che mi interessa esplorare. Avevo uno zio molto simpatico che mi raccontava sempre di quel certo colloquio che fece con non so quale capo odioso, serioso e rigido. Ebbene, mio zio aveva deciso di fissargli un punto della cravatta per tutto il tempo, in modo da costringerlo a chiedersi "c'è qualcosa che non va?" - cosa che puntualmente fece. Fu imbarazzante, il capo apparve disorientato e fu costretto a comunicare in modo non prestampato; mio zio voleva andare a toccare quel nocciolo di umanità che necessariamente doveva stare dietro quell'aria tutta impettita, tutta istituzionale, del signore in questione.
Il grado costrittivo dell'istituzione e il desiderio di liberarsene: è un aspetto che, molto simpaticamente, è stato messo in luce dal film Fight club, nelle scene in cui le persone si incontrano per abbracciarsi, per cercare un cantuccio di umanità in un mondo squallido e violento. Per non perdere, cioè, il contatto con il loro zoccolo duro di umanità, degradata a notte e a privato.
Il grado costrittivo dell'istituzione e il desiderio di liberarsene: è un aspetto che, molto simpaticamente, è stato messo in luce dal film Fight club, nelle scene in cui le persone si incontrano per abbracciarsi, per cercare un cantuccio di umanità in un mondo squallido e violento. Per non perdere, cioè, il contatto con il loro zoccolo duro di umanità, degradata a notte e a privato.
Le rassicuranti etichette.
Per lo stesso motivo, è molto importante imparare a distinguere tra le etichette e le persone. Liberarsi del tutto dell'immaginario, non è facile e forse neanche possibile. Tuttavia, sarebbe bene allenarsi a farlo, per dare alle persone ogni possibilità di esprimersi; sempre che ci interessino davvero le persone - il che non è affatto scontato: a molti interessa quel che gli altri vogliono dalle persone, il loro ruolo, il loro incarnare una risposta socio-individuale a una domanda sociale, perché questo è rassicurante, com'è rassicurante il giorno e la luce, mentre il buio e la notte sono l'archetipo di tutte le paure e di tutti i pericoli.
Faccio un piccolo esempio: di solito, con domande del tipo "cosa fai nella vita?", "di cosa ti occupi?" la gente ha bisogno di incasellare il prossimo in rassicuranti celle identitarie: è un bisogno di sicurezza (quando non semplice voyeurismo) - oppure, certo, un modo per rompere il ghiaccio. Ma la parte più interessante di ogni biografia non è costituita da fatti, peggio dal curriculum vitae, bensì da qualcosa di interiore e di nascosto. Sarebbe meglio lasciare che quella persona fluisca da sé, come dire: un certo genere di etichette non dice nulla della persona che ho di fronte - più esattamente, non ho bisogno di una certa categoria prestampata per comunicare; quella categoria anzi tendenzialmente interrompe il flusso. Dice molto di più il modo con cui muove gli occhi, mette le mani nella borsa, il ritmo delle sue parole e del suo respiro. Inoltre, bisognerebbe non scambiare la parte per il tutto - oltre a essere un errore logico, sembra un errore psicologico e relazionale: il fatto che x abbia avuto, poniamo, una crisi isterica davanti a me, o che abbia fatto un paio di gaffe, o che per converso sia stato brillantemente intelligente, continua a dirmi veramente poco e sono sempre pronta a rimettere in discussione la mia impressione. E' che altrimenti, penso, ci si rapporta come tra campioni statistici, e non come tra persone, intrinsecamente misteriose (non in senso ratzingeriano) - è necessaria un'apertura di fondo.
Faccio un piccolo esempio: di solito, con domande del tipo "cosa fai nella vita?", "di cosa ti occupi?" la gente ha bisogno di incasellare il prossimo in rassicuranti celle identitarie: è un bisogno di sicurezza (quando non semplice voyeurismo) - oppure, certo, un modo per rompere il ghiaccio. Ma la parte più interessante di ogni biografia non è costituita da fatti, peggio dal curriculum vitae, bensì da qualcosa di interiore e di nascosto. Sarebbe meglio lasciare che quella persona fluisca da sé, come dire: un certo genere di etichette non dice nulla della persona che ho di fronte - più esattamente, non ho bisogno di una certa categoria prestampata per comunicare; quella categoria anzi tendenzialmente interrompe il flusso. Dice molto di più il modo con cui muove gli occhi, mette le mani nella borsa, il ritmo delle sue parole e del suo respiro. Inoltre, bisognerebbe non scambiare la parte per il tutto - oltre a essere un errore logico, sembra un errore psicologico e relazionale: il fatto che x abbia avuto, poniamo, una crisi isterica davanti a me, o che abbia fatto un paio di gaffe, o che per converso sia stato brillantemente intelligente, continua a dirmi veramente poco e sono sempre pronta a rimettere in discussione la mia impressione. E' che altrimenti, penso, ci si rapporta come tra campioni statistici, e non come tra persone, intrinsecamente misteriose (non in senso ratzingeriano) - è necessaria un'apertura di fondo.
Alla luce di quanto detto, confesso di simpatizzare con la posizione di Judith Butler - nonostante riconosca i problemi della sua riflessione e non ne sia del tutto soddisfatta -, che ritiene che le identità non siano che il frutto di discorsi continuamente riprodotti. Il discorso che si ripete intorno a un ruolo rende quel ruolo socialmente vero e lo si essenzializza e ipostatizza tanto da attribuirgli una carica deterministica, un potere di definizione esclusiva di quel che le persone sono "naturalmente". Riconoscere il carattere discorsivo delle identità, implica dunque metterne in dubbio questo potere di significazione esauriente delle persone e vivere le persone nel loro hic et nunc di "autenticità". La domanda più difficile che si possa porre a qualcuno è la domanda "chi sei?" come risponderà? Sono un ingegnere, sono un'archeologa; sono una mamma, sono un figlio. Sono un ballerino, sono un'impiegata. Bene: non mi hai risposto. Probabilmente è una domanda alla quale, intrinsecamente, manca la risposta; perché "chi sei" è un processo che avviene, non una definizione.
Il grado di libertà di una persona, probabilmente, si misura anche da questo: dal suo tasso di insofferenza rispetto alla norma identitaria. Ci sono persone in cui l'identità ufficiale schiaccia quella ufficiosa, che probabilmente finiscono in una nevrosi, oppure vi si trovano a loro agio perché, forse, hanno un debole contatto con il loro "oggetto interiore" o perché hanno interiorizzato il discorso ufficiale al punto da bollare come irrilevante il controdiscorso che pure, in qualche modo, deve pur pulsargli dentro.
Ci sono poi persone in cui l'identità ufficiale è inconcepibile e in loro non trova casa se non come termine di paragone negativo, di puro antagonismo, mi sento di dire che queste vivranno meglio delle prime, benché, probabilmente, possano dimenticarsi ogni sorta di approvazione sociale o di successo, perché di solito viene premiato il conforme alla norma, cioè ciò che conferma la norma. E' interessante anche pensare all'estrema prolificità di questo genere di antagonismi - è coinvolto direttamente, qui, il processo di individuazione. Benché, è bene dirlo, è anche possibile l'opposto: che cioè da questo contrasto si venga schiacciati. E poi c'è chi opera questi distinguo, e impara a non fissare i discorsi fraintendendoli come naturali, e assaggia volentieri tanto il ruolo quanto l'ufficiosità che nasconde, e che anzi, si gode tutto il risultato imprevedibile di questa strana dialettica, considerando entrambi i poli con curiosità.
Infine, un bellissimo testo:
"Non gli nasconde nulla di determinato, solo la inquietante indeterminatezza delle sue notti, il confuso crepuscolo del giorno e la tormentosa fatica che le costa superare ogni giorno di nuovo la malinconia [...]. A Vernhagen si attacca come al giorno, per poi ricadere, ogni notte, nei sogni ricorrenti, insistenti, ossessivi della notte".
[da H. Arendt, Rahel Vernhagen. Storia di una ebrea, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 154]
PS: il presupposto logico di questa riflessione risiede nel pensare che ci sia qualcosa di nascosto dietro le persone, il che non è sempre vero. E' probabile che esse siano come appaiono, semplicemente, ed è probabile che anche come tali possano essere interessanti. "Dipende".
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