In epoca di
progressiva terziarizzazione dell'economia, parlare di potere operaio nel
vecchio gergo sembra privo di senso. La condizione è cambiata, sta cambiando.
La grande massa proletaria concentrata nelle fabbriche dell'Italia ricca è
oggi, così spesso, per strada a reclamare il reingresso nell'azienda fallita.
Nel centro-nord grosse imprese chiudono, come a catena, e i pluriennali
dipendenti sono smarriti. Da ciò non si può certo concludere che l’industria
sia in corso di dissoluzione – ma certo, in Italia, se la crisi economica si
abbatte sui lavoratori è anche perché le imprese ne sono direttamente
coinvolte; benché spesso ciò diventi un alibi per la perpetrazione dell'ingiustizia sociale.
Al contempo, la dose
di rilevanza economica del settore industriale in Italia lascia
progressivamente il passo al terziario, per diffondersi potentemente – con
tutte le ricadute concorrenziali – nei paesi a basso costo di manodopera,
l'Asia, l'Europa dell'Est.
A questi due fattori,
la crisi economica e la parallela terziarizzazione dell'economia, deve
aggiungersene un terzo: la progressiva de-regolazione del lavoro.
Se all'inizio della
seconda metà del '900 si poteva assistere a un crescendo di rivendicazioni
operaie e di conflitti sociali, sfociati lentamente in una progressiva
negoziazione fra le classi sociali "opposte" - imprenditore/operai e
sindacati - oggi la vecchia realtà, di centinaia di lavoratori chiusi in una
fabbrica ad acquisire comune coscienza dello sfruttamento, si è trasformata
nell'articolazione sempre più complessa delle situazioni lavorative, relegate all'ambito
individuale che solo per la parola magica "precariato" può presagire
una specie di base comune. Ma di fatto frammentaria, sparpagliata, priva di
autorappresentazioni codificate.
Tutto ciò che è stato
conquistato appena 60 anni fa, viene eroso senza la plateale evidenza delle
deroghe, ma con la dimessa, scaltra e articolatissima operazione legislativa,
promossa dall'Europa e raccolta senza esitazioni dalla politica nazionale,
della flessibilizzazione del lavoro.
Il contratto atipico
entra nella forma mentis di tutti, l'immaginario dell'azienda non contempla
forme contrattuali diverse se non in forma eccezionale. I diritti costano, e il
contratto atipico permette di aggirarli col beneplacito delle leggi. Lo stesso
aspirante lavoratore, considera sempre più la sua "atipicità" come
condizione normale. Succede così che le ferie diventino una gentile concessione
del padrone, ovviamente non scontata; che alla maternità competa lo stesso
trattamento delle ferie; che la pensione somigli sempre più a un grosso, fumoso
punto interrogativo; che l'arbitrio del datore di lavoro spadroneggi con il
conforto della legittimazione nazionale.
Un esercito di
stagisti incarna il grande bluff degli ultimi decenni. Col pretesto della
formazione, le aziende sopravvivono alle spalle di giovani illusi che poi vada
meglio; praticamente gratis e senza diritto alcuno. E si badi a controllare
l'insofferenza, che non è difficile sostituire uno stagista irritato con uno
stagista volenteroso - tanto, in tempi di crisi, non mancano mica.
Le aziende appaiono
alla grande popolazione precaria come facce deformi, con lo sguardo beffardo e
un sorriso cattivo: posso fare di te ciò che voglio. Tanto la legge me lo
permette.
Si tratta di una
regressione che gode del plauso di tutti, tranne che, naturalmente, delle
"vittime" - uniche noiose oppositrici di un sistema che conviene a
tutti. Tutti, tranne quelli che dovrebbero concretamente beneficiarne: la maggioranza della popolazione.
Dal 1995 in poi, data del
Pacchetto Treu, nulla ha più fermato questa corsa alla de-regolazione: un
riportare indietro, come scrive Luciano Gallino ne "Il lavoro non è una
merce"[Laterza, 2007], le lancette dell'orologio della storia del lavoro. Tutto è ora da
riconquistare. I vecchi teorici della liberazione degli oppressi appaiono
consumati, le loro categorie possono solo in parte e talora solo forzatamente
applicarsi alla situazione presente. C'è la sempre rinnovata insofferenza
per il gergo "comunista", punto di riferimento, appena mezzo secolo
fa, per le rivendicazioni dei lavoratori.
Le Brigate Rosse si
sono dissolte (non è del tutto detto), a mio avviso non solo per il capillare
controllo poliziesco che di fatto, con centinaia di arresti nel tempo, le ha
smantellate; ma anche perché è venuta a mancare col tempo la base per
utilizzare quel gergo e quell'ideologia.
Oggi, se vogliamo, la
realtà sociale e economica è più complessa; la dialettica sociale non ha più i
soli due protagonisti tematizzati dalla lotta armata - il padrone borghese,
l'operaio sfruttato -, adesso manca la possibilità per la "classe
sfruttata" di costituirsi come blocco unico, forte, con la valenza
rappresentativa di una massa. E manca anche un’autocoscienza codificata, la
sensazione di appartenere tutti a uno stesso “gruppo d’interesse”.
Gli ultimi brigatisti,
quelli che Giorgio Bocca ha definito promotori di una "parodia delle BR
degli anni '70-'80" per fare gli attentati prendevano il permesso dal
lavoro. Parasanitari, impiegati. Non più o solo in parte "operai".
Eppure gli ultimi obiettivi costituivano un segnale contro la
precarizzazione del lavoro.
(Non legittimiamo il terrorismo. Lo inquadriamo in un contesto politico. I consensi delle BR nei primi anni '70 raggiungevano le 300mila persone. Tutto ciò non può essere liquidato ai margini dell'antistato. Occorrono valutazioni lucide, riconoscere loro l'impatto politico che di fatto hanno avuto).
L'involuzione, il
"reflusso" politico degli anni '80, del progressivo individualizzarsi
delle "pratiche politiche" ormai ridotte a pochi veterani e
volenterosi, è un processo parallelo alla disgregazione delle forme sociali
precedenti e alla precarizzazione del lavoro.
Le ideologie perdono
consensi (non quella capitalistica, sempre attuale, per il quale semplice esistenza e propaganda di se stessa coincidono), tutto è "vecchio" e la gente
accetta il sistema di vita borghese - persino minacciato dalla
de-regolazione del lavoro: l'impiegato che per trent'anni svolge lo
stesso impiego, mette su casa e famiglia, e vive della pensione gli ultimi
anni, lascia progressivamente il posto al giovane disorientato, spesso
amareggiato, che non ha il tempo per fare politica - che alla politica non
"crede" più - troppo occupato, di volta in volta, a combattere fra
graduatorie, colloqui di lavoro, mestieri malpagati e la frustrazione di
procrastinare una "vita tranquilla", la chimerica regolarità della vita
borghese, prima disprezzata ora ambìta.
La stessa de-regolazione impedisce l'autocoscienza collettiva: come fare gruppo, se il contratto scade dopo 1, 3, 6 mesi, e i colleghi saranno sempre nuovi, con essi i contesti e il terreno di lotta? Nulla più della deregolazione del lavoro impedisce che la stessa rivendicazione assuma forme coerenti e incisive.
Le energie fisiche e mentali sono del tutto assorbite da questo aggrapparsi con le unghie alla possibilità di un "futuro normale". La de-regolazione erode le basi per la partecipazione politica, ampliando il terreno dell'indignazione, della frustrazione, dell'insofferenza che fa presto a mutarsi in disfattismo.
I più continuano ad essere addomesticati. La televisione, la stessa ICT, arma a doppio taglio, le imbarazzanti percentuali di lettori in Italia completano il quadro.
Il degrado può entrare indisturbato in parlamento: lo specchio dell'Italia.
Alla fine, la furbizia subentra nella gerarchia di preferenza delle virtù. Lui ce l'ha fatta, dice qualcuno pensando a Berlusconi nei termini, ammirati, di un nouveau Robinson Crousoe. Si allarga la legittimazione morale della truffa, dell'imbroglio, del parassitismo mentre si erode - c'è mai stata? - la coscienza sociale e civile.
Serve un canale coerente, propositivo, consapevole per l'indignazione. Troppo è cambiato. Ci
vogliono nuove categorie descrittive, nuove griglie di lettura, nuovi
riferimenti. Data la debolezza dei partiti che potrebbero promuovere l'alternativa, quale può essere,
oggi, il punto di riferimento della rivendicazione? Sembra che il 15
ottobre degli indignati, nel suo carattere disarticolato e vario sia l'unico
esito possibile, oggi, dello smarrimento. Lo sfascio, pallido residuo, solo
parzialmente negli intenti, delle contestazioni dei seventies, nella sua
disarticolazione riflette la confusione politica e sociale. Il comunismo, allora, era, a prescindere dai contenuti, propositivo. Ora, delle contestazioni non ci resta che questo: il no, la negazione. Quando, come, un salto di qualità? E' urgente porsi questa domanda.
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