Scritto per liberareggio.org
I
Più di trecento persone arrestate e fermate, quasi seicento feriti, un morto, ingenti danni economici: ecco il bilancio di quei giorni infernali ai quali, a distanza di 10 anni, l’Italia non può tornare a guardare senza provare rabbia e vergogna.
Allora avevo 13 anni e non ci capivo molto. Mi impressionava, dei reportage, il sangue che scivolava a fiotti sulle strade. Ma quel poco che capii mi aiuta oggi a focalizzare meglio le dinamiche mediatico-istituzionali che ne hanno permesso una ricezione distorta: per me, e presumibilmente per molti altri spettatori dei tg nazionali, i cattivi erano i manifestanti. Tout court. Ricordo un Ciampi che li invitava pubblicamente a evitare la violenza – un invito significativamente non esteso agli altri, alla polizia. Il messaggio che un comune spettatore poteva trarre dal modello informativo proposto, era: meno male che ci sono i poliziotti! secondo la facile, trita schematizzazione, non ignota alle fiction. Le immagini insistevano a oltranza sui black bloc alle prese con sassi e bastoni – una minoranza che ha fatto molti danni, benché pur sempre una minoranza le cui colpe si sono come al solito riversate in blocco sulla maggioranza dei manifestanti; insistevano sui negozi devastati; insistevano sulla rabbia dei cittadini proprietari di quelle auto e di quei locali distrutti dai facinorosi.
La tv non mostrava tutto: le due facce della medaglia.
Non mi ero accorta, chissà perché, della pistola puntata ad altezza d’uomo dal carabiniere Placanica in Piazza Alimonda, né della doppia retromarcia della camionetta sul corpo di Carlo dopo essere stato freddato. Il valore simbolico di quella doppia retromarcia è potente. In quel gesto come in altri che accenneremo, emerge, nella sua pura crudeltà, la gratuità della violenza – compiaciuta e reiterata, che va ben oltre ogni motivazione di ordine pubblico o legittima difesa.
Ancora non sapevo che la polizia, dovendo fermare i black bloc alle prese con la devastazione del carcere nella zona Marassi, ha inspiegabilmente deviato per via Tolemaide, zona autorizzata dove marciavano pacificamente le cosiddette tute bianche, caricando ciecamente i manifestanti pacifici. Non sapevo del massacro della Diaz – mi era apparso come un generico, naturale blitz contro i cattivi; né immaginavo le atrocità del carcere di Bolzaneto. Non avevo ancora ascoltato le terribili testimonianze di chi c’era, come quella di Arianna Subri:
La testimonianza – come moltissime altre – mostra che quanto è avvenuto ormai 10 anni fa fuori dal palazzo dei “giganti” (quegli 8 che decidono per 6 miliardi, secondo lo slogan del Genoa Social Forum), ha sconcertanti punti di sovrapposizione con l’universo kafkiano. Nel video sono rievocate le stesse atmosfere cupe, la stessa alienazione surreale segnata dall’esigenza, tragicamente insoddisfatta, di capire il perché dell’oppressione: la claustrofobica mancanza di una via d’uscita. Nel Processo, il signor K. deve espiare una colpa di cui non conosce l’origine, e lotta contro l’insensatezza di un apparato istituzionale e burocratico che lo irretisce nelle sue maglie sino a togliergli il respiro, che vuole ucciderlo legittimamente, pure senza dare ragioni – che è un ossimoro.
Il poliziotto coi piedi sul corpo di Arianna, il signor K. alle prese con tribunali spersonalizzanti, sono la faccia maligna del potere, che reca i tratti dell’incubo spaventoso – una voragine onirico-reale che trascina il piccolo individuo nel giogo dell’istituzione soverchiante. Si tratta di un incubo particolare: un incubo che reca addosso un distintivo. Il quale significa sempre legittimità.
K. deve morire, deve pagare, la sua colpa è una condizione originaria inspiegabile. Arianna deve essere punita – benché, in fondo, la sua colpa consistesse semplicemente nel trovarsi nel bagno di quel bar in quel momento. Ricordando le percosse, le violenze verbali e fisiche subite, “non riuscivo a capire la consequenzialità dei fatti che mi aveva portato a quel punto” racconta, stranita, Arianna.
Viene meno l’individualità, il principio in cui collimano morale e giustizia: la responsabilità, quella per cui si paga, è sempre individuale, necessariamente legata a un nome e un cognome, a un chi sei e cosa hai fatto – non esiste una fedina penale collettiva. NelProcesso come nelle scene descritte dalla testimone, viene a mancare del tutto questo principio fondante del diritto: la violenza perpetrata è generica e così genericamente giustificata. La punizione è collettiva. Ai nomi e cognomi legati a precise responsabilità, subentra la massa informe dei colpevoli a prescindere. Benché neanche la presenza di una colpa tangibile potrebbe giustificare tali punizioni, del tutto arbitrarie e legate a una rabbia compulsiva, feroce, distruttiva, che non trova luogo nel diritto e, certo, non rientra nei compiti istituzionali delle forze dell’ordine – ma, semmai, nella pura e semplice delinquenza.
Ciò è dimostrato anche, per citare un esempio, dal pestaggio quasi mortale di Marc Covell, che si trovava fuori dalla Diaz, e che oggi ha la spina dorsale compromessa (…non già che il trovarsi dentro la Diaz rendesse il massacro più sensato). Viene meno il diritto, viene meno il senso. La polizia tira a caso, è un maldestro giocare a freccette contro un bersaglio generico.
L’assurdità della punizione immotivata esala dalle pagine kafkiane ad un ritmo ansiogeno ed estraniante. E’ assurdo, pensa il lettore. La stessa reazione di chi ascolta le testimonianze di chi si trovava nella scuola Diaz, a Bolzaneto, in via Tolemaide, in Piazza Alimonda e non solo. L’assurdità è infatti sempre contrassegnata dalla gratuità, che è profonda impossibilità di risalire alle ragioni: l’assurdità è il collasso del nesso causa-effetto, sulle cui macerie si erge, glaciale, la mancanza di senso.
Di fronte a tutto questo, a nulla valgono le parole del carabiniere Placanica, che sparò su Carlo Giuliani: questo calabrese spaventato ha gli occhi bagnati e le labbra, sembra, ancora tremule di sgomento. Mi hanno abbandonato, dice fissando il vuoto, e affogando, dopo, nel silenzio. La sua reazione allora fu quella di un comune cittadino impaurito, non quella di un carabiniere. Nessuno lo aveva preparato a quella situazione, è vero che lo avevano abbandonato. E’ evidente che manganelli, pistole e lacrimogeni non costituiscono strategie difensive vincenti. La formazione delle forze di polizia avrebbe dovuto essere la prima. E’ naturale allora che, senza formazione e preparazione adeguate, senza strategie, l’istituzione vada in crisi di fronte a una massa umana non meglio catalogabile che, secondo l’epiteto prescelto da uno dei poliziotti descritti da Arianna Subri, come accozzaglia di comunisti rompiscatole (strana equazione: manifestare e dire la propria = essere comunisti. Mi si perdoni se dirò che mi ricorda qualcuno). Il sistema non ha previsto questo “inconveniente”. Bisogna, dunque, reprimerlo ciecamente. Al di là del bene e del male, al di là di nomi e cognomi.
Così, anziché fare una seria riflessione sull’assoluta mancanza di formazione dell’apparato di polizia per la situazione creatasi a Genova, questione per la quale ha riservato appena un cenno, l’allora ministro dell’interno Scajola ebbe l’ardire di esprimere un concetto imbarazzante. Per giustificare la barbarie perpetrata dalla polizia, disse che “i violenti non recano addosso segni di riconoscimento”. Per l’allora Ministro, ciò varrebbe a giustificare una punizione indifferenziata col beneplacito del Ministero. Che sarebbe come dire: in Calabria c’è la ‘ndrangheta, ma poiché gli ‘ndranghetisti non ce l’hanno scritto in fronte, è giusto massacrare tutti i calabresi. A questo punto, date le recenti vicende degli appartamenti a lui intestati a sua insaputa, pare recidiva la tentazione dell’ex ministro di scaricare le responsabilità su fantasmi.
II
Mai se non in situazioni come questa risulta tangibile il fatto, semplice e brutale, che le istituzioni, in fondo, sono fatte da persone. Ogni situazione ha le sue proprie contingenze; tuttavia, quanto accaduto a Genova 10 anni fa non è, al fondo, tanto diverso dai recenti fatti di Chiomonte; dalle umiliazioni aberranti del carcere di Abu Grahib; dal comportamento dei soldati americani in Iraq svelati da Wikileaks (illuminante in questo senso quell’ammazzare a caso delle pedine umane che scappano come topi – ma ai proiettili non si sfugge – sembra un videogioco); dalle morti “inspiegabili” di molti detenuti in Italia e altrove. C’è in simili fatti una matrice comune: il potere del distintivo, l’uso sadico del potere, la disumanizzazione perpetrata dallo Stato.
Lungi da noi operare un generico attacco alla polizia in quanto tale. Sappiamo che molti agenti lavorano onestamente, che la polizia è un modo di tutela dei cittadini. Ma vogliamo riflettere su quanto accaduto 10 anni fa, che purtroppo sconfessa clamorosamente quanto appena detto. Di fronte all’accaduto, non possiamo non chiederci: chi è, in fondo, un poliziotto? Semplicemente, un uomo come gli altri. Che però è legittimato. Una legittimazione che, se incontrollata, se non sorretta da consapevolezza del ruolo e adeguata formazione, può diventare molto pericolosa.
La violenza, sappiamo, è antica come il mondo; eppure i casi menzionati (Chiomonte, Abu Ghraib, ecc) sono accomunati da una caratteristica speciale: quel tipo di violenza è perpetrato da coloro la cui missione consiste esattamente nell’arginarla. E’ allora che la vittima incappa in un tunnel spaventoso: alla violenza subita non si può sfuggire semplicemente “chiamando la polizia”. Come dice il giornalista Guadagnucci, direttamente coinvolto nei fatti della Diaz, chi dovrebbe difenderti diventa allora il tuo aguzzino.
Mentre scrivo, immagino il sottofondo infernale dei tonfi dei manganelli, picchiati nei corridoi della Diaz da poliziotti in procinto di aggredire indistintamente tutti, sempre per il principio della colpevolezza collettiva – una contraddizione in termini, uno schiaffo al diritto – descritti fra l’altro da Lena Zulik, ragazza che come gli altri in quella scuola pacificamente ci dormiva, e per questo picchiata a sangue: trascinata per i capelli, presa a calci; bilancio: costole rotte, perforamento dei polmoni, perdita di coscienza.
Di tutto questo, uno degli episodi che mi sono parsi più emblematici è il teatrino del saluto romano imposto ai giovani nel carcere di Bolzaneto, così come la violenza psicologica e fisica, facile e vile perché perpetrata tra sbarre e mura lontane da occhi indiscreti. La responsabilità individuale, già negata a monte alle vittime, si dissolve di nuovo dall’altra parte della “barricata”: insulti, violenza verbale a sfondo sessuale, cattiveria morbosa e compiaciuta, sono realizzati premendo il volto dei malcapitati verso il basso – non sia mai che vedano i responsabili, che, evidentemente, sapevano benissimo quello che stavano facendo. Quel bestiame inerme di comunistelli va sistemato con le armi subdole dell’umiliazione: fascisti di terz’ordine col distintivo possono divertirsi con giochi pesanti, ideologici e violenti, in un’orrida miscela di machismo e sadismo (che equivale a fascismo), contro persone la cui colpa è ancora da provare, ma per le quali la punizione arriva prima di ogni processo – punizione che anche la presenza effettiva della colpa non avrebbe ovviamente giustificato in quelle modalità – in un sovvertimento radicale dei principi fondamentali del diritto di uno stato democratico.
Quando gli uomini si riuniscono sotto il tetto di un’istituzione che ne legittima l’operato, il rischio di usare questa legittimità e questo potere per esternare le pulsioni più abiette di violenza e rivalsa sull’altro – debole solo in quanto privo di questa legittimità, solo in quanto privo del beneplacito istituzionale – è forte. La dinamica del carcere di Bolzaneto ricorda il noto “Effetto Lucifero” descritto da Philip Zimbardo, come esito del famosoesperimento della prigione di Stanford, in cui si simulava la vita all’interno di una prigione, con partecipanti assegnati casualmente al ruolo di prigionieri o carcerieri.
Da psicocafe.blogosfere.it: “9 studenti di college, sani, intelligenti, di classe media e psicologicamente normalissimi divennero spietati aguzzini ai danni di altri 9 studenti come loro, in soli 5 giorni. L’unica cosa che servì a determinare questa imprevedibile trasformazione fu la creazione di un contesto favorente: una prigione simulata”.
In gruppo, nella legittimità, sembra che gli individui – anche i più impeccabili, i più “normali” – siano capaci del male più cruento.
Tuttavia, il tentativo di dare una spiegazione psicologica all’assurdo, benché auspicabile e comprensibile, non deve conferire un’aura di “giustificabilità” alle dinamiche di crudeltà dei violenti. Il rischio c’è ed è importante tenerlo presente: effetto lucifero o meno, dalle responsabilità, non azzerabili o riducibili al gruppo, sempre in prima istanza individuali, non si può astrarre. Lo ha descritto bene Hannah Arendt, nel suo Responsabilità e giudizio[1]. Riferendosi al nazismo, riconducibile secondo molti ad una colpa collettiva del popolo tedesco e alla conseguente necessità di una “sospensione del giudizio”, la grande pensatrice smentisce: la responsabilità è sempre e solo personale. L’innegabile grandezza del diritto consiste, secondo Arendt, nel fatto che «esso ci costringe (…) a focalizzare la nostra attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca delle società di massa, un’ epoca in cui tutti si considerano (…) ingranaggi di una grande macchina…» (Alcune questioni, pag.48). Non ci stancheremo mai di dirlo, perché ci sembra che su questo terreno si giochi, fra l’altro, la comprensione della gravità di quanto accaduto.
III
Lo stesso Guadagnucci[1] ci ricorda che alcuni mandanti delle “spedizioni punitive” della Diaz risultano, ad oggi, addirittura promossi. Come non associare ciò alle dinamiche descritte dal film illuminante, geniale, Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri: di fronte all’evidenza dell’omicidio, il Commissario interpretato da Gianmaria Volonté viene assurdamente incensato e promosso, grazie a inquietanti meccanismi sociali di potere all’interno della polizia, che sovvertono il normale iter promozionale delle gerarchie, che ricorda vagamente il principio dello shhh, non importa, sei dei nostri.
A questo punto si potrebbe obiettare: ma perché si insiste tanto sui poliziotti e non sui black bloc, sui manifestanti violenti?
E’ vero: i cosiddetti black bloc, benché secondo qualcuno, per esempio il filosofo Gianni Vattimo, siano un’ “invenzione della polizia”, adottano una strategia di protesta improntata allo scompiglio e alla distruzione - una strategia che nelle forme è deprecabile, che però sembra quasi richiesta dal sistema mediatico vigente: senza fuochi, fiamme e vetri rotti gli esiti di ogni manifestazione sfiorano appena i margini della venticinquesima pagina del quotidiano locale. Ma è senza dubbio una forma di protesta vigliacca e infantile, laddove alla provocazione fisica segue uno sparpagliamento che disorienta, e che porta a confondere i pacifici con i violenti: la fuga non è, notoriamente, il massimo esempio di coraggio.
Eppure, è importante insistere sugli errori delle forze dell’ordine, “semplicemente” perché hanno il distintivo e rappresentano lo Stato. Lo Stato che deve essere giusto, per sua natura: un errore della polizia, peraltro deliberato e reiterato, non è paragonabile all’errore di un civile – ferma restando l’imputabilità di quello. Perché la polizia non può permettersi di arridere ai principi fondamentali della democrazia, di cui dovrebbe essere un’emanazione. Perché il compito della polizia è difendere. Non, segnatamente, l’opposto.
In questa luce, i calci e le percosse che hanno subito, per citarne solo una minima parte, Marc Covell, il giornalista Guadagnucci, Lena Zulik, Arianna Subri, sono calci e percosse alla Costituzione, alla democrazia, al diritto, all’etica, oltre che alle persone, nonché al concetto stesso di umanità. La banalità di queste affermazioni deve ahinoi scontrarsi con episodi nei quali finanche simili principi che ci sembravano elementari sono stati capovolti.
Nonostante i tentativi riduzionistici rispetto alla portata dei comportamenti da parte della polizia, le testimonianze sono molte e le prove anche. E’ vero che non si possono condannare in blocco le forze dell’ordine come categoria, in un generico attacco che odorerebbe di qualunquismo. La critica si circoscrive perciò a quanto accaduto – alle persone coinvolte, individualmente responsabili – rispetto al quale la categoria deve prendere in carico l’imbarazzo di comportamenti di molti suoi esponenti che, certamente, avrebbero potuto essere evitati, ma che hanno comunque avuto luogo, e che pertanto non possono essere minimizzati, elusi, o addirittura considerati degni di oblio. Si tratta di un’assunzione di responsabilità su cui, si spera, faranno luce i processi fra quelli ancora in corso, benché la storia non si scriva nei tribunali, come scrive Mantovani nell’incipit del suo libro[2].
Insomma, una presa di posizione come categoria sarebbe stata quanto meno doverosa, tanto più che dopo 10 anni nessuno ha mai chiesto scusa ai ragazzi e alle ragazze che a Genova hanno subito gli ingiusti pestaggi e le umiliazioni di Bolzaneto. E’ vero, tra manifestanti e forze dell’ordine numerose sono state le condanne come le assoluzioni; ma numerosi i casi archiviati, e alto è ancora il rischio di prescrizione per molti reati[3].
Ancora oggi le domande su Genova continuano ad alimentare un dibattito che sembra destinato a proseguire all’infinito: benché i media abbiano la memoria corta, 10 anni non cancellano interrogativi e ferite aperte. Il buco nero che quei giorni di violenza hanno lasciato nella storia dell’Italia, per Amnesty “la più grande sospensione dei diritti democratici, in un paese occidentale, dalla fine della seconda guerra mondiale”, non può e non deve estinguere il dovere di parlarne ancora. Non a caso in tanti hanno deciso di raccontare e documentare quei giorni infernali, di cui oggi ricorre il triste decennale. Tra i libri, “L’Eclisse della Democrazia”[4] di Guadagnucci e Agnoletto, e il già citato “Diaz processo alla polizia” di A. Mantovani ; nonché un film di prossima realizzazione significativamente osteggiato da molti…:le istituzioni non ci fanno una bella figura.
Non dobbiamo dimenticare, in ogni caso, ciò da cui era partito tutto: quegli 8 che decidono per 6 miliardi di persone; quelle migliaia manifestanti tenacemente riuniti, senza timori, per affermare pacificamente il loro dissenso su questa lampante sproporzione,accettata come ovvia dai più.
Io ricordo molte cose, ma, tra le altre immagini, un secchio pieno di denti, di Bolzaneto. I giorni in cui lo stato di diritto in Italia è stato sospeso, e non ce ne siamo accorti.
RispondiElimina