Di G. Agamben (che in genere non adoro):
"Supponiamo adempiuti tutti i segni, scontata la pena dell'uomo nel linguaggio, tutte le possibili domande soddisfatte e proferito tutto quanto poteva essere detto, che cosa sarebbe allora la vita degli uomini sulla terra? (...) Ma supponendo che provassimo ancora voglia di piangere o di ridere, per che cosa piangeremmo o rideremmo, che cosa sarebbero quel pianto e quel riso, se, finché eravamo prigionieri nel linguaggio, essi non erano, non potevano essere altro che l'esperienza, triste o beata, tragedia o commedia, dei limiti, dell'insufficienza del linguaggio?
Dove il linguaggio fosse perfettamente delimitato, là comincerebbero l'altro riso, l'altro pianto dell'umanità".*
Vale a dire che le esperienze più assolute, più dense e più vive, fioriscono in una zona d'ombra che è priva del linguaggio.
Questo non vale, però, per la poesia, che è esattamente l'estrema, impossibile coincidenza fra quelle esperienze e il linguaggio.
"La poesia è l'unicità destinale del linguaggio".*
* G. AGAMBEN, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano, 1985.
Grazie per la citazione, conosco poco Agamben, ma è forte il mio interesse per tutto quello che concerne il linguaggio e soprattutto i suoi limiti. Così sembra che la poesia sia il fine delle lettere, in senso sia di unicità destinale che di sottile congiunzione di trame d'ombra.
RispondiEliminaE del resto quell'ombra incombe anche nell'immagine che ti sei prescelta come sfondo della tua negazione depilatoria :)
Saluti,
M xx
Grazie a te, mi fa piacere ritrovarti...
RispondiEliminaSte scoperte cara - sempre i maschi le fanno. E devono pure filosofare duro. Fai un figlio e vedi come il logos diventa na' piattata de patate fritte.
RispondiEliminaSo ridanciana - ma so filosofa eh:)
(Oh ps: così parlò Anacronista E' GENIALE!!!!)
Zaub, oggi vado a rilento e confesso di non aver capito la battuta. Pardonnes-moi madame.
RispondiEliminaPer quanto riguarda l'Anacronista, beh, è IL mio vero nick ormai, calza troppo con la fissa che ho per l'inattualità :)