Il 19 ottobre ho finalmente avuto il piacere di assistere nella mia in genere disattenta città ad un convegno sul tema dell’attuale condizione femminile in Italia, organizzato dall’associazione “Donne in rete” presso il palazzo del consiglio regionale. Moltissime le donne adulte presenti, neanche una coetanea, qualche uomo, molti, forse troppi i politici.
La proiezione del documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo ha dato il via alle discussioni, e qui mi sento di dover fare un inciso: quel documentario ha il merito di avere aperto un dibattito diffuso di cui quello tenutosi a Reggio è solo un esempio, ha risvegliato l’attenzione sul tema che anni e anni di attivismi e associazionismo militante non erano riusciti a porre sul tavolo della politica e del dibattito mediatico, ma soprattutto ha risvegliato l’attenzione delle donne e forse degli uomini che lo hanno visto, contribuendo così a innalzare il loro livello di consapevolezza.
I molti articoli che dalla sua proposta su La7 si sono susseguiti, i moltissimi incontri organizzati in tutt’Italia, l’attenzione della stampa estera per la situazione femminile italiana, e molto altro, ritengo che siano stati sapientemente innescati da quel documentario che ha saputo attecchire su uno sdegno già presente in chi l’ha visto, e grazie alla sua incisività e immediatezza comunicativa è riuscito a farsi ascoltare, purtroppo, molto più di quanto la contestazione quotidiana dei gruppi di pressione sia riuscita a fare finora: il documentario è arrivato ai media, mentre le associazioni attive in tema di diritti delle donne non ci erano ancora riuscite, ma non per una loro carenza comunicativa o che, semplicemente perché i media non hanno mai dato loro voce. La relatrice Marsia Modola, rappresentante dell’UDI, durante il convegno ha sottolineato questa realtà, anche in risposta ai tanti interventi su varie testate giornalistiche che hanno denunciato ultimamente un presunto “silenzio delle donne”.
Dato l’abuso del corpo femminile operato dai media, la riduzione delle donne ad uno stato meramente seduttivo del maschio, prelinguistico, quindi animale, incoraggiato continuamente dal marketing che fa del sessismo una strategia di vendita privilegiata, Nadia Urbinati su Repubblica si è domandata dove fossero le donne di fronte a questo loro degrado imposto, perché stessero zitte. Modola ha risposto indirettamente a Urbinati a mio avviso nella maniera migliore: le donne non sono zitte, semmai sono zittite, perché i media hanno scelto di dare l’esclusiva ad un modello femminile mediaticamente inconciliabile con la figura di donna critica e consapevole; le associazioni contro la violenza sulle donne, che esistono e fanno lotta quotidiana, non trovano alcun asilo presso i media; e che dire ancora di tante manifestazioni organizzate in tutt’Italia di cui la televisione, i giornali, le radio, non hanno mai riferito nulla? Queste donne sono veramente in silenzio? C’è un lavoro sottile di resistenza quotidiana di cui non parla nessuno. E’ allora giusto parlare, semmai, di un silenzio sulle donne.
Nadia Urbinati dovrebbe quindi a mio avviso riflettere sull’operazione di censura preventiva avanzata dai media, criticarla anziché fraintenderla come realtà. Denunciando il presunto silenzio delle donne, Urbinati dimostra di non saper discriminare tra la realtà effettiva e la realtà creata dai mezzi di comunicazione, tra le cose come stanno e le cose come conviene far apparire che stiano. Detto da una femminista poi, o da una donna di cultura con un potere dato dal possesso di una penna importante, è molto grave, ancor più se si considera che una giornalista dovrebbe essere consapevole dei meccanismi selettivi che stanno dietro le gerarchie di preferenza dei temi cui dare spazio in un giornale, e, se onesta intellettualmente, dovrebbe criticarli anziché sottoscriverli. Dovrebbe allora cambiare la direzione della sua domanda, sostituire quel “dove siete?” con un “perché non vi danno voce?”, e semmai denunciare questo. Rimando per questo qui e qui.
Tra i tanti interventi, quello di Modola è stato senz’altro quello più fedele alla complessità del problema, l’unico a contestualizzarlo collocandolo nella sua rete di rapporti, a differenza degli altri. Tra le relatrici, infatti, vi erano la psicologa Rosamaria Vita e la sociologa Daniela Orlando che hanno guardato alla situazione femminile da una prospettiva meramente relazionale, “monadica”, psicologica. Parlando della depressione, insistendo sulla necessità di distinguere la patologia dall’uso comune del termine, quindi focalizzando sui problemi di relazione insiti nella cosiddetta condizione umana; Vita ha riflettuto in modo apprezzabile ma senza andare al cuore del problema, anzi direi senza neanche sfiorarlo in superficie.
Infatti, come possiamo spiegare l’assenza delle donne dai ruoli di potere a partire da questa distinzione pretesa urgente? E l’immagine che ne dà la televisione? Si è operato un isolamento: gli aspetti psicologici generali, neanche pensati in rapporto alla questione trattata, sono insufficienti e forse persino inadeguati a spiegare tale stato di cose.
Ma se questo può essere perdonato ad una psicologa, che adotta la prospettiva “monadica” forse per eccessivo rigore deontologico, dalla sociologa mi sarei aspettata decisamente di più. La sociologia è una disciplina immensamente interessante, poiché è per metodo e contenuti messa nelle condizioni di spiegare, meglio forse di altre scienze, le dinamiche culturali e sociali, i conflitti o, come si dice, “l’andamento del mondo”, potendone rappresentare la complessità potenzialmente in maniera non riduttiva, ma consapevole e forse costruttiva. Invece Orlando ha proposto al pubblico delle riflessioni ancora una volta psicologiche e relazionali, isolando il “sistema dei rapporti” a una relazione a due. Ha focalizzato sul tema della “comunicazione interrotta” parlando con preoccupazione anche di una brutta competizione tra le donne, su cui in seguito il dibattito ha insistito ripetutamente come se questa fosse la spiegazione di tutto; la competizione femminile, l’incapacità di fare rete “con le altre” solidalmente e muovendo da una prospettiva comune, per me è sì reale ma inessenziale nella questione.
Parole come “competizione femminile”, “quote rosa”, “problemi di comunicazione”, hanno sistematicamente distolto l’attenzione della discussione dal fuoco del problema, dandone un’immagine dispersiva e poco esplicativa. In generale, non ho amato molti interventi perché tendenti a isolare certi aspetti rispetto al contesto culturale e sociale nei quali di fatto si sviluppano, per valutarli è a mio avviso necessario collocarli nella rete alla quale appartengono. Quella della contestualizzazione non è tanto una mia esigenza, quanto un requisito oggettivo ogni volta che si tratti di problemi così articolati e complessi come quello dell’involuzione della figura e del ruolo femminili che tuttora perdura. Non contestualizzare equivale a fare di una parte la spiegazione pretesa esaustiva del tutto, significa quindi in definitiva presentare un’immagine unilaterale e ingiustificabilmente semplificativa della realtà.
Quindi, prima di ridurre l’esclusione sistematica delle donne dai ruoli di potere a una competizione femminile, a una presunta svogliatezza o disinteresse delle donne, ecc, come nel convegno è stato fatto, dovremmo forse domandarci il perché e considerare la realtà femminile alla luce del suo contesto. A questo si aggiungano i molti interventi di politici e politiche intrisi di retorica, narcisismo e propaganda, che hanno per un lasso di tempo inaccettabilmente lungo monopolizzato il dibattito impedendo indirettamente ai cittadini presenti di prendere la parola, loro che invece la parola, come dire, “ce l’hanno sempre”.
Il dibattito col pubblico ha seguito l’onda dispersiva inaugurata dagli interventi delle relatrici, ma ciascuno ha comunque posto l’accento su l’uno o l’altro aspetto degno di interesse nella valutazione della questione. Qualcuna ha parlato della legge 40: come mai le donne non hanno protestato? Qualcun’altra delle quote rosa, sulla cui urgenza sembrava che tutta la platea fosse unanimemente concorde. Addirittura, qualche esponente del consiglio comunale ha parlato di una presunta incapacità “congenita” delle donne a fare politica, a causa della minore esperienza, in maniera davvero imbarazzante. (Fortunatamente, qualcuno le ha fatto notare che gli uomini, a quanto sembra, non ne sono poi così capaci).
Insomma, qual è il contesto? Ho cercato nel mio intervento di porre l’accento su questo, muovendo dalla questione delle quote rosa data quella sorta di plebiscito in merito di cui non riuscivo a capacitarmi. Agire sulle quote rosa, ho detto, non è forse agire sull’effetto piuttosto che sulla causa? Il fatto, cioè, che le donne non siedano per esempio numerose in Parlamento, è il sintomo di qualcosa che non va a monte. Ho cercato così sinteticamente di proporre un quadro della situazione in cui giacciono le donne ad oggi, e che ricalca le opinioni che ho già espresso su LiberaReggio in passato.
Il patriarcato, innanzitutto, è ancora più difficile da sconfiggere rispetto a cinquant’anni fa, perché ha un nuovo alleato: il mercato. Patriarcato (inteso come sistema di potere che relega le donne a una condizione simbolica e sociale subordinata) e mercato sono oggi inestricabilmente intrecciati in un sodalizio che rischia – anzi, che di fatto ripropone i vecchi problemi che si credevano superati col femminismo, veicola dei modelli di femminilità avvalendosi del potere di forgiare l’immaginario collettivo, gli stereotipi, le credenze comuni, la mentalità; in un sistema ideologico che penalizza anzitutto le nuove generazioni, che, sopraffatte dalle tecnologie, hanno di fatto sempre meno mezzi per difendersi con uno sguardo critico. Ora, è importante focalizzare sulle alternative e sulle possibilità di scelta del modello: quanti modelli femminili abbiamo a disposizione, quali sono più “a portata di mano”, quali vengono costantemente promossi e pubblicizzati come positivi? I media non propongono alternative, o, se le propongono, sono numericamente irrisorie rispetto allo schema dominante, che è, come ho già scritto, quello della bella e muta, dove “bella” va inteso certo nel senso mediatico del termine, che prescrive l’equivalenza tra bellezza e aderenza allo schema di tratti corporei del mercato – così contribuendo persino al decadimento della profondità semantica della parola “bellezza”. Insomma, le donne non sono incoraggiate a pensare, a desiderare un potere diverso da quello seduttivo, ad approfondire le caratteristiche della propria condizione, in breve ad essere critiche e coltivarsi per quello che sono. E insisto nel sottolineare che non si può isolare il meccanismo ai media, perché per mezzo di questi esso si riverbera sull’immaginario collettivo e sulla, come si dice, communis opinio, di fatto creando un costume ed un orientamento generale difficilmente contrastabili, perché tenacemente inculcati. Hanno dalla loro, cioè, l’interiorizzazione dei “fruitori”. Ma accanto a quest’aspetto ho voluto sottolineare il versante “pratico” della questione.
Che dire della divisione del lavoro familiare, di fatto risalente a cinquant’anni fa specie dalle nostre parti? Le donne con figli, che sono molte, in che modo, dato già il contesto ideologico appena accennato, sono agevolate nell’assumere ruoli di potere? In modo disperatamente banale, c’è che, in una coppia con figli, la donna lavora, bada alla prole, all’organizzazione e manutenzione domestica: l’uomo lavora e basta. Concretamente, pensiamo al tempo che rimane a una donna come tante che viva questa situazione per anche solo proiettarsi un po’ più in là di questa semplice routine. Se manca il tempo per aprire un libro, foss’anche per riflettere, se necessitano i soldi, la famosa pagnotta, come può ella anche solo formulare un pensiero altro, che esca dal tracciato prescritto dalla sua vita attuale? La politica, poi, richiede dedizione, costanza, impegno, studio (anche se ad oggi non si direbbe), come potrebbe una donna con figli dato lo stato di cose applicarvisi? Se la società usasse la stessa foga che usa quando parla di aborto in termini di assassinio per aiutare concretamente la decisione e l’esercizio concreto della maternità; se gli uomini abbandonassero la convinzione che la compagna sia una domestica e adottassero la prospettiva dell’equa collaborazione; se sin da piccole avessero dei modelli femminili alternativi da assumere come guide ideali nella formazione; e molti altri se, forse le donne si avvicinerebbero da sé ai ruoli di potere, avrebbero il tempo per ripensarsi e sarebbero concretamente messe nelle condizioni di desiderare un destino altro da quello predisposto dai media e dalla mentalità sessista diffusa.
Ho riportato più o meno fedelmente il succo del mio intervento; mi è dispiaciuto di non aver potuto sentire la risposta di Marsia Modola che sembrava intenzionata a dirmi qualcosa, perché qualche politico/a fremeva dalla voglia di effondersi nelle “ultime parole retoriche”.
Nonostante tutto, ho apprezzato il fatto che si sia tenuto un simile incontro qui, dove persistono retaggi fortemente sessisti in più forme, e manca di conseguenza pressoché del tutto una consapevolezza critica relativa a questi temi. L’inerzia culturale di Reggio ha bisogno di incontri come questo, certo perfettibili, come fonte d’informazione alternativa: l’unica che può indebolire il sistema.
Bello l'articolo,l'ho letto tutto d'un fiato.
RispondiEliminaPer quel che riguarda il tema, anch'io tenderei a non porre troppo l'accento sugli aspetti di necessitazione che i vincoli di sistema pongono in essere. E invece mi interrogherei sull'autodeterminazione della donna, aspetto che spesso non viene proprio preso in considerazione da alcune letture riottose del femminismo, tutte tese a denunciare una problematica che ormai appare evidente nella sua fisionomia. O meglio: mi interrogherei sull'aspetto sistematico ma in funzione dell'autodeterminazione. Chi pretende la libertà deve correre anche il rischio di sapersela conquistare.
Sul fatto che poi buona parte delle donne - nonostante gli aspetti di repressione sistemica - cedano tranquillamente alle lusinghe dell'autoritarismo maschile, direi che abbiano un po' di responsabilità anche loro. Insomma quell'iconografia seduttiva e sottosviluppata del corpo della donna, è un'iconografia a cui anche le donne stesse prestano il loro consenso.
Forse non si è capito quello che intendevo...io in realtà pongo l'accento sui "vincoli contestuali". Non mi piace che si parli di autodeterminazione come se fosse una cosa di cui si dispone naturalmente. Il mio concetto di libertà è più complicato, nel senso che le donne che sottoscrivono il maschilismo col loro atteggiamento non hanno gli strumenti di critica necessari anche solo per vederlo.
RispondiEliminaIo penso agli aspetti "formativi", solo quelli sono alla base della libertà, nel senso che la rendono vera oltre che "politicamente" (in senso lato) possibile.
Se sono analfabeta quanto sono libera?
Questa domanda andrebbe trasposta su un piano più "stratificato" e complesso come quello della cultura dominante e dell'ideologia diffusa. Si educa ad un modello: questo "mono-modellismo" (eheh non mi viene una parola più decente) può essere un presupposto della libertà?
Con questo non intendo sostenere determinismi o che. Solo riconoscere l'importanza cruciale dei contesti, spesso non considerata.
Ma molte donne che si offrono supinamente a questa ideologia dominante non mi sembrano esattamente delle analfabete. Mi sembrano più che altro delle opportuniste (a modo loro). Perché adattarsi all'ambiente - indipendentemente da valutazioni di genere - è sempre la soluzione più facile. Quella che implica meno consapevolezza nella scelta. Non posso fare a meno di pensare che le veline (per esempio) siano conniventi con questo sistema (e quindi un elemento del reticolo contestuale), piuttosto che vittime indifese alla mercé del maschio. Dovere di una donna realmente emancipata sarebbe - a mio modo di vedere - prendere le distanze da loro, piuttosto che tentare di assolverle in quanto ingranaggi passivi di un sistema più grande di loro. Perché la responsabilità non passa per il genere sessuale ma investe integralmente la persona.
RispondiEliminaIo non nego affatto l'aspetto dell'opportunismo, anche se non l'ho specificato, ma più volte (e tu mi leggi) ho detto che sono così alleate inconsapevoli del sistema che le opprime. E io quando parlo di sistema non dico "maschio"...dico sistema, che tra l'altro secondo me "supera" anche il maschio - infatti il discorso sui media ha una ricaduta su tutti e quello delle donne è solo un aspetto dei problemi. CIò non toglie che il sessismo EREDITATO dai media e da essi perpetrato è geneticamente maschile.
RispondiEliminaIo non le assolvo, in effetti potrebbe sembrare così...quello dell'analfabetismo era un esempio per porre l'accento sui MEZZI per essere liberi.
A queste ragazze sono stati mai offerti mezzi per essere critiche? Nelle loro case, ci sono delle librerie, e se sì, è stato loro insegnato, da piccole, ad avvicinarvisi? CHi le circonda, in famiglia e a scuola, sono persone critiche e consapevoli? Sono persone che amano la cultura, presupposto indispensabile e della possibilità critica e della consapevolezza?
Certo, non sono analfabete, ma a me basta guardarle un attimo per capire che sono cresciute a suon di televisione, coi suoi falsi modelli e i suoi desideri preconfezionati che loro ripetono.
Virginia Woolf l'ha detto per prima, e ha ragione. Prima di pensare che non abbiamo quasi nulla di prodotti culturali femminili risalenti a prima dell'Ottocento, dobbamo chiederci, ha detto Woolf, se queste donne avevano "una stanza tutta per sé". COme pensare, scrivere, senza una stanza tutta per sé?
E' ovvio che anche questo è un esempio. La stanza tutta per sé di allora è la cultura di oggi.
Dài. La quesione della responsabilità, pur urgente, per me viene dopo la riflessione sulle circostanze. La responsabilità , come la libertà, non è un concetto astratto ma situatissimo. Questo NON è determinismo, quindi NON è assoluzione di niente: anche perché, è fuori luogo per me porre la questione in termini di assoluzione o di premi. Almeno a me interessa ragionarci veramente.
Che prenda le distanze da loro mi sembra la cosa più esplicita dell'articolo. Sarà che comunque il mio fine non è tanto, ripeto, assolvere o attaccare, quanto ragionare.
Ma appunto perché la libertà è situata che non la si può considerare come una diretta promanazione dei condizionamenti ambientali ad essa presupposti. I condizionamenti ambientali - quali che siano - ci sono sempre. Ci sono anche nell'ordinamento sociale giusto, per il fatto stesso che un qualsiasi ordinamento implica sempre un certo grado di adattamento, deterministicamente inteso. La libertà non è mai un dato di fatto - tale che rimosse quelle circostanze di cui tu parli, essa poi sia immediatamente disponibile. Non è un abito da indossare. Essa è sempre una conquista: quale che sia l'ordinamento sociale non la si può ottenere a basso prezzo. Al prezzo di una connaturalità all'ordinamento sociale di riferimento, quand'anche fosse giusto.
RispondiEliminaIl grado di libertà e il dispiegamento del processo conflittuale (perché circostanziato) di liberazione ad esso connesso, sono sempre coestensivi. Per questo credo - in generale - che la libertà appartenga sempre a una situazione minore all'interno della struttura maggiore; che essa pertenga sempre a una situazione-margine. E qui inizia il tragico...
Oh, certo che non mi ascolti.
RispondiEliminaNON HO DETTO CHE E' UNA DIRETTA PROMANAZIONE DEI CONDIZIONAMENTI AMBIENTALI. NE' PENSO CHE SIA "UN ABITO DA INDOSSARE". NE' TANTO MENO CHE TOLTI IN CONDIZIONAMENTI SBUCHI LA LIBERTA' COME UN FUNGO.NON NEGO CHE SIA UNA CONQUISTA. NON NEGO CHE, UNA VOLTA "CONOSCIUTA" SIA SEDE DEL TRAGICO.
A me interessano le CONDIZIONI che rendono la libertà possibile. A te no.
del resto anche l'uomo accetta, colpevolmente e opportunisticamente. i modelli che gli vengono proposti. il problema è che l'uomo non è tenuto ad inglobare dentro di sè un'icona degradante e fiaccante proprio per il fatto che la cultura diffusa (è abbastanza arduo giudicare il livello di "analfabetismo" delle persone, si tratta di una cultura legittimata dall'alto,dagli studi superiori), oltre a non proporre quell'mmagine per lui, crede che solo le donne siano pernatura "inclusive"
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