Ridere è una cosa seria, lo abbiamo già detto più volte. C'è davvero tanto da dire su quella cosa strana che quando accade fa muovere i muscoli, solletica lo spirito e inumidisce gli occhi, e la cui funzione sembra consistere nel rendere tutto un attimino più sopportabile. Nell'autoironia, per esempio, si rivela la consapevolezza della propria limitatezza e la si esorcizza; eccetera.
Vorrei tuttavia ora soffermarmi su una (solo una) delle tante ramificazioni del multiforme e talora contraddittorio universo del "ridere": e cioè quella del ridere per forza.
C'è una specie di irrigidimento, di contrizione, in alcuni tentativi particolarmente socialzelanti di far ridere gli altri. Sembra che il reale contenuto di questo meccanismo sia alla fine quello di una sorta di compiacenza un po' ruffiana. Ho trovato urtanti alcuni tentativi nei social di farlo, da parte di accreditati satiri, e mi domandavo perché: c'era qualcosa di sinistro, di profondamente bugiardo nell'ostentazione dello "scherziamo, dai! ah, ah, ah, ah".
Poi ho ascoltato N., uno che di solito coglie il nocciolo delle cose a uno sguardo, che mi diceva: "oggi tutti la buttano a ridere". Perciò, a ridosso di queste riflessioni ho deciso di fare spazio, con consueto anacronismo, a uno che l'ha capito sin dall'inizio e che l'ha saputo dire con maggiore precisione e acume di chiunque altro. Uno che è passato di moda, oppure uno che è sempre troppo di moda. Dipende. Sì, insomma, Adorno.
Tutti presi dall'accusa di "snobismo intellettualoide" nonché dalla banalissima accusa di "negativismo", alla fine ci si è persi una lucida, disinteressata, onesta considerazione di queste e molte altre riflessioni incredibilmente profonde, il cui contenuto di verità, secondo me, nessuna ostentata o reale dialettica tra apocalittici e integrati potrà intaccare.
No, non sto dicendo che "ci cose su cui non si può scherzare", o almeno non è questo l'obiettivo qui; né si tratta di una pseudomoralistica condanna del faceto che spesso merita ogni sorta di rispetto. Vorrei solo gettare un sassolino nello stagno, a partire da alcuni spunti di Adorno che mi sono tornati in mente in questi giorni nell'osservare quell'irrigidimento, quella coazione a ridere oggi così diffusa e non facilmente interpretabile.
Da T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi 2007:
Sull'"altra natura" del riso, invece:
pp. 150 - 153:
“[…] Si ride del fatto che non c’è nulla da ridere. Il riso,
rasserenato o terribile, accompagna sempre il momento in cui viene meno o si
dilegua una paura. Esso annuncia la liberazione, sia da un pericolo fisico, sia
dalle reti della logica. Il riso rappacificato risuona come l’eco del fatto che
si è riusciti a sfuggire alla morsa del potere, mentre la risata cattiva
perviene a dominare la paura in quanto si schiera dalla parte delle istanze che
sono da temere. E’ l’eco del potere come forza ineluttabile. Il fun è un bagno
ritemprante. L’industria dei divertimenti lo prescrive continuamente. In essa
il riso diventa lo strumento di una truffa operata ai danni della felicità. […]
Nella falsa società il riso ha colpito la felicità come una lebbra e la
trascina con sé nella sua totalità insignificante. Ridere di qualcosa è sempre
deridere, e la vita che, secondo la tesi di Bergson, spezzerebbe nel riso la
sua crosta irrigidita, è – in realtà – l’irruzione della barbarie, l’affermazione
di sé, che, nell’occasione sociale che le si offre, prende il coraggio a due
mani e celebra la sua liberazione da ogni scrupolo. Il collettivo di quelli che
ridono è la parodia della vera umanità. Sono monadi chiuse in se stesse,
ciascuna delle quali si abbandona alla voluttà di essere pronta e decisa a
tutto, a spese di tutte le altre e con la maggioranza dietro di sé. In questa
falsa armonia presentano la caricatura della solidarietà. […] L’industria
culturale pone una frustrazione gioviale al posto del dolore, che è presente
nell’ebbrezza come nell’ascesi. Legge suprema è che essi non pervengano mai, in
nessun modo, a quello che desiderano, e proprio di questo devono ridere e
contentarsi. La frustrazione permanente imposta dalla civiltà viene nuovamente
inflitta e illustrata alle sue vittime […]. Offrire loro qualcosa e privarli di
essa è, in realtà, un solo e medesimo atto. […] Il piacere del divertimento
promuove la rassegnazione che vorrebbe dimenticarsi in esso […]. Ma gli ultimi
rifugi di questo virtuosismo senz’anima […] sono implacabilmente spezzati e
ripuliti da una ragione pianificatrice che costringe ogni cosa a dichiarare il
proprio significato e la propria funzione se vuol provare la propria
legittimità."
p. 154:
“[...] Ma l’affinità originaria del mondo degli affari e di quello
dell’amusement si rivela nel significato proprio di quest’ultimo: che non è
altro che l’apologia della società. Divertirsi significa essere d’accordo. L’amusement
è possibile solo in quanto si isola e si ottunde rispetto alla totalità del
processo sociale, e abbandona assurdamente, fin dall’inizio, la pretesa
irrinunciabile di ogni opera, per quanto insignificante possa essere: quella di
riflettere, nella propria limitazione, il tutto. Divertirsi significa ogni
volta: non doverci pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene
esposta e messa in mostra. Alla base del divertimento c’è un sentimento di
impotenza. Esso è, effettivamente, una fuga, ma non già, come pretende di
essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultima velleità di resistenza
che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui. La liberazione
promessa dall’amusement è quella del pensiero come negazione.”
Sull'"altra natura" del riso, invece:
pp. 83 – 84:
“[…] Se il riso è rimasto, fino ad oggi, il segno della violenza, l’eruzione della natura cieca e indurita, esso ha tuttavia in sé anche l’elemento opposto: e cioè che nel riso la cieca natura si rende conto di se stessa come tale, e si libera così della sua violenza distruttiva. Questa duplicità del riso è affine a quella del nome, e forse i nomi non sono che risate impietrite, come ancora oggi i nomignoli, i soli in cui sopravvive qualcosa dell’atto originario di assegnazione dei nomi. Il riso è legato alla colpa della soggettività, ma nella sospensione – che esso annuncia – del diritto, indica anche al di là dell’irretimento, e promette la via alla patria. […]”
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