Era la mia prof, ma non l'ho mai chiamata per cognome. Per me era solo Catherine. Catherine era una straniera, in ogni senso. La vedevi, in mezzo agli altri docenti, aggirarsi come portando messaggi da un altro pianeta. (Non aveva il cellulare e aveva impedito a chiunque di regalarglielo. Erano già i tempi di internet, dell'ipercomunicazione, il cellulare lo avevano tutti, anche i 12enni. Lei no). Penso che la detestassero in tanti, in pochi la capivano. Non parlava il loro linguaggio, non ammiccava, non sgomitava, non compiaceva nessuno, non faceva nulla per risultare simpatica. Sono sicura che fra sé e sé rideva di loro. Ti guardava sempre con quel suo sguardo interrogatore, sempre perplessa, sempre nascondendo un non meglio specificato sorriso. C'era una sottile forma di derisione perenne nella sua espressione. Come se fosse perfettamente cosciente che tutto è provvisorio e mortale, e che la pretesa delle cose umane di essere importanti andava ridimensionata. Ma niente era banale, per Catherine. Ogni situazione era un'occasione per osservare, per notare, prendere appunti e interrogarsi. Per scovare i legami invisibili tra le cose. Catherine era una donna di scienza che faceva una vita da impiegata.
In cinque anni non l'ho mai vista arrabbiata. Era una stoica, una vera stoica, ed era di una curiosità immensa. La vedevi sempre così, col viso su un libro e il dito puntato su qualche riga particolare - con una mano reggeva il mento, mentre si perdeva nello sguardo assorto in un punto invisibile.
Voleva stimolare i suoi allievi, ma sapeva che si trattava di un compito necessariamente selettivo: diceva spesso, devi avere già dentro una cosa, per vederla davvero. Un concetto che ho ritrovato qualche tempo dopo in Cesare Pavese, Feria d'agosto: non comprendiamo che quello che già conosciamo.
Tutto cominciò con l'etimologia della parola nausea. Mi invitò a prendere il dizionario etimologico in biblioteca. Rivelazione: nella radice di nausea c'era la parola nave. Ci ho voluto subito mettere Sartre, così, di prepotenza. Lei era d'accordo. Ma non sapeva - o forse sì? - che avevo preso l'esistenzialismo troppo sul serio. Penso che lo avesse capito, e la cosa le faceva tenerezza (o pietà?). Ma voleva tacitamente distogliermene: dovevo, piuttosto, interessarmi alla materia, agli atomi, ai legami invisibili tra tutte le cose. Non prese molto bene la mia scelta di studiare filosofia. Credo che pensasse che gli umanisti non cogliessero a sufficienza l'importanza della scienza, delle tecnologie. Un pensiero che forse all'epoca non coglievo del tutto (ero disposta a sacrificare ogni cosa sull'altare della letteratura), ma che ora mi ritrovo spesso a riscoprire sinceramente.
Ricordo che guardai Eyes wide shut su suo invito. C'erano troppi enigmi in quel film, non li capivo, ma mi affascinava: alla fine non mi restarono che domande e sagome impalpabili di significato. Mi prestò allora Doppio sogno di Schnitzler, enigma fatto libro. Altra cosa fu L'espoir di Malraux: oggi, a distanza di anni, ripenso spesso a quel libro, alle sue atmosfere surreali, alla penna cruda e impersonale di Malraux. Mi aggiudicai la sua copia in edizione Folio originale; un bel mattoncino di scene implacabili, fotografiche, che parevano senza autore, sulla guerra di Spagna, che ancora custodisco gelosamente tra gli scaffali. Questi doni significavano per me molto più che un semplice passaggio di mano di qualche volume: li interpretavo come una preziosa attestazione di fiducia.
Tutto quello che attirava la sua attenzione, e mi sembrava banale, ero destinata, alla lunga, a riscoprirlo. Inoculava continuamente, in me, il germe della domanda. Come se mi spalancasse davanti, in mezzo all'angusta mediocrità quotidiana, una finestra invisibile che dava su un oceano inesplorato di senso. Bisognava allenare gli occhi a vedere, Catherine era la mia allenatrice.
Non c'erano limiti alla conoscenza. La geopolitica era interessante almeno quanto la struttura chimica della materia. Le emozioni erano interessanti almeno quanto la ragione. La letteratura non era inferiore alla scienza. Bisognava trovare i legami, ma soprattutto bisognava cercarli.
Andare a scuola era un po' meno angosciante per me, la scuola mi sembrava meno volgare, meno piatta, perché c'erano le sue domande. C'erano le sue domande che poi mi risuonavano in testa, che ancora mi risuonano in testa, domande semplici, ma di una semplicità che disarmava. Perché attaccarsi alle cose? Quando finiscono bisogna lasciarle andare. E bisogna osare, lo diceva sempre. Senza compiacimento. Le piaceva la parola osare. Catherine stava molto attenta alle parole.
Tutto quello che attirava la sua attenzione, e mi sembrava banale, ero destinata, alla lunga, a riscoprirlo. Inoculava continuamente, in me, il germe della domanda. Come se mi spalancasse davanti, in mezzo all'angusta mediocrità quotidiana, una finestra invisibile che dava su un oceano inesplorato di senso. Bisognava allenare gli occhi a vedere, Catherine era la mia allenatrice.
Non c'erano limiti alla conoscenza. La geopolitica era interessante almeno quanto la struttura chimica della materia. Le emozioni erano interessanti almeno quanto la ragione. La letteratura non era inferiore alla scienza. Bisognava trovare i legami, ma soprattutto bisognava cercarli.
Andare a scuola era un po' meno angosciante per me, la scuola mi sembrava meno volgare, meno piatta, perché c'erano le sue domande. C'erano le sue domande che poi mi risuonavano in testa, che ancora mi risuonano in testa, domande semplici, ma di una semplicità che disarmava. Perché attaccarsi alle cose? Quando finiscono bisogna lasciarle andare. E bisogna osare, lo diceva sempre. Senza compiacimento. Le piaceva la parola osare. Catherine stava molto attenta alle parole.
Qualche anno dopo la fine del liceo, andai a trovarla. Avevo appena scoperto di essere incinta e sentii il bisogno di andare da lei: perché? In quell'occasione mi ricordò una cosa che avevo dimenticato. Mi raccontò di un sogno che le avevo riferito durante il liceo; che subito, sentendo le sue parole, mi tornò in mente. L'avevo sognata in veste di pompiere. La città era in macerie, c'era stata una frana o qualcosa del genere che aveva ucciso tutti. Ma lei guidava i lavori con l'elmetto da vigile del fuoco, senza scomporsi. Mi invitò ad annotare i miei sogni e a pensarci su. Mi suggerì che era significativo che nel mio immaginario lei, durante la scuola, fosse una vigilessa del fuoco.
Adrienne Rich racconta del bisogno di identificarsi con donne diverse dalla propria madre nel percorso di Bildung di ogni giovane donna, molto spesso delle professoresse, molto spesso donne forti, indipendenti, intellettualmente vivaci.
"Molte donne si sono trovate divise tra due madri: una, di solito la madre biologica, che rappresenta la cultura della famiglia, della vita incentrata sul maschio, delle aspirazioni convenzionali, e un'altra, magari un'artista o un'insegnante, che diviene il polo opposto. Spesso questa 'contro-madre' è un'insegnante di ginnastica che simboleggia forza e orgoglio del proprio corpo, un modo più libero di esistere; o una professoressa nubile, fervida di idee, che rappresenta la vita intellettuale attiva, autonoma. Questa divisione può permettere alla giovane donna di vedersi nei panni dell'una e dell'altra 'madre' per provare questi due ruoli diversi. Ma ciò può anche portare a una vita in cui la donna non risolve mai l'alternativa [...]. Ha cercato di uscire dagli schemi esistenti ma non si è spinta abbastanza in là, di solito perché nessuno le ha detto fino a che punto poteva arrivare." [A. Rich, Nato di donna, Garzanti 2000, p.352]
Penso che Catherine fosse un po' questo, un punto di riferimento; allora non lo sapevo, ma forse lei sì. Quel sogno, che io avevo dimenticato ma che lei ancora ricordava, gliel'aveva detto.
Volevo prendere da lei tutto quello che potevo, volevo imparare. Posso dire, dopo, di aver trovato maestri paragonabili? Credo proprio di no. Un maestro, perché sia tale, non basta che sia competente nella sua disciplina. Serve che sia di per sé una persona curiosa e profonda. Per Catherine, più che i contenuti in sé, quel che contava era il modo, era il nostro come nel mondo, tutto da apprendere. Sono contenta, oggi, di non aver dimenticato la lezione, che anzi riscopro sempre più in una nuova luce. Con molte delle sue intuizioni ho stabilito un dialogo denso, che dura ancora. Ma quello che conta è il come: pensare con la propria testa, non dare mai nulla per scontato, osservare, osare.
Volevo prendere da lei tutto quello che potevo, volevo imparare. Posso dire, dopo, di aver trovato maestri paragonabili? Credo proprio di no. Un maestro, perché sia tale, non basta che sia competente nella sua disciplina. Serve che sia di per sé una persona curiosa e profonda. Per Catherine, più che i contenuti in sé, quel che contava era il modo, era il nostro come nel mondo, tutto da apprendere. Sono contenta, oggi, di non aver dimenticato la lezione, che anzi riscopro sempre più in una nuova luce. Con molte delle sue intuizioni ho stabilito un dialogo denso, che dura ancora. Ma quello che conta è il come: pensare con la propria testa, non dare mai nulla per scontato, osservare, osare.
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