Purtroppo ho difficoltà a commentare direttamente sul blog Intersezioni nel quale Mina ha risposto al mio precedente post sul queer. Quindi, beccateve il
pippone qui. Purtroppo sono una persona prolissa e noiosa, ergo il post è
ahimè prolisso e noioso. Del resto chi mi legge di solito è preparato
psicologicamente; ammesso e non concesso che qualcuno mi legga "di
solito". Grazie!
Cara Mina, ho letto con molto interesse la tua risposta. Ma devo
contraddirti: non hai controbattuto a tutti i punti, come dici nell’incipit.
Perché? Perché hai saltato i vari passaggi in cui riconosco al queer molti
aspetti positivi!
Per il resto, voglio sottolineare che i miei dubbi sono scaturiti
essenzialmente da due fattori, rispetto ai quali mi limito a porre dei
problemi, dato che io stessa non ho risposte: 1) l’impressione di grande
astrattezza rispetto a sessualità/relazioni/libertà/soggettività 2)
l’impressione che si facesse tutto troppo facile.
Ora, su quanto hai detto, alcuni punti random:
- Come
ho già scritto, il nesso precarietà economica/relazionale c’è ed è
indubitabile; quello che contestavo era la presunta “normatività” di
questo legame nel definire il queer, che non ho posto io ma ho sentito porre da
altri (non è una mia “interpretazione personale”)…e infatti mi sembrava assurda
oltre che contraddittoria. Quindi in questo non diciamo nulla di diverso e condivido la presa di distanza.
- Apprezzo
molto l’idea di partire dall’elaborazione di avere “più possibilità” e
magari dall’angoscia a essa connessa. (Kierkegaard ha molto riflettuto
sull’angoscia dovuta all’"infinità dei possibili”, legata alla libertà.
Sorvoliamo sulla sua soluzione. Certo è che da quest’angoscia probabilmente non ci libereremo mai: queer o
non queer). Tuttavia, vorrei capovolgere l’obiezione di Viviana, cioè “perché
la libertà fa tanto paura”: non è che faccia paura (potrebbe*, ma non mi
interessava questo), è che essere situati/e, avere, riconoscere e magari
rivendicare una (o più) identità dopo che la si è magari problematizzata non è, nel mio
piccolo punto di vista, per forza qualcosa che limiti la libertà, ma semmai
potrebbe “potenziarla”. I “soggetti queer” approssimativamente posti nel
manifesto li ho immaginati così: monadi astratte, atomi che si incontrano e si
allontanano; molecole fragili fatte di atomi compiuti in se stessi, interi a se stessi. Il che
mi è confermato da questo IO che tu scrivi con le maiuscole e che sembra
compiuto in se stesso, senza fratture. (Vedo che l’IO – che, si dice, non si cerca negli altri - è esente da decostruzione. E’ compiuto in se stesso e non si cerca negli altri. Io mi cerco negli altri, non mi sento mai compiuta in me stessa e degli altri ho bisogno). In generale, non sono una persona
astratta come non lo è nessuno/a, e non voglio esserlo. Né penso che
sia scontato oltre che desiderabile liberarsi delle “situazioni”
(l’essere situati/e). Per me essere X è eventualmente un’opportunità, non per
forza un ostacolo alla libertà. E non è la paura, ma la concretezza a portarmi
a pensare alla libertà in questi termini. Ho letto nel manifesto una libertà
troppo astratta. Ma non voglio dire a te – come tu non vuoi dire a me – una
definizione esaustiva di cosa sia la libertà. Insomma, volevo solo porre
la problematicità di tutto questo.
- Non
penso che i limiti consistano solo in quello che dici: il corpo, la nascita;
così come non penso che tutti gli altri limiti siano sempre frutto di una
deliberata scelta individuale (di nuovo, il presupposto è questo IO
astratto, svincolato da tutto). Penso per esempio al “limite” (parola infelice)
del dolore. Alle contraddizioni emotive. Non so se si scelgano, quelle. Come
non so se si scelga di parlare una determinata lingua dalla nascita e di
veicolare la propria visione del mondo attraverso le sue griglie; o ancora di
avere, che so, dei genitori che non ci piacciono o delle possibilità economiche
molto scarse; di avere vissuto tutto la vita con determinati modelli, con cui,
volente o nolente, bisogna confrontarsi (si spera criticamente: ma quanto è
difficile e quanto poco scontato l’esito di questo confronto? Il pdv queer
ha elaborato percorsi di “scrostamento” da questi modelli o si limita a negarli
e poi “ognuno per la sua strada”? Lasci intendere che spetta a
ciascuno/a di noi liberarsene. Ma data la dimensione politica di questo atto,
non sarebbe interessante e opportuno tracciare dei percorsi condivisi, in cui
potersi riconoscere – in modo aperto – insieme? O è sempre tutto delegato a
questo IO, che deve affrontare tante cose e gli si dà tantissima responsabilità
senza, forse, averne gli strumenti, che anzi deve essi stessi costruire da
solo? Non significa negare la bontà di un percorso, significa
dargli sostanza e corpo in modo meno immateriale di quanto a questo primo
impatto mi sembri, riconoscendone anche la portata politica). Quanto si scelgono tutti questi limiti? Io per esempio
non ho scelto di essere femmina, non ho scelto di essere nata e cresciuta nel profondo Sud,
e tante altre cose, eppure la mia vita è stata profondamente “condizionata” da tutti
questi "limiti", che mi piaccia o no. Ebbene, il fatto di essere femmina e di
essere anche terrona l’ho rielaborato e adesso paradossalmente queste “due
identità” (ne ho, naturalmente, molte altre) mi dànno delle possibilità di creatività e libertà che neanche
immaginavo; sono identità aperte e dense. (E questo è un bell'assunto da cui credo prenda le mosse anche il pensiero postcoloniale). Il che non deve appunto far pensare a qualcosa di deterministico.
C’è un bel margine di libertà (non scontata, complessa) in tutto
questo. In questo senso io quelle identità le ho scelte, ma solo in questo
senso.
- Del
resto, perdonatemi, ma leggo nelle parole di Viviana un sottile paternalismo.
Invito a riflettere sulla radice patriarcale del termine “paternalismo”. E’
un paternalismo paradossale: è il paternalismo di chi non vuole paternalismi. La
libertà può fare paura, certo. Ma senza psicologizzare questo tentativo
(approssimativo, riconosco) di problematizzazione di cosa intendiamo con
“libertà”, il problema non sono sicura che sia la “paura” tout court, penso,
piuttosto, che sia la consapevolezza di avere dei confini. E’ bellissimo
e stimolante violare i confini, per questo mi piace il pdv queer. Tuttavia,
i confini esistono e non possiamo fare finta che non ci siano. Non è
che questo significhi “abbiamo i confini e dobbiamo tenerceli”, significa solo
fare i conti con essi senza fingere che non esistano.
- *sulla
paura, di nuovo: se anche fosse così, se fosse la paura a impedire determinati
percorsi: non la vedrei come una “debolezza”, un qualcosa di negativo,
ma come un fatto con cui misurarsi, sono sicura che in questo a pensarci bene
sarete d’accordo con me, proprio in virtù di quello che hai scritto.
- Il
desiderio di – detto con una brutta parola – “possedere l’altro/a”. Tu hai già
una risposta chiara, io no. Non so se sia solo un fattore culturale. Penso che
ci sia una buona dose biologica. Penso che abbia molto a che fare col
meccanismo del voler prolungare un piacere. Gli animali – tra i quali
noialtri/e – si allontanano dal dolore e cercano il piacere. Se trovano una
fonte di piacere, continuano a cercarla. Ne vogliono ancora e ancora. Il
desiderio di prolungare il piacere nello stare, per esempio, con una persona.
Questo è qualcosa di patriarcale? Non direi, o almeno non necessariamente.
Chiaro, poi il patriarcato ci ha costruito sopra una serie di istituzioni…
- Scrivi:
“Qui, invece, si ci concentra a vivere una storia giorno per giorno, in
libertà e senza vivere nell’angoscia di una sua possibile fine, così da poter
essere felici fino in fondo di averla sentita. Senza la sensazione di aver
perso nulla per sempre, perché già sappiamo che il per sempre non esiste, e
comunque tutto ciò che ho vissuto e condiviso e appreso rimarrà parte di me.”
Complimenti. Ti invidio. Se riesci a viverla così hai tutta la mia
ammirazione. Forse non ho i “requisiti” per essere queer. Io se mi innamoro
di una persona voglio la sua compagnia prolungata, se mi abbandona soffro come
un cane e non riesco a essere “felice di averla sentita”. Semmai sono
arrabbiata, e solo una volta che mi è passata riesco a vederla, freddamente, in
quel modo. Forse mi manca tutta la lucidità richiesta per essere queer.
- Sul
vuoto interiore te l’appoggio, espressione infelice. Era un modo maldestro
per sottolineare che abbiamo bisogno degli altri e che gli altri spesso
vogliamo restino con noi e che se se ne vanno, e li amiamo, molto probabilmente
soffriamo. Una dimensione rispetto alla quale il modo queer non dà alcuna
lettura, da quel poco – ripeto - che ho visto. Tu dài il tuo punto di vista (dici, non nega il dolore), ma appunto ripeto che forse sarebbe interessante rendere "condivisa" una riflessione aperta in questo senso, senza rimandarla frettolosamente al solo singolo individuo. E' una proposta, pensaci.
- Quanto
al postmoderno, ben venga la negazione di una “narrazione assoluta”,
tuttavia è necessario fare i conti con la parte construens (come scrive
Eleonora che cito in calce al post) e non solo con quella destruens. Il queer
va in questa direzione: ma senza criteri, rischia di perdersi anch’esso
nella decostruzione assoluta, quindi in un’altra narrazione assoluta, della
stessa assolutezza che voleva superare.
Mi è stato detto che l’esigenza stessa di definirsi come soggettività sia di derivazione patriarcale. La mia domanda è sempre la stessa: è tutto patriarcale? Tutto ciò che è “cultura” è un retaggio da eliminare, per partire da un immaginario punto zero? Continuo a non scorgere criteri e modalità per uscire da questa impasse.
- Sull’anaffettività:
non prenderla sul personale. Mica giudico te o chi si riconosce nel non modello
queer! Mi spiace davvero di averti urtata. Esprimevo solo le mie semplici
impressioni nel leggere il manifesto, tutto qui. Non è sul personale che mi
confronto, mai.
- Credo
di non aver colto del tutto la metafora di Celestini. Ma sempre dentro la
metafora: non è che cambiare automobile e farsela ecologica sia per forza
accettare un’istituzione oppressiva, eh! :)
- Mi
piace il tuo richiamo alla responsabilità. Ma potrei capovolgerlo:
forse, anche fingere di non avere confini (sempre nel senso di cui sopra)
potrebbe essere una forma di deresponsabilizzazione.
In ogni caso, in questi giorni mi sono confrontata con varie
persone riconducibili variamente al queer: ogni punto di vista è diverso, il
che mi conferma che, come dici, si tratta di partire da alcuni punti in comune
che poi ognuno/a elabora in base alle proprie esigenze.
Voglio a questo punto sottolineare che secondo me un’autentica “apertura
mentale” non teme i dubbi e li affronta, anche facendo i conti con le
contraddizioni, senza timori. Nel senso che il pdv queer ha dei nervi
scoperti e delle contraddizioni: vederle e riconoscerle non significa altro che
vederle e riconoscerle. Negarle è una scelta che si può argomentare, come tu
hai provato a fare (affermando, da quel che ho capito, che spetta tutto a ciascuno/a di noi).
Comunque, mi riconosco in particolare nelle parole di
una ragazza, che voglio riportarti per intero:
“ritengo che, in effetti, sia giunto il momento di una
rivisitazione degli assunti che oramai ci accompagnano da oltre due decenni e
che vedono mutata una società nelle sue stesse capacità performative rispetto
al 1990. Non solo, credo che, dopo la pars destruens, sia necessario tornare
sui punti nodali del Sé e della soggettività usando, del modello epistemologico,
la capacità di disarticolare aggettivazioni e assunti, ma analizzandone anche
gli imprescindibili limiti teorici senza timore e senza ansie ideologiche
(insomma, senza "guerre filosofiche"). Finanche il dualismo (senza il
quale non si può pensare lo stesso dualismo, per paradosso), non va letto
secondo l'aut aut di filosofica memoria, ma come ricostruzione di uno spazio
non duale e non necessariamente (obbligatoriamente) plurale. "e"
"e" può essere una forma che implica anche identità stabili (esistono
omosessualità del tutto stabili ...)senza che queste rispecchino le
antiche forme protonovecentesche, ma consce di un portato critico fonte di
ulteriori teorizzazioni e non esclusivo o elusivo. Non ho mai amato i Saint
- Just di qualsiasi estrazione e credo che tutte conveniamo quanto sia la
discussione, la "dialogia" inclusiva, lo strumento per mutare i
protocolli e per vivere le libertà […]”.
Nelle parole di Eleonora (un’altra Eleonora rispetto a quella
citata nel precedente post) ho trovato onestà intellettuale e disponibilità
a riconoscere i limiti ma anche capacità di “utilizzare” in modo proficuo tutti
gli elementi positivi del queer.
Probabilmente mi verranno in mente altri spunti, ma non voglio
annoiarti e mi rendo conto che ho il morbo della prolissità, per cui mi scuso
se mi sono prolungata troppo. In tutta sincerità (non è dunque per compiacere
che lo dico) confrontarsi è bello. Io adesso ho un sacco di domande in più
e punti di vista ulteriori da considerare. Spero che sia così anche per te; che
il mio piccolo punto di vista ti abbia spinta a vedere altri aspetti
ancora. Non ho risposte: ho solo posto dei problemi. Voglio sottolineare che
alcune risposte che mi hai dato soddisfano i miei dubbi (condivido molto, per esempio, il distinguere i due piani tra "fissarsi politicamente in un'identità", da un lato, e esplorare continuamente altre possibilità dall'altro), altre no, su tutte
continuerò a interrogarmi, e mi piace così. Accolgo volentieri il tuo invito ad informarmi di più e meglio. Grazie, ti abbraccio. E in bocca al
lupo a questo nuovo collettivo che seguo con molto interesse.
Denise
Ho letto tutto il carteggio, estremamente interessante. Vorrei dare un piccolo contributo alla discussione, o meglio, vorrei condividere delle impressioni che ho avuto nel tempo, e mi rendo conto che è molto difficile pronunciarsi su un argomento così vasto e complesso, ma ci provo. Credo che il queer, per come l'ho vissuto io, è fondamentalmente un modo di vivere per persone soprattutto (junghianamente parlando) estroverse. Non credo che come introversi sia possibile vivere serenamente il queer, né tantomeno le risposte che esso dà alle emozioni: nei discorsi queer che io ho ascoltato o gli articoli che ho letto, il dolore, le relazioni, i lutti, le separazioni, l'amore stesso, sono visti come qualcosa che è quasi di ostacolo ad una libertà, perché sono dolore, relazioni, ecc ecc in questa società, qui ed ora. Mi sembra che il queer intende rompere con troppa facilità con quello che siamo ora, che ci piaccia o no: come donne, persone cresciute con una certa idea di vita, con dei punti fondamentali. Nel momento in cui io rinnego questi punti come condizione senza la quale non posso essere soddisfatta (per es, il matrimonio), non posso però non vivere a pieno il mio essere, in qualche modo, diversa da come pensavano io sarei diventata. E' qui che il queer non sa dare una risposta: nel suo non volersi fermare a ragionare sulle ambiguità, sulle criticità del momento. L'amore e il dolore nel queer sono argomenti trattati con una superficialità disarmante, sono più o meno trattati come: "se l'amore è romantico, allora è possesso, quindi è il male." Io non riesco a capire come si faccia ad essere contro un tipo di amore, anche se si riconosce che questo può essere causa di comportamenti a volte razionalmente incomprensibili: non siamo macchine. Se io mi innamoro, possono succede cose che mi sfuggono di mano. Non riesco a capire come ci si possa mettere a tavolino a dire come si devono vivere le emozioni, è un palese controsenso. Il queer annulla l'identità conquistata con tanta fatica dalle persone barattandola con una presunta "libertà" che non tiene conto degli altri, che ci sono, che ci piaccia o no. L'identità introversa, in particolare, è estremamente complessa, e se non tiene conto di tutte le sfaccettature dell'animo umano, di tutte le richieste della psiche, rischia di perdersi in un mare di libertà che poi si traduce in un gigantesco niente. Mi sembra quindi, un pensiero, il queer, che veda un'analogia tra la ricerca della libertà come qualcosa che si faccia senza gli altri e soprattutto verso l'esterno (quindi, un esterno senza relazioni), mentre non tenga conto dell'interiorità, del momento riflessivo, del fatto che la libertà si possa realizzare anche in una coppia monogama, per esempio, anche in un insieme di relazioni (la famiglia). La domanda che mi sono posta nel tempo è: perché in Italia si è sentito il bisogno di abbracciare un pensiero del genere? Perché saremmo nell'epoca postmoderna? Può essere. Però credo che sia soprattutto perché il queer, allo stato attuale, coinvolga i militanti e le militanti, o meglio, la loro identità. Il queer sembra coincidere esattamente con quello che ci si aspetta tu sia se sei un attivista nel XXI secolo. E di nuovo, continua a non riflettere su quei momenti critici della vita di cui parlavo prima.
RispondiEliminaCiao Serena, innanzitutto grazie a te. Trovo molto interessante il tuo punto di vista. Tendenzialmente penso che sia vero quel che dici, che il queer elimina il momento di "introflessione", le ambiguità. Non so se è perché siamo in un'epoca "postmoderna" che si sia presentata quest'esigenza. Piuttosto, trovo che fosse importante arrivare a un momento critico non solo relativo agli aspetti coercitivi dell'identità di genere in generale, ma anche del modo di intendere le relazioni, in modo per così dire "globale". Forse prima non si era arrivati a un "movimento" che decostruisse le relazioni istituzionalizzate - in senso lato - in modo così generale e radicale. E infatti l'aspetto positivo del queer sta a mio avviso proprio nell'aver colto quest'esigenza. Tuttavia, mi sembra che si limiti a cogliere l'esigenza, senza riuscire ad andare oltre la decostruzione, e che affidi in blocco al singolo una serie di responsabilità di cui, per il loro contenuto politico, forse bisognerebbe ragionare insieme; senza delegare in blocco questo momento, che, come movimento, invece andrebbe elaborato - senza schematismi, anche solo come ricerca.
RispondiEliminaConcludi alludendo quasi a una specie di "moda": non saprei. A me comunque fa pensare che si neghino sempre le contraddizioni e le difficoltà: le si vive come una minaccia, anziché come degli spunti per ulteriori elaborazioni. Probabilmente tu hai avuto modo più di me di rendertene conto.
Comunque ho deciso di approfondire ulteriormente; vedremo cosa ne uscirà fuori.
Secondo me anche ragionarne "insieme" è un problema, finché non ci si pone il problema, appunto, di dove farlo: nei luoghi dei femminismi è sufficiente? A me pare di no, visto che appunto l'amore e le relazioni più in generale riguardano tutta la società. Il fatto che ci si debba quasi separare dal resto del mondo per poter parlare la dice lunga sul queer stesso, proprio nel suo porsi come altro irriducibile. In realtà io non intendevo dire che era una moda :) Quanto una specie di prodotto storico (in effetti l'ho accennato troppo velocemente): se prima c'era il grande partito ad influenzare, in un modo o nell'altro, l'identità del militante, ora che questa struttura va scomparendo per come era pensata e vissuta prima, e le lotte sociali si settorializzano, ci troviamo di fronte a degli attivisti (che infatti non si definiscono più militanti) che non hanno più una struttura in cui muoversi, una struttura che influenzi la loro identità in un certo modo. Appunto, si parla di postmoderno: come si rapporta oggi l'individuo-militante nei confronti della forma politica ai tempi in cui il "partito chiesa" non c'è più? Giustamente, come dici tu, era giunta l'ora di mettere in discussione le tradizionali forme di relazione, ma credo che il queer non sia una risposta per le persone comuni perché pretende di dare un taglio netto a quelle forme di relazione lì: per esempio, la famiglia tradizionalmente intesa. Non ho tutta questa esperienza in campo queer, certo è che ho letto molte cose e ho parlato con molte persone che emotivamente percepivo, purtroppo, fredde. Rimaneva una percezione, mancava di articolazione, per questo ti ho ringraziato nell'altro articolo.
RispondiEliminaVolevo farti notare il punto 16 sul corpo del Manifesto degli Amori Queer (tralasciando il fatto che vuole normalizzare, come nella peggiore delle tradizioni antipsichiatriche, delle vere sofferenze psichiche che sono causa di dolore estremo, come per esempio la dipendenza sessuale - quando leggo cose del genere penso che chi le ha scritte non è mai stato davvero male), quando dice: "l’amore queer si libera della tirannia della bellezza e del fascismo del culto al corpo." Il postporno, risposta pornografica del queer, è _ossessionato_ dal corpo. Mi si darà: un corpo diverso da quello delle pubblicità della società neoliberista. Certamente, ma rimane sempre un'ossessione sul corpo. Ora ci si dovrebbe chiedere se quello che dà più fastidio è, quindi, vedere un corpo normalizzato oppure non percepire niente nel guardarlo, nel vederlo, assuefarsi a questi corpi: mi posso anche assuefare all'anormalità, al freak genericamente inteso. Questo è un altro punto che mi lascia perplessa.
Anche io sto approfondendo. Ti seguo.
Sì, ora capisco meglio quello che intendi. Beh, se ci pensi, il femminismo stesso, così come altre pratiche, non si sono formate in seno a un partito-chiesa. E questo ne ha determinato una complessa ed eterogenea articolazione; si parla giustamente di "femminismi" e, per proseguire nell'esempio, di "movimenti glbt". Date queste esperienze, di cui quella femminista è quella che conosco meglio - benché siamo nella terza generazione dalla sua nascita ecc. -, mi verrebbe spontaneo rispondere alla tua domanda sul "dove" ipotizzando una specie di luogo ideale/reale, diciamo meglio un luogo pratico-discorsivo necessariamente plurale, che si sviluppa tra teoria e pratica. La teoria, dove un riferimento fra gli altri è Judith Butler, e i vari collettivi reali e virtuali. Di necessità, dunque, non può che configurarsi come qualcosa di aperto all'eterogeneità, com'è proprio di ogni "movimento" teorico-pratico. La stessa Mina sottolineava che si parte da alcuni assunti comuni per poi elaborare individualmente. Il che è appunto a mio avviso un non prendere di petto le contraddizioni e le difficoltà dell'approccio queer. Comunque, concordo con te sulla dimensione che si dà per presupposta: ovvero la "normalità" affettiva e psicologica (o quanto meno un certo tipo di universo affettivo-psicologico implicitamente posto come "normale", cioè normativo), e la normatività della personalità estroversa in luogo di quella introversa. Penso proprio che tu abbia ragione; in modo confuso è quello che in fondo intendevo anche dire nel mio precedente non esaustivo post.
RispondiEliminaNon ho ancora pensato bene al postporno, quindi al momento sospendo il giudizio :) Come vedi su questo blog (e nella vita) non riesco a focalizzarmi su un solo tema e passo facilmente di palo in frasca, comunque con un'amica stiamo avvicinandoci all'universo "Butler" e di sicuro scriverò le mie impressioni appena la approfondirò meglio. (Di certo, con le varie persone con cui mi sono confrontata, ho sempre avuto l'impressione che, dato lo sfondo "decostruttivista" comune sui generi e le relazioni, poi l'approccio fosse molto individualizzato).
Al proposito, ti segnalo, se non la conosci già, un'intervista molto interessante fatta a Butler alcuni anni fa, che ho trovato pertinente in parte anche con le nostre domande: http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2010/02/19/il-corpo-che-vuoi-intervista-a-judith-butler/
Questa intervista tra l'altro rende l'idea di quel che dici in relazione all'insufficienza dei luoghi del femminismo. Anche perché queer nasce anche dalla percezione irritata del suo "eterosessismo". E poi ho la netta sensazione che "formazione femminista" e "formazione queer", per usare due espressioni un po' infelici, non possano conciliarsi facilmente o quanto meno solo fino a un certo punto. C'è uno scarto appunto, che lascia pensare ad altri ambienti e altri contesti.
RispondiEliminaQuanto ancora alla perdita di punti di riferimento normativi, viene meno il partito-chiesa ma poi dei meccanismi di riconoscimento di autorità vanno sempre a crearsi, e il "liquido", tendo a pensare, è necessariamente portato a un limite, a un contenitore. L'esperienza femminista può di nuovo essere illuminante poiché nel tempo al suo interno sono andate configurandosi delle possibilità di riferimento ad "autorità"; certo, diverse dall'autorità del partito, ma che hanno tendenzialmente soddisfatto l'esigenza di un orientamento. Penso che potrebbe accadere qualcosa di simile anche per il queer; se non è già accaduto; ma ne so troppo poco per poter dire qualcosa di fondato sulla questione. In ogni caso, forse è proprio questa la "sfida", e di fronte a questo mi pongo in modo ambivalente.