Le donne sono sempre state oggetto di grande
idealizzazione. Sin dall’antichità, esse erano venerate, adorate, innalzate al
livello metafisico della Generazione e del perpetuarsi della Natura. Il ventre
femminile è luogo tipico dell’immaginario collettivo, sede accogliente di nuova
vita, nodo di riproduzione della società, esemplificato da larghi fianchi
materni e folti capelli cascanti su seni pieni di nettare di vita. Quanti
canti, quante metafore, quante opere d’arte l’uomo ha dedicato alla Donna,
quasi sempre fatta coincidere con la Madre. Una madre con la maiuscola, una
regina in terra che con presenza solenne dà al mondo la chiave per continuarsi.
Non a caso la Terra è associata, nei tempi più antichi, alla sua figura: entrambe
sono l’inizio e la continuazione, entrambe sono natura che porta frutti per la
collettività, cui esprimere gratitudine e indirizzare culti. Entrambe hanno
qualcosa di divino.
Una regina, appunto: la figura che storicamente
detiene il potere pubblico. Ma la regina-madre cui accenniamo rimanda a una
figura regale diversa: è il potere privato, il potere biologico, naturale della
filiazione –così viene da sempre esclusivamente concepito - che essa detiene.
Culturalmente, la donna è il privato, l'uomo il pubblico. Come ogni grande dicotomia, quella privato/pubblico si sviluppa su due poli, di cui, ci dice Bobbio [Cfr. N. Bobbio, Stato, governo, società, Einaudi 1985], uno è forte e l’altro debole: in questo caso il termine forte è senz’altro“pubblico”, nel senso che il polo opposto, “privato”, si definisce negativamente in rapporto al primo. La definizione di privato, cioè, generalmente è “non-pubblico”, o, allargando il campo semantico,“non-politico”.Inoltre, i due sono nettamente distinti e reciprocamente escludentesi– dove vi è il privato non vi è il pubblico, e viceversa – questa è la rappresentazione corrente. Andiamo, ancora, a sondare le parole stesse. Privato deriva da privum, che significa “che sta davanti, isolato” (per l’affinità con prae,–pre,“prima”); privum è ciò “che manca di qualcosa”, sicché il privato è “ciò che è proprio della persona in sé o della persona singola; non pubblico”.Pubblico, di contro, è ciò “che concerne, riguarda la collettività” [Cfr. M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli 2004].
Culturalmente, la donna è il privato, l'uomo il pubblico. Come ogni grande dicotomia, quella privato/pubblico si sviluppa su due poli, di cui, ci dice Bobbio [Cfr. N. Bobbio, Stato, governo, società, Einaudi 1985], uno è forte e l’altro debole: in questo caso il termine forte è senz’altro“pubblico”, nel senso che il polo opposto, “privato”, si definisce negativamente in rapporto al primo. La definizione di privato, cioè, generalmente è “non-pubblico”, o, allargando il campo semantico,“non-politico”.Inoltre, i due sono nettamente distinti e reciprocamente escludentesi– dove vi è il privato non vi è il pubblico, e viceversa – questa è la rappresentazione corrente. Andiamo, ancora, a sondare le parole stesse. Privato deriva da privum, che significa “che sta davanti, isolato” (per l’affinità con prae,–pre,“prima”); privum è ciò “che manca di qualcosa”, sicché il privato è “ciò che è proprio della persona in sé o della persona singola; non pubblico”.Pubblico, di contro, è ciò “che concerne, riguarda la collettività” [Cfr. M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli 2004].
La donna ha sempre vissuto quasi esclusivamente nel
privato, a parziale eccezione, nella prima metà del ‘900, di quando metteva un
piede nel pubblico entrando nel ciclo economico riconosciuto, a occupare i
posti degli arruolati in guerra, pur restando, data la provvisorietà del ruolo,
privata; oppure quando faceva la staffetta tra le brigate partigiane,
ospitava pericolosi dissidenti rossi da sottrarre ai tedeschi, rischiava la
vita pur senza il fucile in spalla - semplicemente facendo la donna. E’
così: la storia, neanche tanto lontana, riserva limitate irruzioni
del privato nel pubblico, per lo più, va detto, in occasioni determinate da
dinamiche politiche maschili: la guerra, per esempio. Con forza, coraggio e
tenace solidarietà, le donne non combattevano (per lo più) con i fucili, ma in
altre forme. Il potere delle donne era grande, ma mai riconosciuto e sempre
dietro le quinte. C’è un adagio, decisamente odioso, ma che la dice lunga - dietro ogni grande uomo c’è una grande donna:
davanti, il visibile, il pubblico, è maschile; dietro, le quinte, il privato,
sono femminili – sede, quindi, di una rimozione collettiva, poiché la memoria
storica ricorda solo il pubblico, il quale è sempre stato maschile. Si chiamava Resistenza quella nelle montagne,
coi fucili, a far le imboscate ai tedeschi – ma quasi nessun riconoscimento per
le donne che hanno fatto la Resistenza “in altre forme” [Cfr. P. Casamassima, Bandite!
Brigantesse e partigiane. Il ruolo delle donne col fucile in spalla, Nuovi
Equilibri 2012].
Virginia Woolf si è domandata come
mai, fra tanti illustri scienziati, filosofi, scrittori, intellettuali,
scarseggiassero tanto le donne. La risposta? Esse, semplicemente, non avevano una
stanza tutta per sé. Eppure erano private, e privato è ciò “che è
isolato”: neanche nella dimensione esclusa dal mondo e dal mondano che vivevano,
esse potevano appartarsi per pensare, per costruire storie, idee, teorie.
L’unica creatività ammessa alle donne era quella della filiazione; il monopolio
della creatività ideale e teorica era detenuto dall’uomo – il che, come
Francesca Rigotti ha evidenziato, ha dato luogo anche a una sorta di esproprio
metaforico della sfera semantica del materno: “«abortire» un’idea, «nutrirla» e
«alimentarla», oltre che «concepirla» e «partorirla»; la «nascita» di un
progetto «in embrione»; il «concetto» come prodotto di una mente «fertile» (in
caso negativo «sterile»), da «partorirsi» con gran «travaglio» (…)per poi
«venire alla luce» attestando la «paternità» dell’idea stessa (mai però la
«maternità»)” [ F. Rigotti, Partorire con il corpo e con la mente,
Bollati Boringhieri 2011, p. 81]. C’era sempre il pianto di un bambino,
un padre da servire, un fratello cui badare, dei costumi da compiacere, a
impedire alla porta della stanza femminile quella chiusura a quattro mandate
che è il presupposto pratico minimo per ogni“produzione culturale”.
Le donne, sappiamo, per troppi secoli
sono state definite, ora con ricercate definizioni arzigogolate ora con
presunte teorie, sostanzialmente delle idiote – a partire da Aristotele,
passando per Nietzsche e Shopenhauer, e esempi più attuali ahinoi non mancano.
Essi, in fondo, rendevano normativa una situazione di fatto: idiota
deriva da idiotes, che significa appunto “privato”. Come il principe
Myskin di Dostoevskij, esse erano un linguaggio diverso da quello corrente, in
quanto non-pubbliche: privato è, in questo quadro, il mancante, il
senza per eccellenza – è ciò a cui è stato tolto il pubblico. Come avviene
per il principe Myskin, secondo l’analogia ideale che tracciamo, le donne in
tal modo venivano difensivamente delegittimate: nel definire inferiore l’altro,
si traccia una distanza irrevocabile, si sottrae il terreno stesso della
comunicazione e le condizioni preliminari dello scambio relazionale - in un
grande esercizio di delegittimazione, che si traduce immediatamente
nell’espulsione dal novero degli ammessi al confronto. Così, con la
forza sociale di questo esercizio, il potere dell’altro è annullato in
partenza.
Allora, per un paradosso solo apparente, in tale contesto era perfettamente possibile un’idealizzazione femminile, nell’immagine quasi divina della donna, nelle cui rappresentazioni essa coincideva sempre con la Madre (che poi, la coincidenza del binomio donna-madre era talmente assoluta che una donna che non fosse stata madre sarebbe stata considerata giocoforza “meno donna”. Da questo passaggio prendono forma, storicamente, molti processi di denigrazione, se non persecuzione, delle donne non madri, e le tracce di queste convinzioni sono ahinoi presenti ancora oggi in certo immaginario collettivo). Anche divinizzare è un modo per allontanare, difensivamente, l’altro, relegandolo in una dimensione ultraterrena sicché sul terreno, neanche a dirlo, perda ogni influenza.
Scrive Adrienne Rich: “I lavoratori possono organizzarsi in sindacati e scioperare, le madri sono separate le une dalle altre, relegate nelle loro case, unite ai figli da vincoli affettivi; i nostri scioperi a gatto selvaggio per lo più hanno preso forma di esaurimenti fisici o mentali (…). La privatizzazione della casa ha significato non solo maggiore impotenza ma anche una solitudine disperata” [A. Rich, Nato di donna, Garzanti 2000, p. 100]. Brutalizzate e idealizzate, i due antipodi nella storia sono sempre andati a braccetto.
Allora, per un paradosso solo apparente, in tale contesto era perfettamente possibile un’idealizzazione femminile, nell’immagine quasi divina della donna, nelle cui rappresentazioni essa coincideva sempre con la Madre (che poi, la coincidenza del binomio donna-madre era talmente assoluta che una donna che non fosse stata madre sarebbe stata considerata giocoforza “meno donna”. Da questo passaggio prendono forma, storicamente, molti processi di denigrazione, se non persecuzione, delle donne non madri, e le tracce di queste convinzioni sono ahinoi presenti ancora oggi in certo immaginario collettivo). Anche divinizzare è un modo per allontanare, difensivamente, l’altro, relegandolo in una dimensione ultraterrena sicché sul terreno, neanche a dirlo, perda ogni influenza.
Scrive Adrienne Rich: “I lavoratori possono organizzarsi in sindacati e scioperare, le madri sono separate le une dalle altre, relegate nelle loro case, unite ai figli da vincoli affettivi; i nostri scioperi a gatto selvaggio per lo più hanno preso forma di esaurimenti fisici o mentali (…). La privatizzazione della casa ha significato non solo maggiore impotenza ma anche una solitudine disperata” [A. Rich, Nato di donna, Garzanti 2000, p. 100]. Brutalizzate e idealizzate, i due antipodi nella storia sono sempre andati a braccetto.
Quale grande sottoimpiego dello
straordinario potenziale femminile è stato possibile in virtù di tutto ciò?
Quale grande storia sotterranea non scritta vivevano le donne, parallela a
quella maschile ma insignificante agli occhi di quella che a tutt’oggi studiamo
e la cui rimozione è ancora istituzionalizzata?
Storicamente, si è teorizzata,
legittimata, praticata un’autentica espropriazione dell’intelligenza e della
libertà femminile – gli stereotipi e i costumi oppressivi ne sono il
corollario, i motivi reconditi rinviando a un’esigenza di addomesticamento del
potere delle donne nella riproduzione. Tutto ciò ha dato luogo a una
limitazione preventiva delle possibilità di vivere autenticamente il rapporto
con se stesse/i, con l’altro sesso o con i figli – affondando in queste
ragnatele culturali, oltre a dispiegarsi gerarchicamente, l’umanità sottraeva a
se stessa una grande occasione di libertà.
Ma parlare al passato non è del tutto legittimo. La dimensione prevalente delle donne è ancora oggi, di fatto, quella privata della cura domestica: il 75% della cura familiare - cioè oltre 6 ore al giorno - è ancora prerogativa femminile, di contro all’ora scarsa dell’uomo [Dati ISTAT, Relazione di Laura Sabbadini, 2011]; per le donne del Sud oggi si parla di segregazione occupazionale [Cfr. Svimez, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, 2012]. Le donne, nei loro nuovi ginecei, si fanno carico, come genere in blocco, di una responsabilità che viene definita privata, ma che in realtà è collettiva: la cura [accenno a questo concetto anche qui]. Specie se pensiamo che in Italia non sono stati raggiunti neanche i livelli minimi di copertura degli asili nido e delle scuole dell’infanzia: si tratta di un’autentica istituzionalizzazione della “privatizzazione” delle madri. E’ ancora la maternità, sembra, uno dei fattori pratico-culturali che determinano la ghettizzazione delle donne nel privato. La situazione culturale – l’idea dura a morire che, dopotutto, certe mansioni pratiche di cura siano intrinsecamente femminili – viene di fatto legittimata da un’omissione istituzionale. Senza contare i danni per la formazione primaria dei bambini.
Ma parlare al passato non è del tutto legittimo. La dimensione prevalente delle donne è ancora oggi, di fatto, quella privata della cura domestica: il 75% della cura familiare - cioè oltre 6 ore al giorno - è ancora prerogativa femminile, di contro all’ora scarsa dell’uomo [Dati ISTAT, Relazione di Laura Sabbadini, 2011]; per le donne del Sud oggi si parla di segregazione occupazionale [Cfr. Svimez, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, 2012]. Le donne, nei loro nuovi ginecei, si fanno carico, come genere in blocco, di una responsabilità che viene definita privata, ma che in realtà è collettiva: la cura [accenno a questo concetto anche qui]. Specie se pensiamo che in Italia non sono stati raggiunti neanche i livelli minimi di copertura degli asili nido e delle scuole dell’infanzia: si tratta di un’autentica istituzionalizzazione della “privatizzazione” delle madri. E’ ancora la maternità, sembra, uno dei fattori pratico-culturali che determinano la ghettizzazione delle donne nel privato. La situazione culturale – l’idea dura a morire che, dopotutto, certe mansioni pratiche di cura siano intrinsecamente femminili – viene di fatto legittimata da un’omissione istituzionale. Senza contare i danni per la formazione primaria dei bambini.
Allora, la “grande dicotomia” della
filosofia occidentale non solo, da un lato, è discutibile in quanto il
privato ha un cruciale significato politico da sempre misconosciuto; ma anche,
dall’altro, perché non è possibile rappresentare l’esperienza viva delle donne,
così come si è configurata storicamente, per compartimenti stagni: la loro vita
e il suo significato sociale è una vivida smentita di quella e altre dicotomie, che
derivano da formule di pensiero create dall’uomo per un mondo concepito a
misura di se stesso: “la filosofia ha un cuore duro androcentrico, se non
dichiaratamente sessista” [F. Rigotti, op. cit., p.126].
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