Scritto per terrearse.it
Alice
Rohrwacher ha detto che con il
suo film, Corpo Celeste, rivelazione del 2011 già premiata a Cannes, non
intendeva veicolare un messaggio puramente anticlericale, ma raccontare che ne
è oggi della vita di comunità. Reggio Calabria, periferia per eccellenza, è
l’ambientazione prescelta per raccontare lo sclerotizzarsi della vita comunitaria in formule rituali stereotipate e
relazioni sociali divenute quasi autistiche.
Con
grande sensibilità narrativa, questa piccola comunità prende forma nello
sguardo di Marta, 13enne che dalla Svizzera torna a Reggio Calabria con la
famiglia. Nel suo sguardo si tocca con mano la contrizione, l’ostilità, la durezza di un percorso di crescita
già difficile, quello della transizione dall’infanzia all’adolescenza - di una
bambina che aspetta il seno e le mestruazioni, per una ufficiale sanzione d’ingresso nel mondo degli adulti. La vedi così, spaesata, con gli occhi pieni di
domande, camminare fra gli scheletri edilizi di Reggio, le
fiumare sporche e i ragazzi col berretto nero che caricano sulla lapa i rifiuti della Sorgente. Il brutto è lo sfondo di questo romanzo
sospeso in una specie di mondo a parte, in questo relitto della globalizzazione,
epilogo estetico di un contesto maledetto, strano, violentemente reale,
incastrato fra tradizione involuta e una modernità kitsch.
Non moderna, non antica, Reggio è un non luogo quasi onirico, un
brutto sogno, un che di mitico e primordiale mescolato agli
echi deformi delle mode. Una terra irredenta, che non si stanca di pregare, che si perde nel
pregare, e che prega insieme agli altri nell’atto stesso di dimenticarli. Terra
dell’attesa che si dilata all’infinito, di un quotidiano che si ripete sempre
uguale, quasi che dalla ripetizione in quanto tale scaturisse un significato,
un valore. Uno spettro fuori dal tempo e da ogni spazio mentale, che in testa
diventa una domanda, una grande, gigantesca domanda che ricade sempre insoddisfatta su se stessa.
Il film sembra puramente descrittivo, eppure riesce, quasi
di soppiatto, a riempire questo sguardo vivo e interrogante di poesia - una
poesia dagli accenti crudi e realistici che accennano al tragico; mai, nel
raccontare, patetico o didascalico.
La coesione sociale è affidata a una
ritualità senza senso, quasi grottesca, come mostra l’inizio del
film, con la vara parcheggiata sulla fiumara, e il prete alle prese con un
microfono rotto, che parla a una piccola folla di cui non gli importa nulla. Il vescovo, la vara, il parroco, la
Cresima al più presto, “che così si
toglie il pensiero“, l’entusiasmo decontestualizzato della
catechista, sono i punti di riferimento di una comunità perduta, che sopravvive a se stessa aggrappandosi con le unghie
al pallido riflesso del legame religioso-sociale.
Questi
occhi pieni di domande ci portano nel retro della chiesa di quartiere, animata
da donne devote e ragazzini svogliati, rispetto ai quali la tv è unica fonte di
aspettative. Ascoltano meccanicamente, con le teste piegate, in aule sporche di
umidità, col sole che filtra stanco dalle finestre, fra pareti imbrattate da
cartelloni che inneggiano a dio e Gesù rinviando a contenuti che sempre ci si attende di comprendere,
ma che nessuno ha capito, e che pure bisogna affrettarsi a ripetere per
superare la prova.
In
un’aria da primo pomeriggio asfittico, fatta di flemma e di sonno, prende forma
il laboratorio del credere cieco e nozionistico che è diventata la religione,
con ragazzi e ragazze pettinati male guidati da Santa, la catechista devota – quasi folle
nel condurre la sua missione di trasmissione del Vangelo in forme impacchettate e stantìe, tutta
dedita alla pedagogia di un’umanità raggrinzita e tradita in quelle.
“Gli addolorati e gli agonizzanti”, per i quali si prega, sono i grandi
assenti, come le relazioni, l’amore e il senso: essi sono come calcificati nella preghiera da mandare
puntigliosamente a memoria. Marta chiede il significato di
un’espressione nella preghiera, ma non è il momento, le viene risposto. Le domande sono buone solo per i quiz, nei quali si
risolve, infine, il catechismo. Il pallido riflesso della fede
diventa collante comunitario malriuscito, a tratti ottuso e demenziale, ed è lì
che l’io nuovo e tutto da costruire di Marta deve formarsi.
Il
simulacro di coesione ma anche l’autorità, e l’evidente inconsistenza di
questa, si aprono allo sguardo interrogatore di Marta: non un’eroina, non
superdotata, ma normale
neoadolescente che affonda nella sua crisi evolutiva con tutte le scarpe,
osservando senza pace lo scenario pieno di contraddizioni e privo di risposte
che le schiude Reggio. Non ci sono piagnistei, solo un curioso osservare, che
quasi non parla ma dice molto: ha negli occhi, sempre, la tensione di un esigente e smarrito interrogare. L’autorità
è affidata al riuscitissimo personaggio di Santa, interpretato da Pasqualina
Scuncia, attrice formatasi nell’humus locale (è stata tabaccaia per 20 anni in
quel di Mosorrofa), grande rivelazione sul set.
Pasqualina
rappresenta in modo credibile la donna
febbrilmente indaffarata per la comunità, alle prese coi ragazzi, con le
faccende della chiesa e la reverenza al parroco - ci ricorda
quelle donne che fanno del darsi senza condizioni la cifra del proprio essere,
così di fatto smarrendolo - un darsi
tutta a tratti irrazionale, circolare, ansioso e contraddittorio, sin dall’inizio
destinato al disincanto. Santa sembra una madre aperta e
generosa, ma è una educatrice lontana, è madre delle formule, che sconfessa la
promessa di accoglienza che le sue braccia aperte avevano inizialmente
dischiuso.
Tutto è destinato a raggrinzirsi e a tradire le promesse, e il
mondo dei grandi appare di volta in volta sinistro, debole e ipocrita. Legata ormai meccanicamente ai ragazzi
del catechismo, infine irretita
in un attivismo per gli altri ma poi, di fatto, senza gli altri, è lei che
prepara l’orchestrina per far piacere al vescovo: mi sintonizzo con dio, è la frequenza giusta, è il ridicolo refrain dei
pomeriggi al catechismo. Il conclamato sforzo di bontà e altruismo si
risolve infine nel mero esercizio dell’autorità puramente autoreferenziale;
in sterile ciarla meccanica, dove la verità e il senso sono vittime
sacrificali; infine in infaticabile sforzo di salvare le apparenze.
E’
da questo mondo alieno, ostile, tutto da capire, che il parroco vuole scappare,
prestandosi a un certo carrierismo
fatto di strette di mano, visite alle famiglie, comizi elettorali, belle figure
col vescovo. E’ negli occhi del parroco che si legge infine,
non detto e non scritto, qui sono tutti
matti, e la devozione di Santa e le aspettative del gruppo sono
oggetto di commiserazione. Reggio non
è il posto delle ambizioni, Reggio è non luogo irredento e irredimibile. Quindi,
grande bacino elettorale. E’ così che, sembra dirci il film, la campagna
elettorale può innestarsi facilmente nei gangli della ritualità sociale fatta
di santini e aneddotica del miracolo,
ritualità potenziata e accentrata nella figura di un parroco di fatto
inconsistente, ma investita della credibilità
a prescindere
dell’uomo di Chiesa senza ulteriori specificazioni: unica
entità capace di dare una risposta unificante a un posto che ne ha vitale
bisogno, pur senza mai soddisfarla.
Il
crocefisso da portare per il grande evento della Cresima – che è la bella
figura col vescovo -, si trova in una chiesa abbandonata di Roghudi. Gesù è impolverato, appeso a se stesso in un paese
fantasma. Ancora una domanda lo farà cadere, e Gesù tornerà
solo, sostenuto dai frangiflutti dimenticati di Bova. Gesù era matto, era arrabbiato: è
un altro parroco, guida di nessuna anima,
capo spirituale di fantasmi, a dirlo. E Marta, stavolta, sembra
capire – forse, è l’inizio di un percorso già latente di ritrovamento di un
senso. La guida vera è dunque affidata al caso, in mezzo al deserto relazionale e, soprattutto, al deserto di
risposte. Ché Reggio
è dove non ci si chiede più dov’è dio – la risposta che aleggia
immateriale e non detta, sembra: dio non c’è, abbiamo smesso di chiedercelo e
comunque neanche ci importa più, ma
resta il rito che assolve alla funzione, già perduta, dello stare insieme,
contro la noia e la deriva della solitudine.
Curioso che lo sguardo chiarificatore, nell’affanno del percorso di
comprensione che coincide con quello della costruzione dell’identità, sia affidato a una straniera: come
se chi vi è dentro non potesse uscirne, e solo la distanza consentisse uno
sguardo potenzialmente limpido sulle cose.
E
qui torniamo alla vita di comunità. Non è un film sulla religione tout court,
ma un film sulla vita insieme e sui riferimenti culturali di questa, sul darsi
delle relazioni nella periferia della modernità, dove pratiche rituali vuote e
figure investite ciecamente di un’autorevolezza che non meritano, detengono il monopolio dello stare insieme e dei valori, di
cui non resta che la scialba caricatura. Il grande potere
coesivo della società è, nella periferia dimenticata, la Chiesa, che coi suoi
riti e i suoi ritmi scandisce il
senso di un posto che, sembra, lo ha già perso. Al contempo, il
film ci mostra il lato,
come ha dichiarato Rohrwacher, “corporeo,
umano” della religione: il suo radicarsi nella vita sociale, la
sua funzione unificante, ma anche il
suo cortociruito e il
suo esaurirsi in disperato simulacro del legame sociale.
Il
Sud che emerge da Corpo Celeste è un Sud disperato e senza redenzione, che non esaurisce il Sud ma ne racconta una parte viva
e vera, quella che fa di noi un caso antropologico ma anche,
potenzialmente, un percorso esistenziale e, si spera, politico. Questo Sud può
essere, infatti, la sede
d’osservazione paradossalmente privilegiata per prendere coscienza,
sullo sfondo di un’identità in via di costruzione, sospesa fra paesi fantasma,
crisi, dietrologie politiche e un dio
che nello zelo delle forme è proprio il grande dimenticato, insieme a tutto
quel che dovrebbe rappresentare. Mi viene in mente un’immagine
di Tolstoj, quando il protagonista di Resurrezione
– sorta di Gesù redivivo – rimbrotta la sua gente, cito a memoria: smettetela di idolatrare dei simboli e amatevi fra
di voi.
In
riferimento alla città, il film restituisce una parte di Reggio reale, una Reggio sede e metafora di profonde contraddizioni,
che non risolve, riproducendole ciecamente all’infinito: come periferia
d’Italia e della modernità, ma anche, metaforicamente, delle relazioni e del
senso.
una bellissima recensione, pregnante ed efficace, fedele specchio della situazione attuale.
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