Secondo James Hillmann - che non è uno scienziato, ma un "suggestore", come dire - l'attrazione infantile per determinati oggetti è espressione del daimon, quel demone che è una specie di traccia del destino della persona. Non stiamo a valutare la verità di questa "teoria", ma volendo leggere la mia storia personale in questi termini, direi senz'altro che il daimon libri si è presentato molto presto.
Pregavo mia madre di leggermi delle favole, non importava quali, purché ci fosse un libro una storia e la sua voce, ma soprattutto il momento in sé. C'era qualcosa di sacro nel sentire una storia. Anche se mia madre, purtroppo, la sera era troppo stanca e la maggior parte delle volte mi faceva un riassuntino di Peter Pan. Ora la capisco, ma all'epoca ci tenevo moltissimo, e per necessità mi facevo bastare quello. Ricordo ancora il momento, che aspettavo con ansia e voluttà, in cui lei avrebbe detto
"e dopo mille peripezie, Peter Pan e Wendy..."
peripezie, che piacere sentire quella parola.
Ma sapendo della mia passione per le storie, mi comprò dei libelli con le figure rialzate. Credo che la protagonista fosse una bambina che raccoglieva dei fiori. Fu un flop. Facevo la quarta elementare, e aspettavo che mia madre mi venisse a prendere dal lavoro in un'altra aula. Sfogliavo questi libelli nuovi, ma non ne traevo alcun piacere. Fu frustrante, me lo ricordo bene ancora. Che delusione! Perché volevo tanto i libri ed essi non mi davano nulla? Nessuna curiosità per quella bimba che raccoglieva i fiori. Sbadigliando, ci rinunciai, ma dentro provai la netta sensazione che quei libelli erano sbagliati, e dovevo dare un'altra opportunità al mondo libri. Ma fare tutto da sola non era facile. Ora so che la bambina che raccoglieva i fiori era un tema che non avrebbe mai potuto attrarre una come me, attratta dal mondo delle streghe e della magia, se del caso anche dei fantasmi; mi piaceva l'irruzione dell'insolito e non la banalità quotidiana di un patetico raccogliere dei fiori di una semplice bambina con la gonnellina colorata, nella quale peraltro non mi identificavo per nulla. Così, chiesi a mio padre un qualche libro sui fantasmi. Mi comprò un libro dei Battelli a vapore. Flop anche quello. Perché? Era per bimbi di 13 o 14 anni, e io ne avevo solo 7: era troppo lungo. Avevo fretta e le interminabili descrizioni del castello senza che venissero fuori i fantasmi mi stancarono presto.
Per fortuna, la maestra Paola riuscì a frapporsi fra la mia disarticolata e incompiuta attrazione per i libri e la delusione un po' frustrante di non riuscire a concretizzarla. La maestra Paola era una persona molto chiara, diretta, parlava in modo semplice e inequivocabile, e insisteva sempre su un punto leggere è meglio che guardare la tv. Leggete leggete leggete - lei insisteva particolarmente sui giornali, io provai anche quelli ma niente, non capivo nulla. Leggere un giornale presuppone la conoscenza di tutto il contesto, di un background di informazioni che a 7 anni non potevo avere. Altro flop. Poi, finalmente, per un anno intero, gli ultimi 10 minuti di lezione furono trascorsi a leggere la storia della gabbianella e del gatto che le insegnò a volare: finalmente il libro giusto! finalmente il piacere che - io lo sapevo già! ma come facevo a saperlo? - i libri dovevano darmi.
Ci portò anche in biblioteca. Io presi qualcosa tipo Nicola va in città, storia di un bambino e delle sue marachelle. Quindi presi Gian Burrasca, che aveva la mia sorella maggiore per motivi di scuola. Quella fu la mia prima lettura vera e propria. Ero immersa nella storia, e lo divorai, da sola, sera dopo sera. Da quel momento fu una strada di non ritorno. Nessuno, però, sapeva indirizzarmi. Io non sapevo verbalizzare questo desiderio profondo di leggere, abbandonandolo alla casualità di un prima o poi, e chi mi stava intorno non aveva colto questa istanza o, se l'aveva colta, non l'aveva fatto nel modo giusto, coi libri che facevano per me. Perciò lessi molto poco, almeno dagli 8 fino ai 13 o 14 anni. Nonostante ciò, sin dall'inizio - e qui sta il daimon - ho sempre provato intima familiarità coi libri; sapevo perfettamente, dentro di me, che era solo un problema momentaneo non essere riuscita a sintonizzarmi con essi in modo costante e concreto.
Poi. Tanto è accaduto. Sono cresciuta. Tra le attrazioni preadolescenziali, i turbamenti sconvolgenti di quell'età (il periodo più brutto di ogni esistenza è, a mio avviso, il passaggio dall'infanzia all'adolescenza: le emozioni ti assalgono e tu non sai come orientarle. Sei completamente in balìa di un fuori che decide per te), le prime sconvolgenti paure, aspettative, illusioni e delusioni, non potevo aprire la porta a quella stanzetta chiusa a chiave dentro di me, che erano i libri. Ma stavo solo rimandando un appuntamento fissato sin dall'inizio. Sapevo perfettamente dell'eco primordiale - come dire - che mi chiamava fatalmente a loro.
Poi ho capito che gli autori che amo di più sono anche quelli che mi fanno più soffrire. Non li dimentico facilmente. Direi, senza esagerare, che mi condizionano la vita con una certa prepotenza. A 15 anni capitò con Sartre. Il mio professore di filosofia, mi disse, squadrandomi, come formulando una diagnosi, leggi Sartre. Fu la rovina. Perché seguii il suo consiglio.
Poi ho capito che gli autori che amo di più sono anche quelli che mi fanno più soffrire. Non li dimentico facilmente. Direi, senza esagerare, che mi condizionano la vita con una certa prepotenza. A 15 anni capitò con Sartre. Il mio professore di filosofia, mi disse, squadrandomi, come formulando una diagnosi, leggi Sartre. Fu la rovina. Perché seguii il suo consiglio.
La terapia che la filosofia può offrire non ha molto a che fare con il concetto corrente di terapia, ovvero di pratica farmaceutica o discorsiva finalizzata alla guarigione da un qualche male. La filosofia, che qualcuno – dai greci a oggi – spaccia per “ricerca della felicità”, offre esattamente l’opposto. Lo svisceramento dei problemi ha poco o nulla a che fare con la felicità: piuttosto, batte la strada contraria, quella dell’angoscia. La verità, oggetto di spasmodica ricerca della filosofia, fa male, come ci insegna Caterina Caselli. Allora è scontato ricordare l’ambivalenza semantica del termine greco pharmakon, medicina e veleno a un tempo.
Prima de La Nausea leggevo una romanzistica usurata, principalmente bestseller degni degli insolenti scaffali di un supermercato, che mi lasciavano una certa insoddisfazione mista al piacere a prescindere (allora) del processo della lettura ma di cui, comunque, ero contenta.
Dopo, la mia vita è cambiata. Mi
si sono aperti, o forse definitivamente chiusi, gli occhi.
Nei pensieri di Antoine Roquentin
ho visto trasposti, con imprevista e nuda schiettezza, i miei. Mai avrei
pensato di poter trovare esattamente tutto quello che avevo dentro in forma
a-verbale, raggrumato in una manciata di frasi. Dai libri mi aspettavo storie,
qualche emozione, una distrazione. Non certo quel tipo di emozione; ancor meno
quello sprofondare a capofitto nell’abisso senza nome che sentivo avviluppato,
e a un tempo spalancato, dentro. Avevo fatto una scoperta rivoluzionaria – non
sarei più tornata indietro, quella era la mia strada: trovare libri con lo
stesso potenziale di lacerazione. Masochismo? Forse. Ma è lo stesso masochismo
dell’uomo che esce dalla caverna di Platone sfidando le ombre mostruose,
probabilmente: c’è qualcosa di necessario, un’attrazione fatale – la
consapevolezza della sua pericolosità non è di fatto un buon motivo per tornare
indietro o fermarsi. Che mi attenda la luce, però, non saprei dire. Aggirerei il problema con l’aiuto
dei Doors:
some are born to the sweet
delight
some are born to the endless night
Nel leggere La Nausea mi sentivo come
spogliata e raccontata a tradimento. Nonostante i pensieri bui e controversi
del libro, ne provai immediata gioia – poi tramutatasi in turbamento acuto e
persistente. Paradossalmente, un nuovo, mai provato entusiasmo si impossessava di me. Si
trattava di un soffio di vita che mi pervadeva con violenza, in modo totale,
senza mediazioni, senza eufemismi. Tutto
era lì, spiattellato nelle pagine. Quell’inspiegabile ostilità che emanavano
gli oggetti, il senso di alienazione nelle azioni più banali del quotidiano,
quell’angoscia preverbale, radicale, priva di predicati e rappresentazioni, che
ospitavo da sempre nelle forme di una specie di nebbia nera – senza nome, senza
genesi, senza storia – diventava, con quella lettura, qualcosa di distinto e
raccontabile. Un'entità con la quale, finalmente, stabilire un rapporto.
Nel mio inconscio ebbe allora
luogo un procedimento induttivo del tipo: i libri mi procurano piacere - come
nel meccanismo tipico della tossicodipendenza, fu istintiva l’anticipazione del
piacere, la sensazione di non poter fare più a meno di quegli strani oggetti.
Giudicai allora indispensabile procurarmi L’età
della ragione; Le parole; Il muro. Letti nel giro di un paio di giorni – e
qui sta la patologia.
Scherzo. Il mio principale
problema credo che consista nell’essere lucida, voglio dire
– sono schietta nella vita (con tutte le nefaste conseguenze sociali di tale
caratteristica) come sono schietta nella “fruizione culturale”, per usare
un’espressione asettica: nei libri cerco la verità. Non già La Verità , ma la verità, in
qualsiasi forma essa riesca a manifestarsi. Anche un racconto di 5 pagine può a
mio avviso in qualche modo restituirla.
Dopo, seguì una mole di libri
tratti in buona parte dalla letteratura francese degli ultimi secoli. Balzac, Flaubert
(altro vaso di Pandora emotivo-intellettuale), Stendhal, Gide, Proust, Malraux,
Camus, De Beauvoir. Quindi gli italiani (Pirandello un’illuminazione, e Pavese), i
tedeschi, i russi (Tolstoj e Dostoevskij, ma anche Gogol – amore a prima vista).
Ho sempre colpevolmente trascurato la letteratura anglosassone, se non per
qualche eccezione – Virginia Woolf per esempio. Le vacanze di natale erano un'ottima occasione per finire il Don Chisciotte o la Recherche. Provavo una gioia maniacale nel programmare i libri da leggere nei mesi a venire. L'estate, beh, per un paio d'anni penso di aver vissuto barricata nella mia stanza, mentre amici e parenti mi esortavano a una vita normale di cui non avvertivo il minimo bisogno. Mentre mi parlavano, io pensavo a Julien Sorel. Ecco cosa può fare un libro. Confesso, poiché sapevo che non era tanto normale, non è che andassi a dirlo in giro. Se dovevo scegliere tra andare al mare e leggere per tutto il giorno - ripeto per tutto il giorno - La casa in collina o che, inventavo qualche scusa (non potevo mica dire "no scusa, non posso perché devo finire il libro di Pavese) e mi fiondavo sulle pagine. Mi sono per anni camuffata bene. Cercavo di apparire "normale" ma ero totalmente assorbita nel mio mondo. Mi avrebbero chiamato "secchiona" se avesero saputo - che poi non è che a scuola facessi molto, al liceo ho cominciato a studiare con costanza solo l'ultimo anno praticamente.
La realtà mi sembrava troppo piatta, se non grottesca. Le persone dei microcosmi che cozzano in modo sconclusionato e accidentale. Io, vuota - non guardo la tv, non faccio sport, dice una canzone. Qualche sentimento travolgente si è poi rivelato per la solita impossibile relazione - resa impossibile dal fatto che, mi dispiace ma io sono Emma Bovary. Quello che è raggiungibile non mi interessa.
Ma quello che voglio dire è che i
libri si sono sempre confusi con la vita, per me. Non li ho mai potuti separare
dal mio quotidiano – anche quando non leggo, la biblioteca nascosta negli
angoli della mia storia sedimentata, pulsa inesauribile energia e sgorga
fumante negli infiniti rivoli del presente.
Il percorso, iniziato
ufficialmente con Sartre, non si è più fermato. Grazie a, o per causa di Sartre
la mia adolescenza è stata particolarmente tormentata. Difficile maturare una
consapevolezza politica, una scappatoia: mi ero persa la seconda parte
dell’esistenzialismo, quella dell’engagement, e semplicemente ripiegavo nella
contemplazione disgustata dell’esistenza in un mondo strutturalmente ostile.
Un’angoscia profonda – che già prima comunque provavo, forse in forma peggiore
perché non consapevole – mista alla gioia per una nuova compagnia, impossibile
nel mio contesto relazionale di ogni giorno, speciale, capace finalmente di
restituire alla solitudine un suo senso: i libri.
Oggi, probabilmente, leggere
Sartre mi annoierebbe. Sotto i ponti è passato un fiume portentoso, fatto di
altri libri, anni (pochi, dopotutto), esperienze, tra cui non sono mancate
lunghe parentesi di rifiuto dei libri, e nuove esigenze. Se oggi sono quello
che sono lo devo comunque anche a Sartre. Non che Sartre abbia instillato ex
novo alcunché in me. Piuttosto, maieuticamente, mi ha aiutato a trarre fuori, o
a dare consistenza con un nome, quello che già contenevo. Forse è questo che mi
aspetto dai libri – uno stimolo a partorirmi di nuovo, a diventare quello che
sono per mezzo di una verità, raccontata come verità anche estetica. Nei libri paradossalmente cerco la luce ma anche il buio. La luce è il topos ricorrente della conoscenza. Ma quello che a scuola non ti raccontano è che la luce della conoscenza può rabbuiare l'anima, come dire. La conoscenza è direzione tristezza, la cultura è lacerazione la natura conciliazione, direbbe qualche vecchio filosofo.
Per questo reputo della massima delicatezza l’azione del pubblicare un
libro – è un atto che non va assolutamente preso alla leggera. Un libro può traumatizzare.
Io forse non avevo gli strumenti
per elaborare La Nausea ,
ciò ha determinato lo sconquasso emotivo successivo. O forse ero proprio il
target giusto. Così come ha determinato un processo di maturazione lungo –
un’autentica “gestazione” – rispetto al quale non ho maestri da ringraziare. Ho
fatto tutto da sola. Ammesso che questo disincanto radicale, misto a picchi di entusiasmo intellettuale, sia un merito.
Sorprendentemente, nel rileggere
a ritroso il mio rapporto con la letteratura scorgo uno stesso filo rosso dai
miei 15 anni sartriani ai miei 25 adorniani. Adorno mi è servito per portarmi là dove Sartre non era riuscito - per capire, cioè, che la dimensione politica è ineludibile; che non si può mettere a fuoco l'esistenza in modo astratto, decontestualizzato, astorico. C'è un politico, un dove e come. Quindi, un territorio da conoscere e con cui fare i conti. Si tratta di inferenze mie, naturalmente. Ma su questo avrei troppo da dire.
In ogni caso, tutto si è svolto nel quadro di una consapevolezza preverbale di essere segnata dai libri, prima ancora di cominciare a leggerli. Niente di esoterico, ma devo prendere atto che era così. Dopo, è stata la bile nera, la malinconia a darmi la chiave giusta per aprire loro la porta. La lucidità viene ancora dopo. Ma nonostante i 25 anni - o forse proprio a causa di questi - oggi è ancora perfettamente possibile che un libro mi sconvolga radicalmente. Per questo, in libreria, non ci vado mai con l'animo leggero. Non comprerei mai un libro tanto per passarmi il tempo. Il tempo non si passa, diceva Rodolfo Chirico, il tempo si vive, e nei libri cerco questo: un'esorcismo della vita, che è vita stessa.
In ogni caso, tutto si è svolto nel quadro di una consapevolezza preverbale di essere segnata dai libri, prima ancora di cominciare a leggerli. Niente di esoterico, ma devo prendere atto che era così. Dopo, è stata la bile nera, la malinconia a darmi la chiave giusta per aprire loro la porta. La lucidità viene ancora dopo. Ma nonostante i 25 anni - o forse proprio a causa di questi - oggi è ancora perfettamente possibile che un libro mi sconvolga radicalmente. Per questo, in libreria, non ci vado mai con l'animo leggero. Non comprerei mai un libro tanto per passarmi il tempo. Il tempo non si passa, diceva Rodolfo Chirico, il tempo si vive, e nei libri cerco questo: un'esorcismo della vita, che è vita stessa.
ciao Denise, rispondo sul tuo blog così sono certo che superando le diavolerie di blogger riuscirai a leggere la mia risposta.
RispondiEliminaIl mio post scritto dopo lo scioglimento del comune della nostra città è ancora tra i più letti e commentati, anche da quelli che con Reggio e la Calabria hanno poco a che spartire. La mia riflessione amara e rabbiosa, è di un amante deluso, tradito e sconfitto. L'esperienza della paternità ha modificato in me il punto di vista a riguardo. Per la prima volta non ho visto e letto il mondo dalla mio modo di mare e intendere la vita, del resto chi ama è irrazionale, non può fare calcoi, ma mi sono messo nei panni dei miei figli oggi e in un domani prossimo. Non so come andrà a finire, ma se io, ed altri amici, abbiamo fatto una chiara scelta di vita che spesso ha significato rinunciare a i propri sogni, io a diciannove anni vivevo a Londra e volevo fare il giornalista, non mi straccerò le vesti se chi ho generato decidessi di andare via. Suona come una sconfitta, almeno dal lato pedagogico, ma personalmente credo che per continuare a lottare in questo territorio, servano relazioni significative, al di là del virtuale come sostieni tu....per questo continuo ad ascoltare, sedimentare e scrivere storie della nostra Terra.
Oggi sarò a Serra San Bruno da I Briganti, un gruppo che attraverso musica, letteratura e impegno politico si batte in quel territorio.
Ecco un altro punto, dobbiamo fare rete, senza paura dei piccoli numeri.....è facile fare click sul computer, più difficile è stare sulla strada.
Un abbraccio.
ps volevo dirti che la citazione di Costabile è dotta! Io sono fra quei prof. che continuo ad insegnarlo, anche se nei programmi ministeriali non c'è...ma io me ne fotto!!