Pubblicato su liberareggio.org.
(Da buoni anacronisti, ne parliamo ora che i media se ne sono già dimenticati)
La Calabria, si sa, è una regione malata, con un’economia incastrata fra barbari meccanismi di potere, incapacità gestionali e un’endemica povertà. Il lavoro nero è l’indiretta espressione di questa malattia, e spesso sono gli immigrati a pagarne lo scotto più alto. A ciò si aggiungono l’indifferentismo e le corrispondenti politiche fasulle d’integrazione – come gli uffici di “orientamento al lavoro” o i vari villaggi della solidarietà – che, rientrando nella logica fatalista propria del sistema in cui viviamo, che stronca sul nascere, perché non ci crede, ogni possibilità di cambiamento, ne costituiscono l’avvilente contorno.
A Rosarno, e non solo a Rosarno, tutti sapevano. Centinaia di immigrati ogni mattina aspettavano sotto gli occhi di tutti di essere “graziati” con un trattamento che ha molto in comune – e imbarazzanti punti di sovrapposizione – con lo schiavismo. Un trattamento che per un emigrato africano è “sempre meglio della morte”.
Ma molti calabresi come me sono stanchi di vedere nella povertà la giustificazione eterna della violenza, quasi che questa fosse una fatalità cui una Regione italiana, non esattamente sul lastrico come certi paesi africani, non può ovviare: la retorica della povertà è la prima alleata del laissez-faire nascosto dietro ogni situazione di degrado.
Violenza è infatti quel condensato di indifferenza e sopraffazione che hanno subito gli immigrati africani rosarnesi per un periodo inaccettabilmente lungo, caratterizzato da un lassismo istituzionale proporzionalmente grave, nelle forme di uno sfruttamento feroce, di vessazioni razziste insistenti e quotidiane, di prepotenze ‘ndranghetiste, nonché del dramma dell’emigrazione, presentato dai media e da certi politici influenti come un’invasione “dei ladroni “e degli stupratori.
Purtroppo, a causa dei processi di semplificazione mediatica, la violenza sembra violenza solo quando è accompagnata da urla, spranghe e sassi: le altre modalità di violenza, perpetrate lontano dai riflettori, non sono contemplate dalla televisione. In una realtà in cui visioni del mondo e media vivono in un inestricabile sodalizio, i problemi e i conflitti “sommersi” hanno la stessa consistenza dell’irreale: il disagio diventa strategia d’intrattenimento.
Ne è un effetto il fatto che si sia spostata l’attenzione dai gravi problemi strutturali che affliggono Rosarno alla piega violenta che ha preso la reazione degli sfruttati: tra la loro ira reattiva e la violenza costante che invece l’ha provocata, è facile accusare la prima se solo quella è mediatizzata. Allora, anche in casi come questo è fondamentale avere gli strumenti per criticare le facili schematizzazioni mediatiche e per pensare: io non ci credo.
Non credo, anzitutto, che la genesi del problema o il suo aspetto principale consista, come un eminente ministro della Repubblica ha affermato in barba a ogni serietà istituzionale, nell’ “eccesso di tolleranza” degli italiani per questi-neri.
In cosa, infatti, consisterebbe il “nostro” eccesso di tolleranza? Nei pochi euro al giorno che i proprietari dei terreni danno loro in nero, per 14 ore di lavoro? Nei tuguri in cui alloggiano sotto gli occhi di tutti? Negli atteggiamenti di sopraffazione degli ndranghetisti e di certi cittadini che, in un misto raccapricciante di razzismo e arroganza mafiosa, non li hanno risparmiati di botte e denigrazioni? E che dire di quelli che nella rivolta hanno imbracciato le armi, i cui cognomi stranamente coincidono con quelli delle famiglie mafiose più importanti di Rosarno, che hanno approfittato della situazione per dare un’immagine della ‘ndrangheta di salvifica protettrice della cittadinanza?
Peccato che stavolta, per giustificare gli italiani, manchi anche l’appiglio della clandestinità, dato che la maggior parte degli sfruttati rosarnesi è regolarissimo.
Ammesso dunque che si possa impostare il problema in termini di tolleranza, direi piuttosto che a Rosarno si è data la situazione opposta: l’ “eccesso di tolleranza” è stato semmai loro, degli immigrati.
I fautori della politica di semplificazione potrebbero allora avvedersi del fatto che non si può ridurre un problema tanto profondo ad una questione di permesso di soggiorno, di tolleranza o di respingimenti.
Se questo approccio persiste, come ha scritto Lerner: seguiranno altre Rosarno, siatene certi.
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