Appunti di Storia moderna

sabato 1 ottobre 2011

Del problematico rapporto tra scartoffie e vita

L'impiegatuccia.

Già riuscire a conciliare i miei cosiddetti "sogni" con la maternità fu un lavoraccio. Trovare, poi, un impiego, inizialmente a progetto, quindi diventato "a tempo indeterminato", fu qualcosa di psicologicamente irrecuperabile. Già prima dissi che l'associazione tra tempo indeterminato e lavoro sarebbe stata impossibile per me. In tempi di martirio precario può sembrare un paradosso, al massimo un vezzo da jeune fille rangée. Ma c'è qualcosa di più profondo. 
La scrivania nera. Le crepe sui muri così bianchi, impersonali. L'umidità. Il sorriso forzato ai clienti. Le formule di cortesia. Più computer che persone. L'odio che striscia sulle scrivanie. I dispetti camuffati con le buone maniere. Gli sguardi sinistri, il rancore non ulteriormente interpretabile. E quell'entità metafisica, onnipresente, sinistra protagonista del tutto: la scartoffia. Infiniti formulari da compilare, scrivendo, con ipocrisia, che la proposta è straordinariamente funzionale alla produttività dell'azienda X. Scrivendo, utilizzavo con un ghigno misto di disprezzo e nera ironia la terminologia che poi, qui e altrove, mi affrettavo a criticare. Lo facevo con coscienza. Ero un consapevole e dissociato strumento nelle mani del linguaggio capitalista. 
Produttività, risorse umane, empowerment, mercato... Sempre detestata l'espressione "risorse umane" almeno quanto questi termini inglesi con cui il capitalese si compiace di apparire fico. Eppure, parlavo in quel modo. 
Complimenti, ottimo lavoro. Ma dietro quelle parole, quasi di soppiatto, nascondevo ragionamenti opposti. Temo che nessuno se ne sia accorto. 
Scrivevo che il lavoratore è la vera unica fonte di produttività, e che dalla sua felicità dipendeva quest'ultima. Per poi tuttavia ribadire che la proposta avrebbe motivato i dipendenti, che così avrebbero dato di più nel lavoro. Pretesa di cui ho sempre fortemente dubitato, e il cui sottofondo morale ho sempre schifato.
Ho imparato cos'è un commercialista, a leggere, più o meno, una busta paga, a studiarmi i miei diritti. Ho imparato le dinamiche relazionali sul posto di lavoro. 
Particolarmente traumatizzante fu scoprire che l'invidia esiste davvero. Dell'invidia ho sempre pensato che fosse un modo, per i bistrattati, di riscattarsi agli occhi di se stessi. Mi fanno del male, ma è perché sono invidiosi. Una sorta di compensazione per fini di autostima.
In realtà, esiste davvero.
A un certo punto ci mettevo pure il massimo. Facevo ricerche in più non richieste sui modi in cui articolare la proposta. Leggi, buone prassi, e quant'altro. Non riuscivo a mantenere un distacco da quello che facevo, quindi diventavo uno strumento sempre più affinato del capitalismo, consapevole di esserci dentro tutta, e di dover - per funzionare - alienare la parte critica in favore della conservazione di prassi e linguaggi richiesti dal mercato. 
Il capitalismo (o come chiamarlo) funziona proprio così. Le persone si camuffano, non potendo sviluppare se stesse in un contesto che funziona solo nella misura in cui è unidirezionale e impersonale. Dove, anzi, l'unica dose di umanità concessa è quella dell'aggressività. Che è poi un retaggio delle bestie.
Poi è accaduto che un lavoro molto importante, era nelle mie mani, come sempre d'altronde. Allora, visto che lo stesso lavoro l'anno precedente lo feci io e ebbe buon esito, l'anno successivo si decise di ripartirlo tra me e il superiore, in modo da ripartire così al contempo anche gli eventuali meriti - già troppo sbilanciati su un'impiegatuccia. Alla quale di tanto in tanto, con perversa costanza, si affidavano mansioni di fotocopisteria. Montagne di carte da triplicare, quadruplicare, ormai con gesti meccanici delle mani, che tolgono mettono premono il pulsante. Un robot che affonda nelle scartoffie. Un operaio fa molto "peggio" per molto più tempo - pensavo questo, evocando lo spirito di Marx che mi osservava con quella barba sorridente, riflesso sulla finestra adiacente alla fotocopiatrice.
In relazione a quello che faccio, non è richiesta la mia opinione, non viene ascoltato il mio suggerimento, che quasi viene inteso come lesa autorità. Si sottolinea continuamente la distanza e la gerarchia, non sia mai che un'impiegatuccia si creda di dimenticarsi chi è che  comanda qui. Incasso il colpo, come già avevo fatto quando mi fu detto tu non esci di qui finché il lavoro non è terminato, anche a costo di stare qui fino a domenica notte. Il dito puntato, il tono. (Naturalmente sono rimasta lì solo il tempo stabilito dal contratto). 
Se avessi un'azienda tutta mia, sarei gentile. E sarei contenta se i "miei dipendenti" - altra espressione tristissima - fossero desiderosi di "fare le cose per bene".
Ma questa è, come al solito, un'ingenuità.
Era troppo, assistere, di nuovo, a quel modo di fare.
L'astuzia ha vinto nella lotta per la sopravvivenza tra i comportamenti sociali vincenti.
Avrei potuto, fossi stata astuta, fingermi supplichevole, servile, sottomessa. Ma io ero semplicemente me stessa. Anzi, il mio strabordante orgoglio ne risentiva pure - ma l'ho comunque abbondantemente limitato. Così, non riuscii a frenarmi, e con la massima educazione risposi che non ritenevo corretto quel linguaggio nei miei confronti. 
E niente, una settimana dopo succede che non hanno i soldi e devono licenziarmi.
Strano, no?
Ma io sono felice. L'angoscia che mi accompagnava ogni mattina, per non poter viaggiare, per non poter studiare come volevo -  cosa che comunque ho sempre continuato a fare -, la frustrante routine, l'insensatezza che la permeava, la sinistra sensazione di dover rimanere in quell'ufficetto di provincia (in senso metaforico) per tutta la vita, mi occludevano le vie respiratorie dell'esistenza. Impossibile per me essere "grata" al benefattore che mi ha dato il lavoro. Finito di lavorare, mi buttavo sullo studio e pretendevo di essere una buona mamma, con un sordo rancore dentro per quel sistema di vita. Passavo ore, quando potevo, cercando informazioni sull'Africa, sull'America Latina, sull'aurora boreale e il Gran Canyon. Sognavo di vivere su una roulotte itinerante per il mondo. Lo farò, prima o poi. Di certo, non porto i pasticcini, non lecco il culo al datore di lavoro come molti altri facevano, ottenendo così gli ambiti contratti. Ecco cosa vince nel lavoro. Le leccate.
Come fa la gente, mi chiedo, a vivere così per trent'anni tutta la vita. Io non ci riesco. Sono un'inetta a vivere, se questa è la vita. 
Grazie, dunque, per avermi licenziata. Quest'ideologia dell'umiltà servile e reverente del lavoratore è proprio un cancro corrosivo della vita. Se mi guardo vedo solo punti interrogativi, ma una cosa è certa, io non voglio uno stile di vita che alle 8 al lavoro a farsi comandare per 8 ore, per guadagnare dei soldi che poi serviranno al capitalismo a riproporre questo identico stile di vita presso tutti gli altri. Finchè sarà possibile, cercherò di coniugare la mia natura con il lavoro - lavoro inteso come espressione creativa e operativa di sé. Il lavoro è una cosa bellissima, può essere veramente una grande fonte di felicità per sé e per gli altri - non questa roba qui, retaggio del feudalesimo.

3 commenti:

  1. Ciao! Nel leggerti ho rivissuto questi miei ultimi mesi.. Anche io sono scappata.. Ma poi ci sono ricascata.. Spero che ci ribeccheremo un giorno.. Ciao
    Alessia (Fiordaliso)

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  2. Ciao Fiordaliso, è un piacere rileggerti. Anche a me piacerebbe risentirti/vi

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