Appunti di Storia moderna

martedì 25 ottobre 2011

Zeitgeist, lavoro

In epoca di progressiva terziarizzazione dell'economia, parlare di potere operaio nel vecchio gergo sembra privo di senso. La condizione è cambiata, sta cambiando. La grande massa proletaria concentrata nelle fabbriche dell'Italia ricca è oggi, così spesso, per strada a reclamare il reingresso nell'azienda fallita. Nel centro-nord grosse imprese chiudono, come a catena, e i pluriennali dipendenti sono smarriti. Da ciò non si può certo concludere che l’industria sia in corso di dissoluzione – ma certo, in Italia, se la crisi economica si abbatte sui lavoratori è anche perché le imprese ne sono direttamente coinvolte; benché spesso ciò diventi un alibi per la perpetrazione dell'ingiustizia sociale.
Al contempo, la dose di rilevanza economica del settore industriale in Italia lascia progressivamente il passo al terziario, per diffondersi potentemente – con tutte le ricadute concorrenziali – nei paesi a basso costo di manodopera, l'Asia, l'Europa dell'Est. 
A questi due fattori, la crisi economica e la parallela terziarizzazione dell'economia, deve aggiungersene un terzo: la progressiva de-regolazione del lavoro.
Se all'inizio della seconda metà del '900 si poteva assistere a un crescendo di rivendicazioni operaie e di conflitti sociali, sfociati lentamente in una progressiva negoziazione fra le classi sociali "opposte" - imprenditore/operai e sindacati - oggi la vecchia realtà, di centinaia di lavoratori chiusi in una fabbrica ad acquisire comune coscienza dello sfruttamento, si è trasformata nell'articolazione sempre più complessa delle situazioni lavorative, relegate all'ambito individuale che solo per la parola magica "precariato" può presagire una specie di base comune. Ma di fatto frammentaria, sparpagliata, priva di autorappresentazioni codificate.
Tutto ciò che è stato conquistato appena 60 anni fa, viene eroso senza la plateale evidenza delle deroghe, ma con la dimessa, scaltra e articolatissima operazione legislativa, promossa dall'Europa e raccolta senza esitazioni dalla politica nazionale, della flessibilizzazione del lavoro. 
Il contratto atipico entra nella forma mentis di tutti, l'immaginario dell'azienda non contempla forme contrattuali diverse se non in forma eccezionale. I diritti costano, e il contratto atipico permette di aggirarli col beneplacito delle leggi. Lo stesso aspirante lavoratore, considera sempre più la sua "atipicità" come condizione normale. Succede così che le ferie diventino una gentile concessione del padrone, ovviamente non scontata; che alla maternità competa lo stesso trattamento delle ferie; che la pensione somigli sempre più a un grosso, fumoso punto interrogativo; che l'arbitrio del datore di lavoro spadroneggi con il conforto della legittimazione nazionale.
Un esercito di stagisti incarna il grande bluff degli ultimi decenni. Col pretesto della formazione, le aziende sopravvivono alle spalle di giovani illusi che poi vada meglio; praticamente gratis e senza diritto alcuno. E si badi a controllare l'insofferenza, che non è difficile sostituire uno stagista irritato con uno stagista volenteroso - tanto, in tempi di crisi, non mancano mica. 
Le aziende appaiono alla grande popolazione precaria come facce deformi, con lo sguardo beffardo e un sorriso cattivo: posso fare di te ciò che voglio. Tanto la legge me lo permette.
Si tratta di una regressione che gode del plauso di tutti, tranne che, naturalmente, delle "vittime" - uniche noiose oppositrici di un sistema che conviene a tutti. Tutti, tranne quelli che dovrebbero concretamente beneficiarne: la maggioranza della popolazione.

Dal 1995 in poi, data del Pacchetto Treu, nulla ha più fermato questa corsa alla de-regolazione: un riportare indietro, come scrive Luciano Gallino ne "Il lavoro non è una merce"[Laterza, 2007], le lancette dell'orologio della storia del lavoro. Tutto è ora da riconquistare. I vecchi teorici della liberazione degli oppressi appaiono consumati, le loro categorie possono solo in parte e talora solo forzatamente applicarsi alla situazione presente.  C'è la sempre rinnovata insofferenza per il gergo "comunista", punto di riferimento, appena mezzo secolo fa, per le rivendicazioni dei lavoratori. 
Le Brigate Rosse si sono dissolte (non è del tutto detto), a mio avviso non solo per il capillare controllo poliziesco che di fatto, con centinaia di arresti nel tempo, le ha smantellate; ma anche perché è venuta a mancare col tempo la base per utilizzare quel gergo e quell'ideologia.
Oggi, se vogliamo, la realtà sociale e economica è più complessa; la dialettica sociale non ha più i soli due protagonisti tematizzati dalla lotta armata - il padrone borghese, l'operaio sfruttato -, adesso manca la possibilità per la "classe sfruttata" di costituirsi come blocco unico, forte, con la valenza rappresentativa di una massa. E manca anche un’autocoscienza codificata, la sensazione di appartenere tutti a uno stesso “gruppo d’interesse”.
Gli ultimi brigatisti, quelli che Giorgio Bocca ha definito promotori di una "parodia delle BR degli anni '70-'80" per fare gli attentati prendevano il permesso dal lavoro. Parasanitari, impiegati. Non più o solo in parte "operai". Eppure gli ultimi obiettivi costituivano un segnale contro la precarizzazione del lavoro.
(Non legittimiamo il terrorismo. Lo inquadriamo in un contesto politico. I consensi delle BR nei primi anni '70 raggiungevano le 300mila persone. Tutto ciò non può essere liquidato ai margini dell'antistato. Occorrono valutazioni lucide, riconoscere loro l'impatto politico che di fatto hanno avuto).
L'involuzione, il "reflusso" politico degli anni '80, del progressivo individualizzarsi delle "pratiche politiche" ormai ridotte a pochi veterani e volenterosi, è un processo parallelo alla disgregazione delle forme sociali precedenti e alla precarizzazione del lavoro.
Le ideologie perdono consensi (non quella capitalistica, sempre attuale, per il quale semplice esistenza e propaganda di se stessa coincidono), tutto è "vecchio" e la gente accetta il sistema di vita borghese - persino minacciato dalla de-regolazione del lavoro:  l'impiegato che per trent'anni svolge lo stesso impiego, mette su casa e famiglia, e vive della pensione gli ultimi anni, lascia progressivamente il posto al giovane disorientato, spesso amareggiato, che non ha il tempo per fare politica - che alla politica non "crede" più - troppo occupato, di volta in volta, a combattere fra graduatorie, colloqui di lavoro, mestieri malpagati e la frustrazione di procrastinare una "vita tranquilla", la chimerica regolarità della vita borghese, prima disprezzata ora ambìta.
La stessa de-regolazione impedisce l'autocoscienza collettiva: come fare gruppo, se il contratto scade dopo 1, 3, 6 mesi, e i colleghi saranno sempre nuovi, con essi i contesti e il terreno di lotta? Nulla più della deregolazione del lavoro impedisce che la stessa rivendicazione assuma forme coerenti e incisive.
Le energie fisiche e mentali sono del tutto assorbite da questo aggrapparsi con le unghie alla possibilità di un "futuro normale". La de-regolazione erode le basi per la partecipazione politica, ampliando il terreno dell'indignazione, della frustrazione, dell'insofferenza che fa presto a mutarsi in disfattismo.
I più continuano ad essere addomesticati. La televisione, la stessa ICT, arma a doppio taglio, le imbarazzanti percentuali di lettori in Italia completano il quadro. 
Il degrado può entrare indisturbato in parlamento: lo specchio dell'Italia. 
Alla fine, la furbizia subentra nella gerarchia di preferenza delle virtù. Lui ce l'ha fatta, dice qualcuno pensando a Berlusconi nei termini, ammirati, di un nouveau Robinson Crousoe. Si allarga la legittimazione morale della truffa, dell'imbroglio, del parassitismo mentre si erode - c'è mai stata? - la coscienza sociale e civile.

Serve un canale coerente, propositivo, consapevole per l'indignazione. Troppo è cambiato. Ci vogliono nuove categorie descrittive, nuove griglie di lettura, nuovi riferimenti. Data la debolezza dei partiti che potrebbero promuovere l'alternativa, quale può essere, oggi, il punto di riferimento della rivendicazione? Sembra che il 15 ottobre degli indignati, nel suo carattere disarticolato e vario sia l'unico esito possibile, oggi, dello smarrimento. Lo sfascio, pallido residuo, solo parzialmente negli intenti, delle contestazioni dei seventies, nella sua disarticolazione riflette la confusione politica e sociale. Il comunismo, allora, era, a prescindere dai contenuti, propositivo. Ora, delle contestazioni non ci resta che questo: il no, la negazione. Quando, come, un salto di qualità? E' urgente porsi questa domanda. 

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