Appunti di Storia moderna

mercoledì 11 marzo 2009

Revolutionary Road

Capita di vedere dei film che, per l’elevato legame col proprio vissuto autobiografico, sono oggetto di visione spasmodica e ansante. La sensazione è quella di vedere fuori ciò che si ha dentro: in forme diverse da come le si era pensate, ma pur sempre quelle. Al di là del nesso col proprio mondo, questi film sono un condensato di particolare e universale, perché mentre raccontano le ambiguità emotive del singolo raccontano le contraddizioni di un qualche tutto.
Mi riferisco a Revolutionary Road. E’ un film sui ricatti – ne avevamo già parlato, no? – cui la società sottopone i suoi membri; sull’ordine sociale che si pone come imperativo e prioritario rispetto agli impulsi vitali di chi vi appartiene ma non vorrebbe. Non posso andare, ma non posso neanche restare : non esiste una collocazione per chi abbia occhi e antenne sensibili al ricatto. L’esaurimento, l’alienazione, sono gli unici esiti possibili, le uniche conseguenze logiche, di questo vivere stretto dentro a un mondo disumano. Mi ricorda Carmelo Bene “finché lavoreremo non potremo parlare di libertà” o qualcuno che, su questo blog, mi faceva notare che chi lavora non può pensare, perciò è in un certo modo praticamente costretto a turarsi le orecchie, e a sentire solo quello che gli si vuole far sentire.
Dentro Revolutionary Road c’è Orwell, c’è Adorno, c’è Kafka, c’è Brazil , il ’68 , Ionesco e il teatro dell’assurdo, Madame Bovary, le forme deformi di Munch, la vita di tutti noi oggi.
Interessante, poi, notare come la verità spetti sempre ai pazzi dirla, come lo sfinimento della donna corrosa dalla percezione del ricatto venga relegata al mondo della psichiatria: sorge il dubbio che la pazzia sia una parola creata dallo status quo per rendere inerte di fronte a se stesso qualunque possibilità di sovvertirlo. E’ facile convincere il dubbioso di vagheggiare utopie infantili: è facile condannarlo alla solitudine del “ sognatore” dal momento che “realistica” è solo una cosa: accettare lo status quo come vero. La parola più pesante, più efficace, che un burocrata degno di se stesso possa pronunciare per convincere il potenziale ribelle che un mondo diverso da quello che gli propone è impossibile, è realismo. Cos’è il realismo, poi? L’ismo dello stato di cose, dell’ordine costituito: in una parola, la sua religione. E’ possibile, infatti, professare la religione dell’esistente, adorare le cose come stanno vedendo in esse l’epifenomeno della Verità, il rivelamento ultimo della nostra propria essenza, il senso del nostro stare al mondo . Ma, a ben guardare, questo professato realismo non è realista fino in fondo: se lo fosse, vedrebbe le istanze del cambiamento che, nella realtà, pulsano. L’angoscia del richiedente che si trascina di ufficio in ufficio, del funzionario stanco di timbrare le carte, della casalinga che guarda dalla finestra il giardino in cui giocano i suoi bambini mentre si fa un goccetto, dell’uomo sposato che desidera una donna d’altri, dell’alternarsi insignificante di buongiorno e buonasera – grazie e prego – non si preoccupi e si figuri, del volto sconvolto di fronte all’ennesimo “non sta bene”, è la tangibile realtà del rigetto della realtà così com’è. L’opera censoria , l’instancabile super-io che con impareggiabile lena si adopera per distruggere quel poco di vita che alberghiamo dentro, è il vero collante di una società tenuta insieme nel delirio di persone che fanno quello che fanno dimenticandone, specificamente, il perché , e che pure lo giustificano ciecamente.
Negli occhi di April  , la protagonista, brucia la contraddizione del perpetrarsi di quest’insensatezza collettiva : non posso andare, ma non posso neanche restare, urlano in quel silenzio che è la manifestazione più vera della vita che recalcitra tra le sbarre di una prigione che non vede quasi nessuno.
“Andremo da uno strizzacervelli” : dove si potrebbe andare, altrimenti? La maschera deformante che si pretende indossi non può che generare malessere, disagio, turbamento: dal momento che non possiamo spiegarceli, che non possiamo collocarli , zittiamoli a colpi di xanax ed elettroshock, e tiriamo avanti, continuando a far finta di essere sani.
Che poi la fine di April sia data da un aborto tragicamente autoprocurato, la dice lunga : nella questione dell’aborto si addensano i diktat di un sistema che premette i ruoli alle persone, la finzione alla verità,  per il quale rifiutare una maternità non voluta è un atto troppo sovversivo per ammetterne la semplice plausibilità. La sovversione è rispetto alla costrizione nel ruolo, e all’ordine anteposto in termini d’importanza a chi lo dovrebbe mantenere.
April muore. Poi se ne parlerà ancora, tra amici di fronte a una tazza di tè, sarà l’argomento di conversazione del giorno: ma c’è un turbamento nelle facce degli astanti, torniamo a parlare della partita di football , e sfuggiamo a quel disagio troppo scomodo da decifrare.    
AGGIUNTO                                           
Nel film, inoltre, si insinua la possibilità per April e compagno di sovvertire la classica borghese divisione del lavoro tra uomo e donna: lei lavorerebbe, lui dovrebbe "leggere, studiare". Alla fine lui, proprio come il protagonista di Les Rhinoceròs di Ionesco, ha una crisi: per analogia con la commedia, si potrebbe dire che avverta la difficoltà, allo specchio, di distinguere se sia ancora un essere umano o se rechi già i tratti del rinoceronte: animale nel quale, nel frattempo, tutti gli altri si sono già trasformati. E' il fatto che tutti si è in un modo a far dubitare che sia anche solo possibile essere in un altro. Di più, il sistema gli dà la sensazione che, in fondo, sia possibile scegliere, allo stesso tempo presentandogli come unica decisione semplicemente sensata quella della sua sottomissione a esso. Si ha perfino difficoltà a focalizzare su se stessi, tanto si è impregnati dell'identità preconfezionata che il sistema ha pre-scelto per ciascuno. Esso sottrae gli individui al "disturbo" di definire liberamente, tramite un percorso originale e creativo del tutto personale, il proprio essere se stessi.                                                                                                                                                                        Si è, letteralmente, espropriati della vita. 

5 commenti:

  1. io non ho visto il film, ma ti consiglio il libro, forse IL capolavoro per antonomasia della letteratura americana. Yates era un depresso, alcolizzato, i suoi libri non hanno mai avuto successo, ma il "realismo sporco" con cui si accosta alla descrizione così minuziosa degli ambienti della media borghesia di provincia, ha qualcosa di devastante.

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  2. Già, alla fine è uno sprezzante ritratto dell'uomo medio, e dell'imperialismo che lo caratterizza. Non so, però, se l'uomo medio sia il frutto o la scaturigine di tutto questo.
    Leggerò sicuramente il libro.

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  3. E l'aborto è anche l'uccisione di quella speranza di vita che lui le aveva dato, "pompa via" quello che ora anche per lei è scomodo. Vivere con tutti gli altri come se niente fosse di quello che ha "percepito" vuol dire vivere da morta e così lei muore. E' inoltre buffo notare come prima fosse lodata proprio per la sua diversità, dopo, invece, è proprio la sua diversità ad essere condannata. Sembra che anche gli altri sentano l'insensatezza della loro vita ma poi non abbiano il coraggio di fermarsi a pensare.
    saròlungaecontorta

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  4. Lucido commento a cui aggiungo che il film, secondo me, non approfondisce a sufficienza il personaggio di April che nel libro non appare affatto pazza né contradditoria, bensì una persona che vive sulla propria pelle l'impossibilità di essere se stessi, scontrandosi con una realtà che annichilisce i propri sogni.
    elalma

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  5. Complimenti per il post, una bella analisi del film anzi direi impeccabile. Grazie per aver commentato CineSofia... :D

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