Appunti di Storia moderna

martedì 25 settembre 2007

Abissi - Tra me e il Parlamento c'è di mezzo il mare.

Ora, a noi non interessa mitizzare nessuno. Osservare il più profondamente possibile, dobbiamo.
Beppe Grillo non è un leader carismatico, né un critico acuto, è solo uno che sarcasticamente comunica le contraddizioni della classe politica. Pubblicamente. Facendo leva sul suo pregresso successo, oggi la gente può sfruttare il suo potere mediatico per dire, più o meno, la sua.
Come si vede la demcrazia oggi ha la sua sede privilegiata non nel Parlamento, quanto piuttosto nei mezzi di comunicazione; e specifichiamo, nellla televisione, la più diffusa cioè onnipervasiva. Essa è la quotidianità.
Come avevamo già detto, i media sono tutt'altro che democratici ma i fatti di oggi dimostrano che la gente per parlare ai politici non deve rivolgersi ai partiti, dove le questioni probabilmente perirebbero sul nascere, ma a chi detiene un potere mediatico non indifferente.
Direi che Grillo è un rappresentante politico - eletto in barba a tutti i regolari iter elettorali possibili - della gente comune, la quale soffre con evidenza di quell'aura di impeccabile superiorità di cui gode la classe dirigente politica.
Schumpeter aveva ragione. Democrazia e mercato sono oggi due modelli più prossimi di quanto si possa credere a prima vista. Entrambe campano grazie alla competizione, in entrambe gli apparati dirigenti vivono in iperuranica distanza dalle genti. In questo quadro, il voto è l'unico obiettivo dei politici, che pur di accaparrarsene la maggiore quantità, elaborano i loro programmi politici cercando di riprodurre il più fedelmente possibile le aspirazioni del buon cittadino medio. Ecco perché i programmi politici di rappresentanti di opposti schieramenti, sono praticamente uguali.
Il paradosso sta nel fatto che a queste parole, direi circa un 80% di persone scrollerebbe le spalle con impazienza, come a dire "mbè? ora l'hai scoperto? questa è la realtà". E' questo tipo di atteggiamento, a mio avviso, che concorre alla stabilizzazione definitiva e totale dello status quo. Dare per scontata una realtà sbagliata, guardarla quasi come se in fondo non fosse poi tanto male, assumere in sé questo scenario alienante e trasfigurarlo come auspicabile, significa sbattere la porta in faccia ai cambiamenti possibili nonché consacrare l'ordine esistente all'eternità.
Il realismo non è realista quando esclude ogni possibilità di superamento della realtà di cui tratta. Altrimenti non vedrebbe le istanze di ribellione allo stato di cose attuale, che pure qualcosa ci dicono dell'essenza di questo stato di cose attuale.
Democrazia allora non è che un esercizio limitato consistente nella limitata indicazione di-chi-ci-governerà.
Cioè, di chi dovrà far parte dell'élite. Ma allora non è democrazia. E' un'oligarchia che dà delle concessioni (formali) al popolo, le quali concessioni non sono che un noioso retaggio di secoli di storia cioè di lotte per i diritti, una maschera di legittimità che ricopre le storture del sistema. In due parole: una caricatura della democrazia.

4 commenti:

  1. Non mi sembra che scrivi di cose troppo frivole (cit.). Hai mai pensato una cosa: come si fa a parlare davvero di democrazia, finchè c'è chi ha il tempo per conoscere i problemi, discuterli e dunque decidere, e poi c'è la gran parte delle persone che invece lavora per la gran parte della sua giornata? Questa credo sia la questione centrale, da cui derivano gran parte delle altre.

    Besos
    Aar

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  2. E' una questione molto complessa. Non riesco a pensare a un ottundimento indotto dagli "apparati di dominio" se non per quel che riguarda i mezzi di comunicazione. I rematori con le orecchie turate, i sensi resi funzionali esclusivamente a quel remare; questo, dici. Ci trovo una radicalità estrema, le mie orecchie non sono abituate a quuesto tipo di pensieri. Si tratta di guardare tutto criticamente,radicalmente, minando così le basi di tutto ciò che regge l'oggi.
    Forse semplicisticamente, ti direi che bisogna-pur-lavorare. Il problema è che timbrato il cartellino, i mezzi che c'informano del mondo vanno in preformate direzioni.
    Perché credi che la teoria critica sia esaustiva? Parla di cambiamento, ma mai esplicitamente in termini politici. E' critica, pars destruens; e ad esser sincera l'idea della negazione determinata è tanto pregnante quanto vaga.
    Personalmente, raccolgo i tesori della Scuola, e approfondisco anche presso altri orizzonti.

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  3. Das Arbeit macht frei. Chi ha detto che bisogna-pur-lavorare? Guarda caso, lo dice quasi sempre chi non lavora, e trae il suo profitto o il suo mantenimento dal lavoro degli altri. Naturalmente, il punto è il lavoro alienato (salariato e/o a comando), non il fare, l'attività, la praxis - che sono per lo più negate a chi lavora. Basta vedere come sono molto più piene e attive, in media certo, le vite di chi non ha l'obbligo di lavorare (o anche di chi non lavora ancora, ad esempio gli studenti). Certo è un'idea che fa venire le vertigini. Nega tutte le nostre certezze, millenarie. Anche se già prima del Barbuto di Treviri, le religioni avevano dovuto affrontare il problema. Se non altro per tener buoni quelli che, lavorando, si facevano venire dei dubbi, a sentirsi dire di continuo da chi non lavora che il lavoro nobilita. Allora, ecco che veniamo a sapere che il lavoro come "fatica" (ovvero alienato) è una conseguenza della caduta dall'Eden, e che scomparirà, alla Fine dei Tempi. Insomma, stai calmo, lavora che ti purifichi, mentre noi parliamo con Dio per convincerlo a perdonarti del peccato di Eva. E, nel frattempo, prendiamo tutte le decisioni che ti riguardano, e magari ti informiamo pure, certo obiettivamente. Recentemente, siccome nel Novecento ti sei pure messo a protestare, in qualche paese ti facciamo anche segnare una scheda ogni tanto, per (contribuire a stabilire) chi, tra di noi, prenderà le decisioni. Poi, dopo che ci hai dato le decime o i profitti per tutta la vita, dopo la morte stanne certo, non lavorerai più.

    Aar

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  4. Mmm. Ammetto che questa visceralità scuote molte certezze. Il punto è che la "necessità illusoria" del dominio, mi è talmente dentro che non saprei pensare, pur col massimo sforzo, a un modo diverso di organizzazione che non quello della divisione del lavoro. Il bisogna-pur-lavorare non è idea appannaggio di studenti e disoccupati, ma di tutti. Molti tra chi lavora, però, lo dicono con l'amaro in bocca. Il fare, la praxis, evidentemente non rientrano nell'organizzazione attuale del mondo. Tutt'al più, è relegato a un settore, quello intellettuale, che però quanto può sovvertire davvero?
    Ma non ci ho pensato abbastanza.
    In linea di principio i tuoi argomenti mi sono incontestabili. Ma ciò che fa difetto, per me, è proporre un positivo. Per esempio: "come" cambiare? DI fornte a questa domanda mi ritraggo, e guardo a quelle certezze "negate" con più indulgenza. Tutto ciò rientra nel transitorio nei miei pensieri; in una "distruzione" spinta dall'ansia della costruzione. Quest'ultima rende problematica la prima.

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