Appunti di Storia moderna

giovedì 4 dicembre 2014

Il linguaggio oscuro

Chissà, magari questo potrebbe essere l’inizio della trilogia sugli intellettuali che sto maturando con astio da tempo. Ho troppo da dire sull’argomento, quindi, onde evitare di scrivere l’ennesimo papiro (ma chi mi paga? vabè che tanto poi lo faccio lo stesso), abbasso il tiro e mi limito a quella sottocategoria di intellettuali – uso in questa sede il termine in senso dispregiativo* - che scrive in modo oscuro: d’ora in poi, gli "oscuristi" (parenti stretti degli oscurantisti?). Sono quelli che mi rendono simpatico persino l’odiosissimo detto nazionalpopolare nonché gastro-linguistico, “parla come mangi”. Pensa tu come siamo messi. 

Dunque, sfoglia che ti sfoglia, ecco un bel titolo, un bel tema, una cosa interessante, qualcosa che merita che io mi ci fermi un attimo e anche più di un attimo a leggere. Fico. Dai, avanti così. Scrivi scrivi, “mi piace”. Ma gli è che dopo titolo e sottotitolo, realizzi che nel leggere le cose oscuriste nessun essere umano può trarre godimento alcuno. L'emozione che gli si associa è piuttosto quella della repulsione. Se se, lo so, che scrivi per non compiacere nessuno, che scrivi “per te stesso”, che le masse andassero a farsi fottere eccetera. Certo certo, condivido. Ma attenzione: ho come l'impressione che si abusi di questo argomento, che sia diventato un alibi per mascherare il nulla con ricercato eloquio, in modo da sembrare intellettuali. Magari, infatti, dalla lettura si traesse dell’altro: se non il piacere, quanto meno dei contenuti, per esempio, una tesi, delle immagini o addirittura qualche informazione interessante. Vediamo.

Il piacere giace morto ammazzato all’angolo della mia pazienza. Ma nel frattempo anche la ricerca di contenuti comincia a preparare le valigie. Io e il mio esercito della buona volontà siamo decimati, ma imperterriti continuiamo: orsù ciurma! Dev’esserci dell’altro! Qualcosa, per esempio. Negativo capitana - mi dicono dalle retrovie -, finora nulla.
Ecco appunto che mi assale, durante la contorta lettura, il dubbio di trovarmi di fronte a quell’entità che nei cartoni animati i supereroi chiamano “il nulla in altre forme”. Sì insomma, quella cosa che non è niente ma che si maschera in modo da sembrare qualcosa. E’ la stessa sensazione che provo coi logorroici: quelli parlano, parlano, ma tutto questo parlare non è altro che una decorazione compulsiva di un ben dissimulato vuoto.

E alla fine,  morto ammazzato il piacere della lettura, fuggita a gambe levate la ricerca dei contenuti, definitivamente strmazzata a terra la possibilità di trovare un’informazione, eccomi a tu per tu con l’autore. Sì, insomma, quello che ha scritto questa roba, come lo vogliamo chiamare, effusore di oscurità?
Gliela leggo bella chiara in faccia, tutta la sua psicologia, mentre trattiene le goccioline di sudore con uno sguardo fiero, e tira su col naso in aria di sfida ma per farsi coraggio. 
  • Vedranno che sono molto colto. Penseranno che me ne intendo!
  • Nessuno potrà attaccarmi, perché chi vuoi che capisca quello che dico? Hihihi! Se non mi capiscono, non possono neanche criticarmi! E siccome narcisismo vuole che nessuno ammetta candidamente “non ho capito”**, capire una cosa complicata come quella che ho scritto sembrerà degno di essere esibito come una nota di merito. Dai, è fatta!
  • Magari metto pure il curriculum alla fine, così penseranno che sono uno che conta. E tutto quello che dico diventerà credibile, per il sol fatto di scrivere "laureato", “professore” o “ha scritto decine di articoli in svariate riviste importanti” in calce al mio articoletto. La gente penserà: uno così titolato non può dire minchiate! Sono a posto wow.
  • Eccomi dunque entrato nella cerchia di quelli che dicono cose che bisogna leggere, linkare e citare per essere a propria volta fichi. Non ci posso credere!!!
  • Insomma, sarò un intellettuale!!!!11 Corro a dirlo a mammà!
A occhio e croce, l’oscurista pensa questo. Non venite a dirmi il contrario. E’ terrorizzato dalla possibilità di essere quello che è, cioè banale. Vuole essere speciale, e non lo fa, stavolta, in modo qualunque, ma bensì in modo patetico e, a dispetto di tanta fierezza, ridicolo: per il semplice fatto che non ha gli strumenti per essere quello che vorrebbe essere - segnatamente, un intellettuale. Certe cose uno se le deve sudare - semicito di nuovo Antonin Artaud - non può averle così, gratis, persino prendendo in giro gli altri, come se gli altri non sgamassero il trucchetto.

E adesso, un consiglio al lettore medio, che rivolgo anche a me stessa. Quando il dubbio di non capire un testo ti coglie (no, non mi riferisco alla Critica della ragion pura, ma a quell’articolo in quella rivista su internet che il tuo amico appassionato di estetica tiene tanto a farti leggere), acquista il kit, facile da usare ed economico, ma de che stamo a parlà? di Meglio tacere edizioni. Ogni volta che penserai di essere tu a non arrivarci, la magica domanda ti tirerà fuori dall’impiccio. Tutte quelle frasi roboanti saranno costrette a ridimensionarsi e fare i conti con l'elementare richiesta.

Il fenomeno rientra perfettamente in quella che Adorno chiamava semicultura, anche nota come middlebrow, come scrive Guia Soncinicioè la cultura intesa come esibizione sociale di carattere narcisistico: la cultura come arredo fashion. Leggere Pierre Bourdieu e qualche profonda critica del gusto estetico di massa può essere utile per riconoscerla, ma non ve n'è necessariamente bisogno: personalmente, mi basta il senso di irritazione. 

Riconosco tuttavia in tutto questo un problema. La soglia del “non capisco” è molto variabile da soggetto a soggetto, e molto strumentalizzabile anche (leggi: "non ho capito, ma è colpa tua che non sai scrivere"). Prendi quegli autori che moltissimi ritengono “oscuri”, e che invece devi fare lo sforzo e poi li capisci. Possiamo rivolgere a costoro lo stesso rimprovero di questo post?
Prendi un Habermas. Uno che per dire che le persone si mettono d’accordo su un problema, dice che l’idea è intersoggettivamente condivisa. Sì, insomma, la prolissità per eccellenza. Habermas è appunto prolisso – tra un’espressione breve e una lunga, sceglie sempre la soluzione meno economica – ma non è oscuro. Soggetto, predicato, complemento, rinviano a dei referenti, agonizzanti magari, ma pur sempre dei referenti: un “qualcosa”. Quindi Habermas tu puoi criticarlo, misurandoti con argomenti, quelli che lui espone: benché abbia tutta l'aria di farlo, non nasconde il nulla dietro un eloquio forbito - semmai complica le cose semplici e ammorba il lettore, ma questo è un altro discorso. Ho scelto un autore che non amo molto, per una sorta di mia onestà intellettuale, perché devo riconoscere che comunque, nonostante l'apparenza e lo scazzo nel leggerlo, qualcosa dice. 


Certo, la questione non è pacifica, perché ci sono poi i dibattiti su personaggi semi-divini come Heidegger, che a mio avviso in diverse cose scritte non dice assolutamente nulla (dico, mai letto il saggio, "A che i poeti"? Il sol pensiero mi provoca reflussi gastroesofagei), mentre per altri sono intrise di significato...senza parlare dell'uso balordo delle maiuscole per dare un'aria mistica al tutto. 

Ad ogni modo, diffido profondamente di ogni testo che, per comunicare, abbia bisogno di apparire intellettuale: di solito, si avverte questo bisogno prepotente come il vero oggetto del testo in questione, in modo che l'aria intellettuale che si vuole trasudare a forza mi distrae dal senso di quello che leggo. I migliori sono quelli non già che riescono a dire in modo semplice le cose complicate (perché anche essere complicati non è certo di per sé un male, e non bisogna cedere alla tentazione di credere che si abbia il dovere di "parla come mangi", per carità), ma che danno la priorità al senso di quello che dicono, prima che a tutto il resto.

*Ovviamente, con ciò sottintendo la possibilità di usarlo anche in senso positivo. Ci sono buoni intellettuali e cattivi intellettuali, secondo me (Costanzo Preve preferiva definirsi un "dotto", disprezzando il termine). Dico solo che la maggior parte dei cosiddetti intellettuali rappresentano solo la forma abortita del disperato tentativo di sembrarlo.

**A proposito, ma perché al giorno d'oggi sembra ci si vergogni di dire "non ho capito"? Perché ci si sente in competizione quando si affrontano argomenti "intellettuali" e si cerca il più possibile di nascondere se non si è letto un libro o se non si conosce un autore o se non si è colto il senso di un argomento? A quale ansia da prestazione sociale è stata asservita la "cultura"? Perché fare della "cultura" una specie di performance? A questo argomento pruriginoso sarà dedicato, prima o poi, un altro post...

10 commenti:

  1. Sottoscrivo in pieno il post, e aggiungo una nota polemica. Ci sono intere aree della sinistra cosiddetta "disobbediente" che ha contaminato molto femminismo italiano, che parlano in questo modo difficile e inaccessibile per poi nascondere la vacuità delle loro proposte politiche, nonché la loro stessa superficialità nella pratica politica. Tempo fa ho partecipato ad un'assemblea femminista di un collettivo abbastanza famoso (anche mediaticamente) di cui non voglio dire il nome dato che non è rilevante, è solo un esempio fra i tanti, ed è stato estenuante: era tutto un parlare di "attraversare" e "risignificare", un usare verbi a sproposito e non riuscire a mettere in fila un ragionamento sensato. Cioè, quello che voglio dire è che noto che in passato si andava ad un'assemblea per ragionare insieme e arrivare ad un punto politico, ad una sintesi, invece oggi si fa e ci si va per confermare uno status, un linguaggio, un modo d'essere che non può mai esser messo in discussione - non capisci? Cazzi tuoi, sei diversa da noi e quindi non interessi. Questo è lo stato della stragrande maggioranza dei collettivi politici e femministi in Italia, con pochissime eccezioni.
    In questo elogio della chiarezza ci tengo comunque a ricordare l'interessante "Perché è difficile scrivere chiaro" di Franco Fortini, poeta e scrittore dimenticato dai più. In rete non si trova, credo, ma per chi può sarebbe interessante recuperarlo. L'oscurità del linguaggio di Fortini non andava giù a molti, ma è interessante vedere la differenza tra le due oscurità... Magari scriverò un altro commento su questo, per poterlo far arrivare a più persone possibili visto che, appunto, in rete non c'è e non si trova nemmeno tanto facilmente in libreria.

    Grazie dello spazio, e grazie sempre per i tuoi spunti.

    Serena

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  2. Ciao Serena, vedo che viaggiamo sulla stessa linea d'onda. Scrivendo questo post, avevo molti soggetti in mente, fra questi anche i cosiddetti sinistrorsi che in qualche modo, probabilmente, sono riconducibili al tuo esempio. Oggi è tutto un parlare di dispositivi di potere e di bio-tutto, c'è tutto un foucaultismo di terz'ordine applicato alla totalità del reale, più per costruire narrazioni compiacentemente pretese dissenzienti che per comprendere e agire meglio la realtà. E' la stessa deriva "performativa" - individualistica, narcisistica autoreferenziale - che si trova per esempio nel femminismo queer, pornoterrorismi e altro, quando mancano ulteriori elaborazioni e problematizzazioni (che io auspicherei moltissimo: come uscire dal volontarismo? nessuno di riconducibile a questi movimenti ha saputo spiegarmelo). In pratica quel che diciamo qui è che un linguaggio preteso forbito, talora non nasconde che molto poco in termini di pratica politica, senso e tutto il resto, e si riconferma un mezzo di distinzione sociale fra gli altri (l'estetizzazione della militanza eccetera). Perciò mi ritrovo molto in queste tue parole: "si andava ad un'assemblea per ragionare insieme e arrivare ad un punto politico, ad una sintesi, invece oggi si fa e ci si va per confermare uno status, un linguaggio, un modo d'essere". Che poi è la stessa idea che ebbe Pierre Bourdieu: socialmente non si fa che esibire uno status, il proprio "capitale culturale".
    Non conosco il testo che citi di Franco Fortini (eppure mi sembrava che ci fosse una specie di revival negli ultimi tempi), se ti andasse di condividerlo, fammelo sapere che mi interessa molto leggerlo, in effetti in rete non si trova e, trattandosi di un articolo di giornale (se ho ben capito), probabilmente, come dici, neanche in libreria....
    Grazie a te Serena :)

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  3. Pensavo che il testo fosse stato inserito nel Meridiano di Fortini, e invece mi sbagliavo.
    A proposito di supercazzole gentilmente offerte dall'Accademia, ti segnalo questo fresco di giornata: http://www.dinamopress.it/news/la-riproduzione-come-paradigma-elementi-per-una-economia-politica-femminista

    Serena

    P.S. cosa intendi con volontarismo? Qual è la tua critica al femminismo queer?

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  4. Sono morto su "meglio tacere edizioni". :D

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  5. da far leggere a non pochi autori (e lettori) di doppiozero...

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  6. La domanda che mi poni è materia per un intero post, perciò devo dilungarmi un po’: abbi pazienza, è il rischio che corrono tutti quelli che mi fanno domande del genere ;p

    Il punto è che non mi piace questa deriva narrativa, questo gergo auto compiaciuto, questo sentirsi assolti e impegnati solo perché si usano parole come “pratiche”, “bio-oppressione/bio-qualcosa”, “resistenza” o perché si fa una performance. Mi sembra che certo modo di intendere la politica stia diventando un genere letterario. Che il motivo estetico abbia preso il sopravvento. Vorrei dire torniamo alla lotta di classe ma rischio di essere troppo banale.
    Il volontarismo è una critica che faccio al post-strutturalismo queer di Judith Butler, il quale trovo per molti versi interessante, ricco, necessario, per altri inconsistente, incapace di orientare il mondo oltre un certo individualismo ben pensato. Il queer parla di identità fluide, di linguaggi performativi, ma ci muoviamo sempre tra persone intese come atomi sconnessi. Il queer non parla di comunità, non parla di partecipazione, non parla delle classi sociali, non mi dice perché l’umanità dovrebbe mobilitarsi per la sua causa. Di qui il “volontarismo”. Né mi pare prenda posizioni su questioni politiche come il capitalismo o altro, al quale talvolta sembra addirittura somigliare (la precarietà esistenziale nel queer diventa una norma). E’ e si esaurisce in una narrazione, un po’ come la filosofia di Foucault – o almeno, come l’uso che ne viene fatto oggi. E’ il cosiddetto “post-modernismo”: si criticano le narrazioni forti in favore di narrazioni deboli, tuttavia quello che guadagniamo criticando le prime ci costa parecchio in termini di individualismo (e tanto altro).

    Io sinceramente penso che abbiamo bisogno di questo tipo di narrazioni, c’era tutto un mondo che non era stato ancora raccontato neanche dal femminismo, c’erano le relazioni da mettere in questione eccetera. Ma c’è bisogno anche di comunità, di partecipazione, di consapevolezza sulle condizioni materiali dell’esistenza. Lo stesso articolo che mi segnali è riconducibile anche a questa critica: c’è un gergo, un modo immaginifico e suggestivo di porre le questioni, ma non si va oltre una capziosa dichiarazione di emozioni. Non possiamo limitarci a un approccio culturalistico e linguistico, ed è qui che finora Marx, nonostante tutti i suoi limiti, si è rivelato insuperato. Dicono di superare materialismi e culturalismi, ma de che stamo a parlà? Il materialismo – non necessariamente quello di Marx – non può essere superato, per il semplice motivo che la realtà materiale esiste e dobbiamo farne politicamente i conti, quali che siano le narrazioni che facciamo.
    Come si capirà, in questo momento vivo una scissione profonda tra la mia anima postmoderna e la mia anima materialista. La mia esigenza di ripensare le identità e le relazioni non può esaurire una proposta politica. Il manifesto di Federica Giardini, che dice liberiamoci di questa dicotomia senza spiegare come (trovo il nome “paradigma riproduttivo” una scelta politicamente infelice), non me lo risolve, e non vedo al momento sintesi interessanti tra le istanze identitarie di genere/relazione e il problema materiale.
    Ho sconfinato dal problema del linguaggio oscuro, mi sa. Scusami se mi sono dilungata troppo…

    Frantic : )

    LK, Doppiozero pubblica articoli diversissimi, ce n'è di scarsa qualità ma ho letto anche cose interessanti. Non ricordo di aver letto cose oscure da quelle parti - poi, non so se hai esempi particolari.

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  7. Il tuo articolo è bellissimo ed esilarante, ci sono capitato per caso cercando proprio "oscurantismo" e "linguaggio oscuro" su google ;)

    Mi piace Doppiozero, per questo ho espresso questa critica, sono completamente d'accordo con te sulla deriva narrativa e il "gergo auto compiaciuto", che purtroppo - ma può essere un mio limite - noto anche nel suo Direttore editoriale e in generale in molti accademici italiani che provengono da studi letterari e che desiderano avere un peso più "filosofico" (fenomeno che noto per esempio anche negli architetti accademici, ma questo è un altro discorso). In generale noto una deriva oscurantista (o "oscurista", bel termine) nel panorama italiano e non solo. Faccio un esempio: la semiotica una volta voleva essere una vera e propria scienza e Umberto Eco per me è come un filosofo analitico molto colto e bravo nello scrivere. Oggi la semiotica è prevalentemente postmodernismo estetizzante. Un mio idolo intellettuale, Jon Elster, ha recentemente scatenato una polemica su questa tendenza in relazione ad un premio conferito a Julia Kristeva (http://www.nordforsk.org/en/news/holberg-prize-faces-criticism-550 ), e ha recentemente attacato anche l'oscurantismo "hard" delle scienze economiche (http://dio.sagepub.com/content/58/1-2/159.extract ), auspicando la nascita di una "bullshittology". Ho espresso queste considerazioni a margine di un articolo su Doppiozero (http://www.doppiozero.com/materiali/contemporanea/togliete-l-ubriachezza-e-avrete-il-filosofo-analitico ).

    LK (pseudonimo, non vorrei essere identificato da uno dei miei colleghi oscurantisti ed essere costretto ad una sessione di auto-critica)

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  8. Metti molta carne sul fuoco, LK, tutto molto interessante. Avevo letto quell'articolo di Doppiozero e l'avevo addirittura condiviso con delle persone. Ultimamente trovo che la diatriba analitici-continentali (su cui vorrei tanto leggere Franca D'Agostini la quale ci ha dedicato un libro, e lei a me piace molto) si sia inasprita, perché è come se si avvertisse l'esigenza di arginare questa cascata narrativa che ha invaso ogni sfera del sapere umanistico in modo sempre più insistente. Come ho detto, non mi piace quando il discorso - politico e non - è completamente colonizzato dal "postmodernismo estetizzante". Tuttavia, io trovo che anche la filosofia analitica cada nella deriva gergale. E nella bullshittology di cui parla Elster - seguendo una monda lanciata da Gerry A. Cohen molti anni fa, che definì semplicemente "bullshit" il marxismo non analitico - mi sembra potenzialmente rinvenibile la stessa tendenza. A parte che trovo arrogante ridurre a stronzata tutto quanto non si riduce ai tuoi parametri. Il tentativo legittimo di Elster di provare a spiegare la società in termini di individuo - il cosiddetto "individualismo metodologico" - potrebbe essere chiamato, non a torto, bullshit esso stesso, per svariate e fondate ragioni.
    L'autore dell'articolo di Doppiozero dice bene quando dice che la filosofia analitica vorrebbe "standardizzare tutto il linguaggio filosofico". E fa bene a sottolineare che per gli analitici, per esempio, la letteratura non è altro che finzione. Siamo d'accordo: ma il parametro argomentativo fortunatamente non è l'unico, io sono molto contenta, epistemologicamente vivo come una ricchezza la pluralità dei registri filosofici. Penso che certa filosofia sia ottusa sotto il profilo esistenziale (la filosofia analitica), il quale eccede i suoi schemini; come penso che certa filosofia sia insufficiente sotto il profilo argomentativo (la filosofia continentale), in quanto più che sostenere una tesi cerca nuove forme di narrazione. In questo momento, però, condivido il fatto che ci sia molto più bisogno di argomentazione, di logica, decisamente carenti nello spazio pubblico e filosofico; ciononostante, da questo non concluderei mai che l'argomentazione sia l'unica forma di discorso legittima o auspicabile - ripeto, è una ricchezza epistemologica il fatto che esistano più registri. Insomma, la questione è più complessa, secondo me, di come la ponga Elster (mi piacerebbe leggere per intero l'articolo comunque). Comunque grazie per i tuoi generosi complimenti e per il tuo stimolante contributo :)

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  9. Qualche tempo fa ho letto "Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj" di Nicola Lagioia.
    A me lui sta pure simpatico, avrei voluto che mi piacesse.
    Inizio a leggere e non ci capisco nulla. Eppure non è che nella mia vita abbia letto solo Peppa Pig, quindi vado avanti, ma la nube si fa sempre più fitta.
    Poi ho trovato un articolo su Satisfiction, sul nuovo romanzo candidato e finalista allo Strega, in cui viene definito un "radical flop". E allora mi sono chiesta se magari non fosse lui a voler essere troppo elaborato, sicuramente con un fine nobile, ma con un risultato non propriamente riuscito.
    Il problema, in questi casi, è che resta sempre il dubbio che a non riuscire a cogliere il valore siamo noi.

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    1. Non l'ho mai letto, se non qualche articolo su rivista che non ho trovato particolarmente memorabile, anche se trovo il titolo del libro che citi molto simpatico. Sul dubbio direi che sì, vero, però personalmente - forse per insofferenza - tendo a svalutare gli autori che me lo fanno pensare: questo pensiero mi distrae dal senso di quello che sto leggendo...

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