Appunti di Storia moderna

lunedì 8 ottobre 2012

Reggio, periferia della modernità nel film "Corpo Celeste" di Alice Rohrwacher

Scritto per terrearse.it

Alice Rohrwacher ha detto che con il suo film, Corpo Celeste, rivelazione del 2011 già premiata a Cannes, non intendeva veicolare un messaggio puramente anticlericale, ma raccontare che ne è oggi della vita di comunità. Reggio Calabria, periferia per eccellenza, è l’ambientazione prescelta per raccontare lo sclerotizzarsi della vita comunitaria in formule rituali stereotipate e relazioni sociali divenute quasi autistiche.

Con grande sensibilità narrativa, questa piccola comunità prende forma nello sguardo di Marta, 13enne che dalla Svizzera torna a Reggio Calabria con la famiglia. Nel suo sguardo si tocca con mano la contrizione, l’ostilità, la durezza di un percorso di crescita già difficile, quello della transizione dall’infanzia all’adolescenza - di una bambina che aspetta il seno e le mestruazioni, per una ufficiale sanzione d’ingresso nel mondo degli adulti. La vedi così, spaesata, con gli occhi pieni di domande, camminare fra gli scheletri edilizi di Reggio, le fiumare sporche e i ragazzi col berretto nero che caricano sulla lapa i rifiuti della Sorgente. Il brutto è lo sfondo di questo romanzo sospeso in una specie di mondo a parte, in questo relitto della globalizzazione, epilogo estetico di un contesto maledetto, strano, violentemente reale, incastrato fra tradizione involuta e una modernità kitsch.
Non moderna, non antica, Reggio è un non luogo quasi onirico, un brutto sogno, un che di mitico e primordiale mescolato agli echi deformi delle mode. Una terra irredenta, che non si stanca di pregare, che si perde nel pregare, e che prega insieme agli altri nell’atto stesso di dimenticarli. Terra dell’attesa che si dilata all’infinito, di un quotidiano che si ripete sempre uguale, quasi che dalla ripetizione in quanto tale scaturisse un significato, un valore. Uno spettro fuori dal tempo e da ogni spazio mentale, che in testa diventa una domanda, una grande, gigantesca domanda che ricade sempre insoddisfatta su se stessa.
Il film sembra puramente descrittivo, eppure riesce, quasi di soppiatto, a riempire questo sguardo vivo e interrogante di poesia - una poesia dagli accenti crudi e realistici che accennano al tragico; mai, nel raccontare, patetico o didascalico.
La coesione sociale è affidata a una ritualità senza senso, quasi grottesca, come mostra l’inizio del film, con la vara parcheggiata sulla fiumara, e il prete alle prese con un microfono rotto, che parla a una piccola folla di cui non gli importa nulla. Il vescovo, la vara, il parroco, la Cresima al più presto, “che così si toglie il pensiero“, l’entusiasmo decontestualizzato della catechista, sono i punti di riferimento di una comunità perduta, che sopravvive a se stessa aggrappandosi con le unghie al pallido riflesso del legame religioso-sociale.
Questi occhi pieni di domande ci portano nel retro della chiesa di quartiere, animata da donne devote e ragazzini svogliati, rispetto ai quali la tv è unica fonte di aspettative. Ascoltano meccanicamente, con le teste piegate, in aule sporche di umidità, col sole che filtra stanco dalle finestre, fra pareti imbrattate da cartelloni che inneggiano a dio e Gesù rinviando a contenuti che sempre ci si attende di comprendere, ma che nessuno ha capito, e che pure bisogna affrettarsi a ripetere per superare la prova.
In un’aria da primo pomeriggio asfittico, fatta di flemma e di sonno, prende forma il laboratorio del credere cieco e nozionistico che è diventata la religione, con ragazzi e ragazze pettinati male guidati da Santa, la catechista devota – quasi folle nel condurre la sua missione di trasmissione del Vangelo in forme impacchettate e stantìe, tutta dedita alla pedagogia di un’umanità raggrinzita e tradita in quelle. “Gli addolorati e gli agonizzanti”, per i quali si prega, sono i grandi assenti, come le relazioni, l’amore e il senso: essi sono come calcificati nella preghiera da mandare puntigliosamente a memoria. Marta chiede il significato di un’espressione nella preghiera, ma non è il momento, le viene risposto. Le domande sono buone solo per i quiz, nei quali si risolve, infine, il catechismo. Il pallido riflesso della fede diventa collante comunitario malriuscito, a tratti ottuso e demenziale, ed è lì che l’io nuovo e tutto da costruire di Marta deve formarsi.
Il simulacro di coesione ma anche l’autorità, e l’evidente inconsistenza di questa, si aprono allo sguardo interrogatore di Marta: non un’eroina, non superdotata, ma normale neoadolescente che affonda nella sua crisi evolutiva con tutte le scarpe, osservando senza pace lo scenario pieno di contraddizioni e privo di risposte che le schiude Reggio. Non ci sono piagnistei, solo un curioso osservare, che quasi non parla ma dice molto: ha negli occhi, sempre, la tensione di un esigente e smarrito interrogare. L’autorità è affidata al riuscitissimo personaggio di Santa, interpretato da Pasqualina Scuncia, attrice formatasi nell’humus locale (è stata tabaccaia per 20 anni in quel di Mosorrofa), grande rivelazione sul set.
Pasqualina rappresenta in modo credibile la donna febbrilmente indaffarata per la comunità, alle prese coi ragazzi, con le faccende della chiesa e la reverenza al parroco - ci ricorda quelle donne che fanno del darsi senza condizioni la cifra del proprio essere, così di fatto smarrendolo - un darsi tutta a tratti irrazionale, circolare, ansioso e contraddittorio, sin dall’inizio destinato al disincanto. Santa sembra una madre aperta e generosa, ma è una educatrice lontana, è madre delle formule, che sconfessa la promessa di accoglienza che le sue braccia aperte avevano inizialmente dischiuso.
Tutto è destinato a raggrinzirsi e a tradire le promesse, e il mondo dei grandi appare di volta in volta sinistro, debole e ipocrita. Legata ormai meccanicamente ai ragazzi del catechismo, infine irretita in un attivismo per gli altri ma poi, di fatto, senza gli altri, è lei che prepara l’orchestrina per far piacere al vescovo: mi sintonizzo con dio, è la frequenza giusta, è il ridicolo refrain dei pomeriggi al catechismo. Il conclamato sforzo di bontà e altruismo si risolve infine nel mero esercizio dell’autorità puramente autoreferenziale; in sterile ciarla meccanica, dove la verità e il senso sono vittime sacrificali; infine in infaticabile sforzo di salvare le apparenze.
E’ da questo mondo alieno, ostile, tutto da capire, che il parroco vuole scappare, prestandosi a un certo carrierismo fatto di strette di mano, visite alle famiglie, comizi elettorali, belle figure col vescovo. E’ negli occhi del parroco che si legge infine, non detto e non scritto, qui sono tutti matti, e la devozione di Santa e le aspettative del gruppo sono oggetto di commiserazione. Reggio non è il posto delle ambizioni, Reggio è non luogo irredento e irredimibile. Quindi, grande bacino elettorale. E’ così che, sembra dirci il film, la campagna elettorale può innestarsi facilmente nei gangli della ritualità sociale fatta di santini e aneddotica del miracolo, ritualità potenziata e accentrata nella figura di un parroco di fatto inconsistente, ma investita della credibilità a prescindere dell’uomo di Chiesa senza ulteriori specificazioni: unica entità capace di dare una risposta unificante a un posto che ne ha vitale bisogno, pur senza mai soddisfarla.
Il crocefisso da portare per il grande evento della Cresima – che è la bella figura col vescovo -, si trova in una chiesa abbandonata di Roghudi. Gesù è impolverato, appeso a se stesso in un paese fantasma. Ancora una domanda lo farà cadere, e Gesù tornerà solo, sostenuto dai frangiflutti dimenticati di Bova. Gesù era matto, era arrabbiato: è un altro parroco, guida di nessuna anima, capo spirituale di fantasmi, a dirlo. E Marta, stavolta, sembra capire – forse, è l’inizio di un percorso già latente di ritrovamento di un senso. La guida vera è dunque affidata al caso, in mezzo al deserto relazionale e, soprattutto, al deserto di risposte. Ché Reggio è dove non ci si chiede più dov’è dio – la risposta che aleggia immateriale e non detta, sembra: dio non c’è, abbiamo smesso di chiedercelo e comunque neanche ci importa più, ma resta il rito che assolve alla funzione, già perduta, dello stare insieme, contro la noia e la deriva della solitudine.
Curioso che lo sguardo chiarificatore, nell’affanno del percorso di comprensione che coincide con quello della costruzione dell’identità, sia affidato a una straniera: come se chi vi è dentro non potesse uscirne, e solo la distanza consentisse uno sguardo potenzialmente limpido sulle cose.
E qui torniamo alla vita di comunità. Non è un film sulla religione tout court, ma un film sulla vita insieme e sui riferimenti culturali di questa, sul darsi delle relazioni nella periferia della modernità, dove pratiche rituali vuote e figure investite ciecamente di un’autorevolezza che non meritano, detengono il monopolio dello stare insieme e dei valori, di cui non resta che la scialba caricatura. Il grande potere coesivo della società è, nella periferia dimenticata, la Chiesa, che coi suoi riti e i suoi ritmi scandisce il senso di un posto che, sembra, lo ha già perso. Al contempo, il film ci mostra il lato, come ha dichiarato Rohrwacher, “corporeo, umano” della religione: il suo radicarsi nella vita sociale, la sua funzione unificante, ma anche il suo cortociruito e il suo esaurirsi in disperato simulacro del legame sociale.
Il Sud che emerge da Corpo Celeste è un Sud disperato e senza redenzione, che non esaurisce il Sud ma ne racconta una parte viva e vera, quella che fa di noi un caso antropologico ma anche, potenzialmente, un percorso esistenziale e, si spera, politico. Questo Sud può essere, infatti, la sede d’osservazione paradossalmente privilegiata per prendere coscienza, sullo sfondo di un’identità in via di costruzione, sospesa fra paesi fantasma, crisi, dietrologie politiche e un dio che nello zelo delle forme è proprio il grande dimenticato, insieme a tutto quel che dovrebbe rappresentare. Mi viene in mente un’immagine di Tolstoj, quando il protagonista di Resurrezione – sorta di Gesù redivivo – rimbrotta la sua gente, cito a memoria: smettetela di idolatrare dei simboli e amatevi fra di voi.
In riferimento alla città, il film restituisce una parte di Reggio reale, una Reggio sede e metafora di profonde contraddizioni, che non risolve, riproducendole ciecamente all’infinito: come periferia d’Italia e della modernità, ma anche, metaforicamente, delle relazioni e del senso.


1 commento:

  1. una bellissima recensione, pregnante ed efficace, fedele specchio della situazione attuale.

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