Appunti di Storia moderna

venerdì 28 settembre 2012

Sul serio

Tanto spesso si dice: non prendere le cose troppo sul serio. Ridici sopra. Sorridi alla vita, lei ricambierà. Eccetera eccetera. I tentacoli di questa scuola impersonale di pensiero imperversano ovunque. La parola d'ordine è: ottimismo.
Siamo al tipico esempio di ottimismo-a-prescindere: immotivato, irrazionale, vitalistico, puramente emotivo. L'ottimismo deve piuttosto diventare politico e cognitivo: deve diventare idea che è possibile fare andare le cose in un certo modo, possibilmente bene. Che è possibile, cioè, condizionare l'andamento delle cose, prenderne le redini e così essere autori del proprio mondo.
Quindi, quando si invita a non prendersi troppo sul serio, il vago e romantico ottimismo sotteso andrebbe sostituito con un radicale ottimismo, da prendersi, però, profondamente sul serio.
Oggi noto che c'è una leggerezza generalizzata nell'affrontare ogni genere di questioni. La persona colta e il semianalfabeta condividono in questo lo stesso sentimento. E questo è fatale. Altro che di esortazioni alla leggerezza abbiamo bisogno: la leggerezza già detta legge, ed è, per dirla con Calvino, di un pesante. Bisognerebbe piuttosto esortarsi alla pesantezza, detto con un termine improprio che scredita il concetto. Con pesantezza intendo attenzione, focalizzazione, progetto, mettersi in gioco con coerenza, prendendo sul serio le parole e i fatti e l'azione. Tradotto: nessuno - pochissimi - ci crede davvero. Interessarsi a quel che accade intorno, lo fanno in tanti, in pochi credono davvero che sia possibile cambiarlo: quand'anche lo pensino, non prendono radicalmente la questione sul serio.

Si finisce col far battute, col motteggiare sullo squallore, col dire "tanto si sa come vanno le cose", col sospirare, col buttarsi sui gratta e vinci (gesto simbolo della rinuncia), col pensare al proprio, magari schiacciando gli altri in questa generale guerra tra poveri fatta di invidia & competizione corrosiva, col riderci sopra, con lo scrollare le spalle. Tutto ciò è politicamente deleterio.
Quando si parla di Sud, quando si parla di disoccupati & precari, quando si parla di studenti e di totale assenza di diritto allo studio (vi è semmai un suo pallido simulacro), quando si parla di donne e di sessismo, di immigrati, di corruzione politica e miopia istituzionale, di inesistente meritocrazia, di gerontocrazia e quant'altro: se ne parla, ma non si prende veramente la questione sul serio.
Questo è connesso con il clima generale, che non è prerogativa del nostro tempo storico: ciascuno pensa al suo. Non smetterò mai di sbalordirmi all'idea che tantissime persone non concepiscano che ciò che succede loro attorno le riguarda direttamente. Moltissima gente, anche parecchio istruita, che avrebbe tutti gli strumenti per leggere la realtà e per guardare con curiosità agli avvenimenti attuali, beatamente se ne infischia. E' questa la grande palla al piede del mondo; è questo il bacino di consenso prediletto dai governi. Quella fetta di popolazione che si è autoesclusa dalla politica - anche già nel mero disinteresse alle questioni - ha l'inconsapevole, enorme potere di spostare l'ago della bilancia del mondo da una parte o dall'altra, costringendo tutti (se stessi compresi) a farne le spese. Anche l'associazionismo più vivo, quel tipo di partecipazione disinteressato e attivo che agisce in vista di determinati obiettivi, di cui né i partiti né le istituzioni pagate per farlo si fanno carico, svolgendo in tal modo attività di assoluta importanza, finisce per cadere in questo non crederci quando in esso si intrufola la diffidenza, il proprio microcosmo, la rivalità, il chi al posto del cosa.
Figurarsi una volta. Pensiamo ai primi anni del '900. Pochi erano quelli che avevano gli strumenti culturali per leggere le cose, interessandosene, giudicando, prendendo posizione, credendoci. Eppure nei primi anni del '900 sono successe tante cose - non erano, dunque, tutti, ma pochi, ad agire, ed era un fermento culturale già vivo, latente da tempo, a spingere in quella direzione. Dunque quando mi si dice: non gliene fotte niente a nessuno, e mi si usa questo argomento per inferire "cambiare le cose è impossibile", si compie una dubbia operazione logica oltre che una piccola grande trascuratezza storica. Le ingiustizie non si sono mai concluse perché intere masse di persone si interessassero in blocco, coese e uniformi, alla cosa pubblica: la Rivoluzione Francese non l'ha fatta tutta la Francia, ma percentualmente una fetta molto piccola della Francia, per abusare a mia volta di un paragone sempreverde, ma molto significativo.
Per mobilitare le masse - per far sì, cioè, che tutte le persone agiscano insieme per uno scopo, sia esso la guerra o la rivoluzione o un grande progetto rivendicativo, per far sì quindi che tutte le persone siano d'accordo, nella storia ci sono voluti parecchi espedienti: perché sistematicamente, i più se ne infischiavano. Oppure, semplicemente, mancava loro quella piccola, semplice, lampadina, che getta luce di là dalla staccionata del proprio microcosmo. In questo senso l'ottimismo deve essere cognitivo e politico.
Oggi che l'istruzione è diventata di massa, sembrano relativamente scarsi gli effetti politici di questo pur nuovissimo fatto - in relazione a questo discorso. Non c'è più la giustificazione dell'ignoranza. Basterebbe aprire gli occhi, ma sembra estremamente difficile. Ci sono due considerazioni da fare. L'istruzione molto spesso non è umanamente formativa: a scuola non si impara a imparare, non si apprende la curiosità, non si apprende che l'oggetto di studio ci riguarda, e questo è dovuto non solo e non tanto al generale insufficiente sistema didattico - ma, per esperienza diretta, direi proprio all'inconsistenza di molti docenti, che non hanno capito essi stessi il risvolto politico del sapere, l'importanza della curiosità e il carattere decisivo della cultura intesa come vitale interesse per il mondo. Oggi molti docenti dànno un pessimo esempio di nozionismo e sfoggio di cultura in chiave esibizionista e competitiva: pura forma, pura apparenza. Ho visto docenti prendere la parola in pubblico solo perché in competizione con altri docenti, fare sfoggio narcisista di latinismi, perdersi in calcoli relazionali latenti e in sgomitamenti a chi piace di più al capo. Tutto ciò è connesso: altro che digressione - la totale assenza, poi, della dimensione civile nei percorsi didattici, se non ridotta al codice stradale e alla retorica stantìa, poco motivante e scarsamente contestualizzata, delle "regole", fa il resto.
L'altra considerazione è che oggi tra l'essere istruiti e l'aprire gli occhi c'è l'abisso dell'intrattenimento. Di fatto è innegabile che all'istruzione di massa corrisponda una distrazione di massa - che la seconda sia in grado di neutralizzare il potenziale politico della prima. Così il capitalismo si è conquistato il mondo: con il benessere, con la *libertà del consumo* - questo è il suo più forte bacino di consenso. Nessun sistema economico precedente al capitalismo aveva mai portato alla massificazione del benessere, all'accesso, cioè, di un gran numero di persone a un soddisfacente potere d'acquisto - ciò in proporzione rispetto al passato, dato che lo sanno anche i bambini che in realtà il benessere e la ricchezza continua a essere monopolizzata da una fetta molto piccola di mondo - segnatamente l'Occidente.
Questa cortina di ferro culturale, posta lì, davanti agli occhi delle masse oggi istruite, contribuisce a indebolire quello che già era debole. Il paese dei balocchi, la media sicurezza quotidiana che, per lo meno, fino alla scorsa generazione era tipica delle famiglie italiane, toglie il terreno per uno sguardo oltre il naso dello stipendio a fine mese, la macchina, l'appartamento, la famiglia. 
Ma al di là di ogni sbrigativa diagnosi, voglio dire che questo non è un buon motivo per essere meno ottimisti. Anzi. La situazione disastrosa richiede, anzi esige, ottimismo - nel senso di cui sopra.
L'istruzione, ma anche le spropositate possibilità di comunicazione di oggi: entrambi fattori che potrebbero veicolare un progresso civile, si rivelano, di fatto, deboli. Molto spesso l'informazione, condotta nei modi spesso di dubbia consistenza etico-civile, porta assuefazione, sicché la gente ne ha viste troppe e smette - se mai ha iniziato - di interessarsene, sbadigliando fra cronachismi d'assalto e barbose questioni istituzionali. Questo voltafaccia del cittadino o della cittadina fa la differenza. Se tutti prendessero sul serio che, ad esempio, una regione come la Calabria che vanta i più illustri indagati e arrestati nelle sue istituzioni più rappresentative, costoro sarebbero già a casa - anzi, nelle dovute sedi carcerarie - e non vi sarebbe neanche la possibilità stessa che altra gente del genere possa mettere il culo in poltrona e giocare con i fondi pubblici (prodotti dalla gente che lavora) come a freccette.
Tutto ciò non avrebbe potuto neanche esistere, se più di una sparuta minoranza avesse preso la questione sul serio. Per farlo, ci vuole orgoglio e ci vuole attenzione. La distrazione e la disistima cronica dei meridionali, rendono, fra l'altro, questo possibile.
In ogni caso questa griglia si può applicare anche a tutti gli altri. Che il primario interesse dei partiti e di certi loro rappresentanti siano i malloppi da cento e non il compito estremamente serio che svolgono per la comunità (per deontologia, per il futuro, per la vita, per l'economia, per l'intelligenza, per la dignità umana), e tutto ciò avvenga *indisturbato*, in tutte le salse, da più di un secolo in Italia (anche quando i partiti si finanziavano privatamente: e lì altri danni, altri arraffismi), deriva evidentemente dal fatto che l'assuefazione, fra l'altro, abbia portato a non prendere la cosa sul serio.
E intanto, mentre lo Stato succhia soldi ai cittadini senza restituirgli indietro che calci nel sedere  e al contempo impartisce mediaticamente lezioni di vita, accusando la mia generazione di bamboccionismo, i meridionali di arraffismo (senti chi parla) e inettitudine, eccetera - noi si sta qui, in autunno, come le foglie sugli alberi. Lo Stato chiede, chiede, chiede, e poi, non si vergogna di usare i soldi delle persone per puttanate. Come si chiamava? Ah, democrazia.
La neoaristocrazia oligarchica di oggi si riempie la bocca di "demorazia", "costituzione", "diritti", "modernità", "libertà", e questo riempirsi la bocca di retorica della democrazia è una delle più importanti differenze dalle oligarchie del passato, quelle che a scuola ci insegnano, ora che siamo moderni, a pensare propria dei brutti e cattivi - che ora non ci sono più, s'intende!. Quelle lo dicevano, questa no. Si chiama ideologia. Il suo sottofondo musicale è sempre lo stesso: se il disoccupato è tale è per colpa sua, se le donne sono escluse è perché si sa, è naturale, se il sud è arretrato è perché se lo merita, ecc. in un instancabile e preteso innocente esercizio di alterazione della realtà, che, strumentalmente, fa leva sui nervi scoperti dell'attualità, fornendone una lettura fortemente ideologizzata, pur ammantandola di normalità - tanto che alla fine la gente (= quelli presi di mira) ci crede e ripete lo stesso ritornello.
Anche l'attivista politico più illuminato e più impegnato ha tutta l'aria, sotto sotto, di non crederci lui stesso.
Manca un atteggiamento: il calarsi del tutto in un progetto e nel difenderlo, con consapevolezza e sicurezza.  No: ci si cala nel progetto fino all'inguine, e il resto rimane fuori, così da poter balzare sulla battigia se le cose remano contro (tipo, il "tanto se ne fottono tutti"). Con prendere sul serio, infatti, intendo proprio questo: quella molla che scatta e traduce l'interesse e la partecipazione in desiderio di agire - in progetto consapevole e perseverante.
Altro che leggerezza, quindi. Ce n'è troppa. Troppo ottimismo di terz'ordine. Non credo che possiamo continuare a permettercelo.


2 commenti:

  1. Sono sempre di più una tua fan (vale anche per il post precedente):D
    Questa specie di fatalismo indifferente, sia nella varietà piagnona che in quella scanzonata, alla lunga, sembra creare una cappa di rassegnazione e di apatia. A volte lo sento come un peso fisico, un grigiore (altrui, ma che condiziona anche me) che non riesco a scollarmi di dosso. Per fortuna che ancora c'è chi riesce a incazzarsi e che, dopo essersi incazzato, prova a far qualcosa di produttivo.

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  2. Contenta di non essere sola a pensarla così. Non riesco più a liberarmi di queste riflessioni: mi tornano ovunque, in ogni contesto alla fine devo fare i conti con questa palla al piede che è il fatalismo. E' grazie al fatalismo, fra l'altro, che siamo governati/e da gentaglia e che le risorse del Paese sono ripartite in modo arbitrario. Della valenza politica dell'atto di incazzarsi sono sempre stata convinta. Cosa c'è di più politico della rabbia? W la rabbia, purché non sfoci in sterile astio e diventi progetto, come dici.

    Poi beh, avere fan di cui io sono fan a mia volta è una bella soddisfazione ;)

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