Appunti di Storia moderna

venerdì 12 novembre 2010

Tra semiotica, mercato e pretesa attualità: Nichi Vendola

Scritto per liberareggio.org

I politici e la politica costituiscono oggi più che mai oggetto di studio privilegiato per studiosi e studiose della comunicazione, un fecondo campo semiotico – date anche le caratteristiche progressivamente mediatiche della politica. Prolificano tesi di laurea sul linguaggio di Berlusconi, dibattiti sulla gestualità di Obama e editoriali sull’efficacia retorica di uno Zapatero, le librerie si affollano di testi illuminanti, da Le parole del potere, Il potere delle parole1 al recente Verità avvelenata di Franca D’Agostini2 a Il linguaggio e la retorica della nuova politica italiana: Silvio Berlusconi e Forza Italia3, giusto per fare pochi esempi. Una recente puntata dell’Infedele di Gad Lerner ha cavalcato l’onda ospitando gente del calibro di De Mauro e intellettuali stranamente in top ten come Carofiglio, affiancati da dubbi personaggi – tale Amicone esponente intellettuale del Trash barbaradursista, nonché un Travaglio sempre più necessario per motivi di audience (…senza polemica) – che interrogati sul tema, più o meno, “linguaggio e politica in Italia”, hanno persino dato vita a una discussione di livello medio-alto in televisione sulla deturpazione linguistica cui l’Italia, e aggiungerei il primo mondo tutto, va progressivamente incontro.
Dalla monopolizzazione indebita di concetti per così dire intrinsecamente super partes come “amore” e “libertà” per mano di alcuni partiti, alla semplificazione bruta di ogni sfera semantica attraverso la comunicazione per slogan inaugurata dalla pubblicità e fatta propria dalla politica, durante la trasmissione è emerso un panorama culturalmente agghiacciante (con sullo sfondo un volto berlusconsimile sorridente – un sorriso industriale, uno di quelli se sei triste e ti manca l’allegria, formato marketing scafato) e con una soundtrack non meno da brivido: la statistica degli analfabeti in Italia (66%, percentuale che fa la differenza ai seggi) citata con perversa voluttà dal linguista.
L’ondata accademica testimonia non solo, forse, di una moda, ma anche di una imponente novità concettuale: la comunicazione e la politica, da sempre stretti in inscindibile nesso, oggi sono avvinghiati in maniera più stringente e necessaria. La novità è che esistono i media che amplificano sistematicamente la comunicazione, così condizionandone implacabilmente la natura. E i media hanno a che fare col mercato in maniera ben più determinante di quanto possa avvenire presso altri settori produttivi.
Mi si perdoni il citazionismo spinto, ma già Schumpeter intuì bene come tra mercato e politica vigesse un nesso che va oltre il semplice sospetto. I criteri comunicativi, così come quelli elettorali, risultano sempre piu insistentemente sovrapporsi alle prassi di mercato. Sembra che una selezione (in)naturale abbia spinto implicitamente a credere, col tempo, che l’approccio del mercato fosse quello vincente, tale da meritare di essere trasferito presso tutti gli altri ambiti della vita umana. L’assoggettamento della politica alle dinamiche presunte autonome, “naturali”, del mercato, ne fa, come ebbe a dire Foucault4 [sic!] una sorta di “luogo di verità” che gode della soggezione di tutto il resto. Il dualismo politica-mercato (o vita-mercato, ecc) ha preso forma asimmetricamente: il secondo manipola, definisce, condiziona fino a sfigurarla, la prima. Dalle relazioni alla cultura, alla, appunto, politica. Sino a cancellare il confine che separa l’uno dagli altri, e così l’esistenza stessa del dualismo: dalla contaminazione linguistica e culturale alla soggezione politica il loro rapporto ha smesso di pensarsi duale, composto cioè da due soggetti distinti. Da questo punto di vista la regressione linguistica della politica che ricorda la prassi comunicativa per slogan delle pubblicità è l’effetto diretto della loro intima osmosi.
Esempi? No, non (solo) l’amicizia di un Lele Mora coi pezzi grossi dell’imprendit…ehm, della politica italiana; ma, per limitarci all’aspetto comunicativo, il criterio della priorità dell’effetto nella comunicazione, che secondo Umberto Eco5 contraddistingue il Kitsch nella cultura di massa, che è stato trasportato di peso dall’industria culturale alla politica secondo un processo contaminativo che ricorda la diffusione epidemica di certi virus incalliti.
Esprimersi per slogan per vendere un’idea piuttosto che per argomentarla, comprarla perché di-vertente anziché accettarla in quanto basata sui migliori argomenti, parlare per suscitare reazioni prima che per comunicare contenuti, ne sono solo alcuni esempi. E’ così che ha cominciato a farsi strada, per dirne una, la prassi dello-spararla-grossa. L’effetto è garantito, il concetto meno. Ma lo sparagrossismo è solo la punta dell’iceberg di uno smagrimento crescente della cultura, perpetrato in pillole, parole ridotte semanticamente all’osso e ministeri.
L’erosione della complessità e varietà semantica in favore di segmenti verbali immediatamente prensibili e al contempo efficaci è l’attestazione più evidente del fatto che tra pensiero e linguaggio esista un nesso funzionale – nel senso che l’uno definisce le possibilità dell’altro; per cui all’espandersi dell’uno si espande l’altro e al restringersi dell’uno…l’altro muore ammazzato.
In un tale contesto di depauperamento linguistico-verbal-culturale imperversante (non ci stancheremo mai di dirlo), verrebbe da domandarsi, che ruolo ha Nichi Vendola? Uno che nel discorso – come scrive Giovanna Cosenza in un suo breve ma illuminante post – “mette assieme Cristo in croce e «Bella ciao», Aldo Moro e il subcomandante Marcos, Feuerbach e Vandana Shiva, Marx e la Bibbia, gay pride e femminismo, taranta pugliese e social network, Sud Sound System e melodramma italiano, favole di provincia e prospettiva globale”?
L’accostamento ardito dell’inaccostabile operato da Nichi si dipana su uno sfondo retorico che lascia pochi dubbi quanto ad anacronismo. Ma anacronismo è un concetto ideologico: ciò che non risponde ai criteri comunicativi e ideologici attuali, ovvero alla moda, alla modernità in senso appunto ideologico, è anacronistico. Il monopolio dell’attualità se lo sono preso i magnati del mercato e della politica e tutto il sistema che ne deriva: non essere come loro, non parlare come loro, significa essere anacronistici, outsider. Perché no: sospetti. E’ in questa luce che va considerato l’anacronismo di Nichi Vendola: come una diversità polemica, forse paradossalmente più attuale dell’attualità dei magnati, che subisce la delegittimazione ideologica di chi ha il monopolio dell’ideologia.
Così, se Giovanna Cosenza può rimproverargli una “retorica dell’accumulo”, una specie di paradigma discorsivo che si ripete ad ogni comizio costituito da un climax retorico-populista di emotività, forse è il caso di osservare la traccia patetica che emerge dal parlare vendoliano da un’altra prospettiva, chiedendoci ad esempio: possiamo rimproverare, prima, il depauperamento linguistico attuale incarnato fra gli altri dalla figura di Berlusconi, per poi mal tollerare l’articolatezza, la ricercatezza, se vogliamo l’arditezza semantico-verbale di un Nichi Vendola?
In particolare, Cosenza inviterebbe Vendola a usare slogan piu’ stringati “e densi”. In effetti, forse sarebbe più efficace, nel senso di prensibile ai più. Resta che forse è da salutare positivamente una sintassi arzigogolata, “involuta”, proustiana se vogliamo, in un contesto generalmente regredito allo schema di soggetto+verbo+complemento+punto e sorriso prestampato; specie se le parti del discorso contengono il refrain di parole come amore e libertà, il massimo linguistico – ma non concettuale – a cui possiamo aspirare.
Su Vendola (anche noto come “quello con l’orecchino”, per dirla con Roberto Castelli) pesa come un macigno lo stereotipo del sinistrorso culturalmente raffinato, quello che parla alla gente usando paroloni, e locuzioni riesumate dal Capitale o dai libri inediti di Honoré de Balzac o di qualche romanziere squattrinato dell’ ’800, ricordando con le lacrime la semplicità delle campagne pugliesi degli anni ‘70. Uno così è automaticamente delegittimato da quelli al-passo-coi-tempi, quelli al passo, cioè, con la povertà concettuale sì ma branded. (E la esse moscia di Nichi, detta anche aulicamente zeppola, non è in questo contesto da sottovalutare. La esse moscia riporta l’astrazione del discorso alla brutale e innegabile realtà della sua provenienza dentale, palatale, labiale, nasale. Nonostante tutto, siamo umani, sembra dirci quella esse morta sul nascere). E’ vero, tornando a Nichi, come dice Cosenza che a chi lo ascolta non resta che scegliere tra feticismo del capo e afasia. D’altronde, una eleggibilità basata su motivazioni razionali diventa di giorno in giorno un vecchio ricordo, e il feticismo è subentrato da tempo alle valutazioni politiche soppesate come effetto diretto della personalizzazione della politica.
Pur tuttavia solo un Nichi Vendola, in quanto esponente istituzionale felicemente anacronistico, poteva dare a una telespettatrice annoiata come me, la gioia di assistere alla dialettica tra potere operaio e capitale in prima serata in una rete nazionale (La7), una dialettica riproposta in chiave moderna – tra la Presidente dei giovani di confindustria e i piu anacronistici del momento (sindacato Fiom) con in mezzo lui: Nichi. Mentre la presidente enumera sbuffando i lacci che frenano il boom dell’industria italiana, lacci umani e burocratici, che per esempio in Cina non ci sono, e-loro-sì-che-sono-più-avanti, il Nichi mi esplode nel rimbrotto che questo grosso limite alla crescita industriale è uno, e si chiama essere umano: beh, mi sono commossa. Qualcuno non ha paura di apparire retorico, non ha paura di usare termini “vecchi” solo perché l’ideologia postcapitalista li ha totalitaristicamente resi tali all’apparenza. Perché a sentire la Presidente, quasi quasi ci si doveva vergognare di un concetto obsoleto come “diritti dei lavoratori”.
L’ideologia del nuovo, anzi dell’innovazione, è quella che frega tutti quanti non vantino un background culturale solido come quello di Nichi, per esempio. Chi non legge, chi non si appassiona alla conoscenza, si farà sempre raggirare dalla retorica del “parla come mangi”, intrinsecamente collegata allo svuotamento culturale in atto.
Detto questo, ora, per un attimo, pensiamo al leghista. Il suo linguaggio combina senz’altro immediatezza con articolatezza, sia pure su uno sfondo fonico lumbard. Il leghista è vincente perché sa coniugare linguaggio istituzionale e dito medio, insulto e vocabolo letterario, gesto dell’ombrello e apparenza decorosa. E’ in questo paradosso che risiede la chiave del successo, oggi.
Note:
1 F. Santulli, Le parole del potere, il potere delle parole. Retorica e discorso politico, Ed. Franco Angeli, 2005
2 F. D’agostino, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, 2010
3 A. Benedetti, Il linguaggio e la retorica della nuova politica italiana: Silvio Berlusconi e Forza Italia, ERGA, 2004
4 M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 1998
5 U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, 1964

2 commenti:

  1. "...il Nichi mi esplode nel rimbrotto che questo grosso limite alla crescita industriale è uno, e si chiama essere umano: beh, mi sono commossa."
    io pure.

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  2. http://lastanzadicandaules.blogspot.com/2011/05/la-tigre-e-il-pipistrello-riflessioni.html?showComment=1304522966609

    http://rangiolani.blogspot.com/2011/04/le-parole-del-processo-lungo.html

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