Scritto per strill.it
Il reggino non è un aggettivo che designi la sola provenienza geografica, bensì una categoria esistenziale trasversale a ogni tempo e luogo - ben oltre gli angusti orizzonti dello Stretto. In ragione di ciò anche un veneto o un siciliano, o un islandese possono essere reggini.
La complessa fenomenologia che lo caratterizza può essere descritta guardando al mondo animale, da sempre ispiratore di grandi spunti fisiognomici: se il romanaccio è paragonabile a un jaguaro, il milanese a una formica, il reggino, ebbene sì, collima straordinariamente con il bradipo. Più precisamente il reggino nasce dal bizzarro incrocio tra un bradipo e un mulo, accoppiatisi a ridosso di una pianta di Bergamotto. Lento e cocciuto, egli va per la sua strada, ovvero per Sbarre Centrali, Via Gebbione o Pentimele. Il passo è felpato nella misura in cui si trascina, lo sguardo è loffio, l'aria disillusa, e, non meno evidente, spesso reca un ghigno di disprezzo sulle labbra indirizzato indistintamente a tutti.
La caratteristica dello “strascico” nella deambulazione come nell'espirazione si riflette, come ogni cosa, anche nel linguaggio. La fonologia del Nostro presenta infatti aspetti unici al mondo. In primo luogo, egli condivide con i siciliani una certa, come dire, generosità nell'apertura delle vocali, che effonde dalle labbra come una finestra travolta dal vento. Le vocali spalancate e trascinate a forza da una consonante all'altra inciampano su improbabili doppie e triple che i dizionari canonici non menzionano, scalciando su uno sfondo nasale senza eguali - nulla da invidiare, del resto, alle vocali taccagne schiacciate tra le consonanti (sdrucite) del bergamasco.
Come per il bergamasco, anche per il reggino il linguaggio è rivelativo di una specie di essenza. Esiste infatti un'espressione che egli usa straordinariamente spesso, che lo racconta fino in fondo: che ne è, come dire, lo slogan più rappresentativo. Tale espressione, sempre in barba a ogni dizionario, risponde ai seguenti fonemi: “vabbò”. Si provi a passeggiare sul Corso Garibaldi, o sul Lungomare Falcomatà, magari in un ameno pomeriggio d'estate: si ascolterà il vabbò rimbalzare senza sosta da una fauce reggina all'altra.
Il reggino dice “vabbò” in occasione delle elezioni, dei problemi del quartiere, delle notizie che apprende dai giornali, dell'inciviltà del vicino di casa, e della sua. Ogni problema per il reggino trova il compimento piú perfetto in quell'espressione, quella parolina magica dal valore esorcizzante – traducibile (e nobilitabile) in francese con un più chic mais oui, laissez-faire.
Non c'è se te ne fotti ti fotti che tenga. La mente del reggino scavalca rapidamente, così in effetti tradendo la sua essenza bradipa, un simile slogan. La potenza del suo laissez-faire è ben piú consolidata di ogni neologismo o inversione di tendenza morale, e schiaccia tutti i possibili controslogan con la sola forza della sua cocciuta tradizione. Non dobbiamo infatti fermarci al solo aspetto linguistico del vabbò: vabbò è uno schema mentale, un approccio esistenziale, fa parte della persona nella stessa misura in cui ne fa parte un pancreas o un rene, oppure i gusti personali e il segno zodiacale.
All'insegna del vabbò, gli eventi per lui sono sempre fatali, nel senso che esclude preliminarmente di potervi incidere. Se l'azione politica è il contrario del fatalismo, se la militanza è l'opposto del destino, per il reggino le cose che accadono sono paragonabili a un fiume che gli scorre incessantemente innanzi, che, appoggiato a una siepe, contempla indisturbato - con le palpebre aperte a metà. Non si direbbe, eppure tale atteggiamento evoca vagamente il grande stoicismo greco : quello del reggino è infatti uno stoicismo sui generis, una specie di riadattamento moderno in chiave, come dire, brutalmente “me-ne-fotto”. Come ogni parodia, anche quella riservataci da Rocco Barbaro contiene allora, al fondo, strazianti verità.
Egli non decide mai i fatti, ma è deciso dai fatti, che si dipanano su di lui non essendo dipanati da lui. E la lagna succede, con l'incoerenza piú paradossalmente coerente che esista, a questa abdicazione colossale della volontà. Qualcuno ha ravvisato del masochismo in questa dinamica apparentemente innocente: il reggino decide i fatti proprio non decidendoli, per provare il piacere perverso, dopo, di lamentarsene come di una fatalità che gli è piombata addosso. Una lagna catartica e portatrice di grandi espiazioni. Un po’ come nel rito dell’autoflagellazione, benché epurato dal suo sfondo religioso: lo sfondo, infatti, è brutalmente terreno (in virtù del vabbò di cui sopra).
Di quello che lo circonda egli non è mai responsabile; la responsabilità è un concetto troppo filosofico per un tipo umano che non va mai oltre il breve termine in tutto, in un pervertimento radicale dell'oraziano hic et nunc: il qui ed ora per il reggino non sono una sfida morale, la chiave della libertà, ma l'orizzonte angusto in cui azione e pensiero giacciono agonizzanti. Non c'è, forse, meccanismo morale più controverso nella storia del genere umano.
Il reggino non ha molta stima di se stesso. Diremmo che non si ponga neanche il problema, il quale però riemerge ogni qual volta per disprezzarsi e disprezzare la sua città ricorra ad esempi di irreprensibile moralità settentrionale, o continentale. Il meglio, la perfezione, è sempre lontana e inarrivabile, proprio come le chimere nei vecchi miti. Ed è così, alimentando gli stereotipi ottimistici sul Nord-Europa, che contribuisce a rendere piú fatalmente definitivi quelli pessimistici del suo Sud. E' allora che si esprime sprezzantemente, e sospirando con stanchezza, in termini del tipo: eh, simu a riggiu! o chisti simu, sempre fedele allo stesso campo semantico, che è poi un’ideologia: quella del vabbò.
Non a caso è possibile ricondurre la categoria esistenziale del reggino alla macrocategoria dell'italiano-che-tiene-famiglia. Se infatti il reggino è estremamente italiano, l'italiano contiene in sé il germe del reggino, benché le due figure non si sovrappongano del tutto. (Pare infatti che nel margine che resta di questa sovrapposizione che prolifichino le differenze antropologiche tra i tipi umani delle varie regioni d'Italia).
Eppure, egli prova un sia pure bizzarro senso d'appartenenza, diverso, certo, dal feroce patriottismo kitsch tipico di un leghista, ma comunque intenso almeno quanto quello. Il senso d'appartenenza del Nostro si manifesta però solo quando dall'amatodiata città si allontana. Solo a distanza, cioè, si ravvisa delle straordinarie e insospettate doti della propria terra, d'ora in poi (prima no) senza eguali nel mondo. Ed è così che egli si ammala di un morbo solo recentemente identificato dagli scienziati: la Sindrome del Reggino. Nostalgia, idealizzazione di ciò che prima era denigrato, depressione, crisi di identità, convergono nell'anima di questo eterno straniero del mondo. Che d'altronde, ci pensa più di due volte prima di tornare… Reggio è bella solo vista da lontano.
Tuttavia, esistono alcune zone franche, per così dire, nella fenomenologia del reggino, non infettate dal gene del laissez-faire, che sono essenzialmente due: il cibo locale e la squadra di calcio favorita. Lì le vocali, benché sempre spalancate, si illuminano e rincorrono con inconsueta leggerezza le consonanti, lì al vabbò subentra la gioia o la rabbia, la propositività e l'azione, la voglia di vivere e l'autostima. Lì non c'è Nord che tenga, perché gli altri non competono, e lo stoicismo stile “me-ne-fotto” diventa attivismo e militanza.
In cucina e allo stadio, dunque, nel reggino si assiste ad un'autentica mutazione genetica: la superstizione e il vittimismo, convergenti nell’autoflagellazione, si volatilizzano rapiti dall'odore del satizzo o da un gol di Cozza. E non è un caso che in occasione delle partite della squadra il Granillo sia avvolto da un piacevole lezzo di salsiccia arrostita: grande è la potenza simbolica della scena. Parimenti da non sottovalutare in questo senso è la Festa della Madonna, unica occasione che vede (accanto, forse, alla notte bianca o a una catastrofe naturale) il reggino aggregarsi volentieri in massa coi suoi simili, in una sorta di rinascita sociale - ma non azzarderemmo dire politica.
Perché, di grazia, è questo il solo reggino possibile, il solo reggino che esista? In che punto finisce il cliché, lo stereotipo, e dove inizia la realtà? Il confine è molto labile. Certo è che ogni stereotipo contiene al contempo grandi verità e clamorose menzogne.
Per ora, basta guardarsi in torno, sembra che vinca questo reggino, ma chi sa che un giorno non si aggiudichi la rappresentanza un combattivo, un patriota, un cialtrone, un virtuoso, o chi sa.
Con la stessa potenza, o meglio potere, del suo vabbò, il suo atteggiamento si riconferma infatti totalitario anche nelle contese con gli altri cittadini per aggiudicarsi il significato di “reggino”: di solito gli altri abitanti di Reggio sono abituati a soccombere per il sol fatto che esista, per motivi dunque strettamente quantitativi.
Nulla meglio delle parole di Gramsci potrebbe rendere il senso di questa attuale e fatale “vittoria”:
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. (…) L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.”
[A.Gramsci, La città futura, 1917]
Nessun commento:
Posta un commento
Per motivi imperscrutabili, capita spesso che i commenti spariscano nel nulla. Io tolgo solo insulti e spam. Meglio perciò eventualmente salvarli e riprovare.