Appunti di Storia moderna

martedì 3 agosto 2010

Gioco al massacro




La visione del film L’inquilino del terzo piano (R. Polanski) mi ha colpita profondamente, anche in virtù delle ultime riflessioni sul dispettuccio. (Quella che segue non è una recensione).

Riassunto della puntata precedente
Dicevamo, che c’è un gioco al massacro quasi connaturato al vivere sociale. L’odio per gli altri e per se stessi, l’odio per questa vita che non può essere esternato, prende le forme della persecuzione più o meno velata e della distruzione sistematica dell’altro per vie verbali e comportamentali controverse e non direttamente codificabili. L’odio è a un tempo represso e generato dalla civiltà, ma deve sopravvivere in essa, perciò si esprime adottando le sue stesse forme: quelle dell’argomentazione, del discorso, della ragione. Dicevamo, del dispettuccio. Non ci si colpisce con le armi, con la bruta violenza fisica, ma attraverso il discorso adattato alle regole civili. Nel film questo gioco al massacro assume un’evoluzione incalzante, diventa un vortice di violenza di crescente intensità perpetrata nel quotidiano in un tragico insieme di voyeurismo e odio. 
Un odio normale.
L’ansia crescente diventa disagio soffocante, poi mania di persecuzione e il gioco al massacro prima subìto viene in seguito a propria volta perpetrato. Il condominio è il terreno fertile del gioco, che è tale perché si esercita nel semplice quotidiano, nella pretesa leggerezza della vita di tutti i giorni, ma è pesante poiché porta alla morte e passa per una costante lotta latente. Nel condominio coesistono diversi fattori chiave: la quotidianità, dunque l’intimità, l’isolamento del singolo appartamento e al contempo la convivenza con gli altri, il pianerottolo come crocevia e, nel film, come sede di scambio e di controllo. Il fatto che Polanski lo abbia scelto come ambiente predominante del film è dunque mirato.
In questo film convergono 1984 e Kafka. Il controllo sociale, il voyeurismo spregiudicato, si fondono con l’assurdità dell’espiazione di una colpa non identificabile. Come Joseph K. del Processo, il protagonista del film deve arringare e giustificarsi per una colpa non specificata, e per essa deve anche morire.
Il tema della colpa è vecchio come il mondo, in particolare della colpa indecifrabile, legata a una condizione più che a un errore e per ciò stesso assurda. La colpa di Edipo ne è l’archetipo assoluto, e quella di Joseph K. ne è  l’evoluzione moderna e secolarizzata: non c’è più la moira dietro l’assurdità, bensì il nulla ad amplificarla.
Chiedersi se venga prima la punizione della colpa, o se la colpa prima della punizione, non si discosta dallo schema dell’uovo e della gallina. Si è puniti ben prima di aver sbagliato, o, sembra, si viene puniti per la stessa colpa di esistere. Dall’insondabilità già iniziale di questa dinamica assurda, deriva la sua prosecuzione sempre più intricata in una fitta rete di rapporti sadici mascherati da normalità. E’ il sadismo quotidiano, la rabbia rimossa e soffocata, esorcizzata nel bon ton maligno. La fissazione è l’elemento chiave, nel suo connubio con il bisogno di un pretesto per l’odio. L’odio non ha nessuna ragione esplicita, nessun percorso razionale e verbalizzabile alle spalle, dunque cerca un pretesto per assumere un senso sia pure apparente. Il pretesto, nel film, è il rumore del vicino. Egli deve camminare in punta di piedi in casa sua e quasi quasi in apnea. Ma il pretesto può essere anche il colore della pelle, la provenienza geografica, la condizione sociale…la storia è ricca di pretesti creati ad hoc per razionalizzare l’odio reciproco privo di senso.
Solo la morte può restituire un senso a qualcosa che, per citare Vasco Rossi, un senso non ce l’ha. La morte compie l’incompiuto, e scavalca l’assurdità appunto compiendola.
Un racconto che lessi anni fa (non ricordo l’autore né il titolo) sintetizzava bene l’idea dell’isolamento voyeuristico. Si rifiutano gli altri, li si odia e ci si adopera costantemente per la loro distruzione, però li si cerca nella forma del controllo e della sopraffazione, e questa distruttività diventa il senso di tutte le relazioni e finanche della propria vita. In quel racconto una persona viveva in una camera gelida, in totale e costante isolamento, però non sapeva resistere alla tentazione di porre l’orecchio sulla parete per ascoltare i vicini. Non è perciò l’indifferenza per gli altri il tratto distintivo, ma il volerli incalzare attraverso ricatti invisibili e minacce sottili il cui sfondo insospettabile è l’urgenza del dominio, di cui il voyeurismo è il tratto essenziale (v. 1984).
Osservandolo e violando i tradizionali confini di privacy, si acquisisce potere poiché l’altro diventa debole: egli non sa di essere guardato, dunque non può difendersi. Il voyeur sadicamente soddisfa la mancanza di potere compensandola in questo esercizio quotidiano di annullamento che passa per il controllo morboso. Ma è fondamentale evitare di interpretare questi contorti processi di relazione e di identità come patologia. Il film stesso, secondo me, invita a farlo. La normalità è anzi protagonista: nel suo seno si genera l’odio, ed è in essa che impossibilmente deve soffocarsi; è sadismo camuffato nelle buone maniere. Il rapporto tra voyeurismo e distruzione è paradossale eppure reale, talmente intricato da riuscire difficilmente verbalizzabile. Sento che c’è qualcosa di intangibile e di essenziale in questo discorso, una qualche verità che non è stata ancora sondata a fondo.
Mi viene in mente al proposito l’hegeliana lotta per il riconoscimento. La relazione passa per la guerra e deve finire con la morte. Nella lotta per non farsi schiacciare dall’altro, la lotta per la libertà, vince solo chi ha il coraggio di morire, chi non ha paura di perdere. E’ lo schema del padrone e del servo. Dunque la propria sopravvivenza in termini di identità deve passare per il massacro e per la distruzione dell’altro che a sua volta deve ottenere lo stesso risultato. Sembra che sia un processo obbligatorio e fisiologico nelle relazioni e nell’identità…
Nel film la dinamica assume proporzioni inquietanti. Il massacro è generalizzato, e va ben oltre il meccanismo duale, fino a diventare incubo, ansia mortifera, sdoppiamento, mostri. La minaccia viene interiorizzata e conduce naturalmente alla cosiddetta follia. La mania di persecuzione ne è l’evoluzione naturale, in un crescente percorso allucinato che ricorda quello de L’uomo senza sonno. Il gioco al massacro insegna la diffidenza e trasmette il meme dell’odio. Questi diventano certezza e poi proiezione, dunque mania di persecuzione.
Gli altri perdono il loro status umano e il potenziale relazionale per tramutarsi in spauracchi estorsori. La condanna si materializza in un crescendo di rifiuto degli altri che sfocia nell’allucinazione, e che può terminare solo con la morte.
Il film è estremamente ambiguo e lascia ampio margine a interpretazioni funambolesche. Alla fine si ha la sensazione che Polanski volesse dire qualcosa, però poi si sia fatto prendere la mano e abbia volutamente lasciato spazio al dubbio che fosse tutta una presa in giro. La bellezza del film sta in questo qualcosa: nel sapere che ha detto un che di essenziale - senza usare le parole e senza cadere nella rassicurante narrazione lineare.
Trovo su www.parados.it (in riferimento a Kafka):
Ma, alla fine, tragedia o «umorismo patibolare» (Mittner)? Se il senso del tutto fosse che non c’è un senso o - come direbbe Nietzsche - che «la cosa in sè è degna di una omerica risata»? Le due alternative non sono poi così lontane, se più o meno negli stessi anni in cui usciva (postumo, l’autore era morto nel 1924) Il Processo (1926 ), Ernst Bloch poteva scrivere (in Spirito dell’utopia) che Gesù più che a un eroe tragico somigliava a un clown.

2 commenti:

  1. E così siamo perennemente spiati, perseguitati, presi di mira da esseri umani che, come i pidocchi, ci saltano in testa, si appiccicano e ne succhiano la linfa vitale. Pur comportandosi come pediculosi del capo, son sempre esseri umani, non debellabili con un paio di shampoo.
    Alzi la mano chi non ha come vicino/a di casa, ma anche come parente serpente, pseudoamico o conoscente, un soggetto che si comporta come un pidocchio.In genere è gente che, anzichè arricchire il proprio bagaglio culturale leggendo un giornale (che non sia novella 2000 o porcherie simili), guardando un documentario, viaggiando o semplicemente facendo una passeggiata, è ossessionata dal fare altrui e, se ci capita di trascorrere giornate scandite da ritmi diversi che generano movimenti desueti... va in panne!E così, non appena ci incrocia, muore dalla voglia di conoscere la genesi di qella giornata insolita... Come possiamo, dunque, difenderci da cotanta ubris? Sfoderando un fare sibillino: un sottintendere che non è un disaminare, una conoscenza fenomenica che non arriva ad afferrare quella noumenica, un particolare che non viene sussunto nell'universale.L'imperativo categorico diventa: mai squarciare il velo di Maya!In tal modo i pidocchi troveranno una barriera invalicabile e, per non morire di fame, dovranno cercare un'altra preda.
    Ma quanto è bello vivere e lasciare vivere...! Cris.

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  2. Cris, leggendo il tuo commento, non ho potuto fare a meno di grattarmi la testa. Comunque, secondo me, non è prerogativa di qualcuno in particolare. CHi più chi meno si è tutti tendenzialmente così: parassiti. E c'è una guerra latente perpetrata da tutti. Insomma, siamo tutti colpevoli.

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