Appunti di Storia moderna

martedì 13 aprile 2010

Le nozze di Sodoma - Recensione

E' uscita la mia recensione del libro di Persio Tincani su www.recensionifilosofiche.it. La ripropongo qui:

Con appassionato e rigoroso incalzare argomentativo, Persio Tincani affronta il tema della legittimità dei matrimoni omosessuali attraverso una prospettiva giuridica e morale, dando forma ad una riflessione dal ritmo serrato che chiama in causa alcuni dei protagonisti chiave del dibattito: da John Stuart Mill ai giusnaturalisti contemporanei e gli esponenti cattolici, passando per Martha Nussbaum fino a, non ultimo, Darwin. Il testo, nel suo complesso, mostra gli aspetti in cui si articola, mascherandosi, l’ideologia che presiede al rifiuto dell’istituto del matrimonio omosessuale. Un marcato antiliberalismo risulta essere il denominatore comune delle tesi avverse al matrimonio omosessuale, le cui argomentazioni dimostrano, di fronte a un attento vaglio critico, di scaturire da assunzioni irrazionali e paradossali.
Nel corso del libro emerge che è in particolare nel confronto tra i due modelli filosofico-politici del giusnaturalismo (conservatore, particolaristico, ideologico) e del liberalismo (proibitivo solo nella misura in cui lede i diritti altrui, secondo il milliano principio del danno) che si condensano i punti chiave della questione.

L’autore la affronta anzitutto sul piano giuridico. La sua tesi è che mancano ragioni giuridiche per considerare illegittimo il matrimonio omosessuale: nell’orizzonte normativo italiano è assente un divieto esplicito in questo senso.
Alcuni casi giuridici verificatisi negli anni passati testimoniano della difficoltà di giustificare la proibizione, i giudici avvalendosi di motivazioni che solo una forzatura se non un fraintendimento potrebbero condurre a un divieto legittimo. Colpisce in particolare il riferimento alla Costituzione, che, come Tincani rileva, tradisce una contraddizione: se coloro che avversano il matrimonio omosessuale ritengono di poter contare sull’articolo n. 29 della Carta, è altrettanto vero che rintracciare in esso un divieto al matrimonio omosessuale sarebbe possibile solo a patto di considerarlo contraddittorio con l’articolo n. 3 della stessa, che sancisce il principio di uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini. “Se davvero nel diritto italiano non vi fosse spazio per il matrimonio omosessuale, ciò sarebbe in contrasto con principi espliciti affermati dalla Costituzione, e si tratterebbe di una lacuna che il legislatore ordinario dovrebbe affrettarsi a colmare” (p. 58).

In definitiva, a motivare l’illegittimità giuridica del matrimonio omosessuale non è che un’errata interpretazione delle norme segnata da un pregiudizio, nel consolidamento e nella diffusione del quale è decisivo il ruolo giocato dalle gerarchie cattoliche - al punto che l’autore può rilevare persino un’affinità linguistica tra le loro motivazioni e quelle addotte dai giudici. Complice, il frainteso concetto di ‘natura’ che sta alla base dell’interpretazione fuorviante della frase costituzionale “famiglia come società naturale”. Non esistono ‘matrimoni in natura’, il matrimonio essendo un istituto giuridico, per questo occorre rimuovere dalle interpretazioni della famiglia costituzionale “ogni retaggio biologistico o legato agli atteggiamenti sentimentali” (ivi), tanto è vero che “un matrimonio omosessuale (…) è ‘innaturale’ tanto quanto un matrimonio eterosessuale” (p. 61).
Tincani può così concludere che l’articolo 29 è in realtà finalizzato a esprimere il riconoscimento giuridico delle relazioni stabilite dal matrimonio, non a sancire un non specificato requisito di ‘naturalità’ per lo stesso.

La natura di questo pregiudizio assume dunque un senso solo tenendo conto dell’influenza della Chiesa Cattolica, la quale tende a sconfinare nell’ambito politico e morale laico contravvenendo di fatto alle linee del Concordato. Ciò avviene in virtù dell’assunzione diffusa dei ‘magisteri separati’, per cui “l’intero ambito della moralità sarebbe appannaggio pressoché esclusivo delle religioni, di fronte alle quali le istituzioni laiche sarebbero tenute a fare un passo indietro” (p. 43). È interessante notare come la demarcazione di questo confine ideale tra le rispettive ‘aree di intervento’ venga operata soltanto da una delle due parti, segnatamente quella cattolica, con tutti gli effetti implausibili che questo comporta: ad esempio, la diffusa confusione fra matrimonio sacro e matrimonio civile, propria non solo del senso comune, ma anche della politica, la quale spesso indulge nella credenza che vi siano delle “materie ‘eticamente sensibili’” su cui si pretende che “il legislatore non sia chiamato a decidere se non in accordo con le gerarchie religiose” (p. 47), con effetti determinanti sulla giurisdizione cui è sottoposta anche la popolazione laica.

Entra così in gioco il giusnaturalismo, che ha fatto del concetto di natura il fondamento di ogni costruzione giuridica sulla base dell’assunto per il quale da una legge naturale indisponibile scaturirebbe il diritto positivo. Con il giusnaturalismo il concetto di natura viene caricato di valore normativo: è la pecca logica della “fallacia naturalistica”(p. 72) o “legge di Hume” (ivi), che stabilisce un rapporto di derivazione della norma dalla ‘natura’ logicamente ingiustificato, “il che, come già ha mostrato Monod, è la negazione stessa del metodo scientifico” (p. 73).

A un quadro argomentativo già controverso, si affianca il carattere marcatamente ideologico del giusnaturalismo, derivante dal fatto di avere accolto nel suo seno le ‘leggi di natura’ più diverse secondo convenienza, declinandone il significato in modi anche opposti al fine di giustificare l’una o l’altra ideologia, così dimostrando da sé l’impossibilità effettiva di provare l’esistenza di una legge naturale - della quale invece rivendica l’ ‘indisponibilità’. Particolarmente esemplificative in questo senso sono le tesi di John Finnis in cui Tincani rintraccia i difetti di una tendenza filosofica già problematica. Per Finnis la matrice principale della “legge naturale” è, esplicitamente, la Chiesa cattolica romana, da cui il diritto positivo trarrebbe le “norme fondamentali del bene” (p. 67) tese a realizzare una ‘fioritura umana’ nel contesto di una ‘comunità totale’. Risulta qui di nuovo evidente l’intrinseca inconciliabilità tra l’approccio liberale e la prospettiva giusnaturalista: quest’ultima, negando lo spazio della moralità privata, tende a voler realizzare una comunità moralmente ‘eterodiretta’ e perciò unanime. Tincani può così rilevarne l’aspetto antidemocratico: “ricordando le parole di Hans Kelsen, il liberalismo politico coincide con la democrazia” (p. 71).

Ma anche là dove, per finzione argomentativa, non si ponesse la questione della fallacia naturalistica, l’approccio giusnaturalista porrebbe delle difficoltà parimenti insuperabili in virtù del modo stesso con cui presenta il concetto di natura, inteso come immutabile e indisponibile - benché di fatto storico e mutevole. Questa rappresentazione cede già di fronte ad una semplice analisi linguistica, che dimostra come il termine ‘matrimonio’ vantasse in tempi non così remoti tutt’altra connotazione: l’endogamia che oggi si ritiene ‘contro natura’ lo ha caratterizzato finché “il meme dell’unione sessuale esogamica ha preso il sopravvento” (p. 87).

Con l’ausilio di Darwin e Freud, l’autore discute alcuni concetti comunemente ritenuti ‘naturali’ che di fronte a un’analisi seria dimostrano di essere, al contrario, il frutto di un’evoluzione culturale che ha indotto all’affermazione di comportamenti e sistemi di relazione darwinianamente più vantaggiosi; è il caso del matrimonio esogamico, la parentela, il tabù dell’incesto. Essi non rappresentano che “regole che fanno durare di più i gruppi, perché ne diminuiscono la conflittualità interna” (p. 91): la motivazione, dunque, è tutt’altro che biologica. Anzi, l’approccio evolutivo insegna come “l’evoluzione ci ha modellati in modo da resistere alla mera biologicità (…) ci ha forniti di un cervello che ci mette in grado di decidere quando ostacolare il ‘disegno darwiniano’” (p. 94); è questa l’unica concezione filosoficamente plausibile di natura.
Forte di questi sviluppi, l’autore può ora identificare la genesi comune delle tesi esaminate e smascherare il carattere eminentemente politico della nozione di natura: “quando la cultura assume i tratti di giustificazione di un dominio, tenere ferme certe pratiche, ribadirne la necessità, equivale a richiamare ragioni di resistenza del dominio stesso” (p. 95), e il mezzo qui consiste propriamente in una “mossa linguistica: sottrarre gli elementi dalla discussione, definirli naturali oppure – e poco cambia – voleri della divinità” (p. 96).

L’inconciliabilità delle tesi antilegittimiste con il liberalismo politico risulta ancora marcata dalla distorsione del principio milliano del danno che queste operano comunemente. La teorizzazione di un ‘danno’ arrecato dai comportamenti omosessuali, sia pure privati, o dal matrimonio omosessuale con la sua equiparazione giuridica a quello eterosessuale, è effetto di una concezione parernalista dello stato al quale spetterebbe legittimamente di stabilire sul piano giuridico l’orientamento etico della società. A muoverla, un sentimento di “nostalgia etica” (p.103) che, temendo il cambiamento, argomenta un diritto alla conservazione di stili di vita ritenuti buoni secondo un’operazione che intende piegare, così fraintendendolo, il principio del danno a una morale in definitiva particolaristica che si pretende universale e alla idea assurda di una “tutela legale dello status quo” (p. 105).

Le molte forme che assume il principio del danno quando deve giustificare assunzioni poco liberali (nel seno del liberalismo, è, invece, stato teorizzato), sottoposte a un’analisi attenta rivelano il loro sostrato più autentico: il pericolo del contagio, ovvero l’idea che il contatto visivo o la mera esistenza dell’omosessuale o del matrimonio omosessuale possa in qualche modo contaminare la società e se stessi. È il caso di quella che l’autore definisce “obiezione estetica”(p. 109) ovvero “il diritto di non vedere determinate cose senza volerlo”(ivi), che confonderebbe l’argomento contro l’offesa al pubblico pudore, di per sé applicabile indistintamente ad eterosessuali e omosessuali, con la pretesa di “escludere, sulla base dell’oscenità, il matrimonio omosessuale” (p. 110). Parimenti, la ‘tesi del disgusto’ muove da una base marcatamente soggettivistica e inconsistente in un’ottica giuridica, dal momento che “non trae origine dalla convinzione di voler proteggere certi diritti individuali dalle violazioni, quanto da un retaggio del pensiero magico” (p. 113). Il pericolo del contagio mascherato con il principio del danno è ugualmente la vera motivazione dell’argomento dell’offesa (“in molti casi ‘offensivo’ e ‘disgustoso’ possono essere usati come sinonimi” (p. 161)) e Martha Nussbaum ha mostrato il nesso potenziale fra le ‘tesi del disgusto’ e la deriva xenofoba (p.164).

In definitiva, queste posizioni teorizzano mosse legislative proibitive sulla base di un non specificato danno causato dell’omosessualità in sé o del matrimonio omosessuale, pur non sapendo identificare appunto il danno senza cadere in argomenti paradossali e irrazionali.
È fra l’altro da queste tesi che emerge l’elemento chiave dell’“asimmetria cognitiva” (p. 14) che aiuta a gettare luce sul background ideologico che le muove - un fattore determinante per la comprensione dell’atteggiamento generale nei confronti dell’omosessualità: se, in generale, la sessualità è considerata una pratica privata estromessa dal dominio pubblico, lo stesso non vale per gli omosessuali, rispetto ai quali la dimensione pubblica sarebbe autorizzata a invaderne la sfera sessuale privata. “La discriminazione stessa, quindi, è possibile soltanto a patto di introdurre in via preliminare una asimmetria cognitiva: tu non puoi sapere nulla della mia sfera intima ma io posso sapere tutto della tua. (…) l’asimmetria cognitiva, come già notava Michel Foucault, è una caratteristica del potere, e, in generale, del dominio” (p. 14).

Di fronte al vaglio dell’analisi critica degli argomenti, le tesi contrarie al matrimonio omosessuale dimostrano, complessivamente, la tendenza a mascherare con una parvenza razionale sentimenti antidemocratici e illiberali - ora distorcendo in senso ideologico il concetto di natura, ora usando impropriamente il criterio liberale del principio del danno. Il percorso critico di Tincani mette abilmente in guardia da tali apparenze.

4 commenti:

  1. Veramente notevole questa tua recensione. In prima battuta le tesi dell'autore sono condivisibili, forti in alcuni punti e sempre puntuali.
    E' chiaro che non possono venire invocate nè la naturalità della famiglia eterosessuale (in sè non del tutto falsa) nè la proibizione costituzionale, che abbiamo visto non esistere o non esistere in forma dirimente.
    L'aspetto biologico o naturale è di difficile manipolazione perchè le società umane sono un esempio continuo di non-naturalità. Tanto per dire, in natura il più debole solitamente muore o viene aggredito mentre nella nostra società esistono istituti e legislazione che difendono ogni umano (beh, non sempre...) e però esiste anche un comportamento sessuale che tenta quanto più possibile di escludere l'endogamia (vedi scimpanzè e macachi, tanto per citarne due). Come regolarsi dunque?
    Parlando con qualche cattolico sento che un aspetto fondamentale è il timore del disfacimento di questo istituto della famiglia naturale o innaturale che sia, il suo sgretolarsi in seguito al cambiamento dei costumi sessuali modificati per puro edonismo.
    Non è disgiunta in me quella che à la Foucault potremo definire "volontà di sapere", nel senso di conoscere le implicazioni psicologiche che sottostanno all'adozione di questi modelli etici di riferimento. Dato come quasi assodato che il matrimonio omosessuale o qualcosa di simile non minerebbe le basi della società (ma c'è dell'altro che paventano i cattolici, e sarebbe l'adozione, da parte delle neo-famiglie omosessuali) nè si profilerebbe come incostituzionale o francamente illegale nè come un comportamento innaturale (anche se la natura in certo qual modo premia le unioni non sterili, diciamo che l'avvicinamento a questo è composto di tappe variabili, all'interno dei quali esistono anche i gay, come del resto chi sceglie il celibato e così via) quali sono le ragioni che fanno temere ai cattolici uno stravolgimento della società, un sovvertimento delle norme di convivenza? Forse il timore di assistere a un contagio omosessuale, o forse la paura di dare forma di diritto a chi è già lontano sia con la propria natura che con le scelte a un modo di pensare "cristiano", oppure, in definitiva, l'obbedienza cieca alla dottrina (che poi tanto cieca non è neppure, viste le deroghe).
    Sono quasi alla fine. Pure tutto questo, non mi esimo dal considerare anche gli effetti di questi cambiamenti sulla società nel suo insieme, alcuni dei quali, per esempio sul divorzio e il disgregamento della famiglia (a dire cattolico) sono visibili anche agli occhi laici. Forse è il puntiglio di chi vuol essere o sembrare veramente libertario quello di volere il massimo della libertà possibile per tutti salvo il danno che si arreca all'altro: in quest'ultima categoria è doveroso metterci anche la società nel suo insieme

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  2. Veramente notevole questa tua recensione. In prima battuta le tesi dell'autore sono condivisibili, forti in alcuni punti e sempre puntuali.
    E' chiaro che non possono venire invocate nè la naturalità della famiglia eterosessuale (in sè non del tutto falsa) nè la proibizione costituzionale, che abbiamo visto non esistere o non esistere in forma dirimente.
    L'aspetto biologico o naturale è di difficile manipolazione perchè le società umane sono un esempio continuo di non-naturalità. Tanto per dire, in natura il più debole solitamente muore o viene aggredito mentre nella nostra società esistono istituti e legislazione che difendono ogni umano (beh, non sempre...) e però esiste anche un comportamento sessuale che tenta quanto più possibile di escludere l'endogamia (vedi scimpanzè e macachi, tanto per citarne due). Come regolarsi dunque?
    Parlando con qualche cattolico sento che un aspetto fondamentale è il timore del disfacimento di questo istituto della famiglia naturale o innaturale che sia, il suo sgretolarsi in seguito al cambiamento dei costumi sessuali modificati per puro edonismo.
    Non è disgiunta in me quella che à la Foucault potremo definire "volontà di sapere", nel senso di conoscere le implicazioni psicologiche che sottostanno all'adozione di questi modelli etici di riferimento. Dato come quasi assodato che il matrimonio omosessuale o qualcosa di simile non minerebbe le basi della società (ma c'è dell'altro che paventano i cattolici, e sarebbe l'adozione, da parte delle neo-famiglie omosessuali) nè si profilerebbe come incostituzionale o francamente illegale nè come un comportamento innaturale (anche se la natura in certo qual modo premia le unioni non sterili, diciamo che l'avvicinamento a questo è composto di tappe variabili, all'interno dei quali esistono anche i gay, come del resto chi sceglie il celibato e così via) quali sono le ragioni che fanno temere ai cattolici uno stravolgimento della società, un sovvertimento delle norme di convivenza? Forse il timore di assistere a un contagio omosessuale, o forse la paura di dare forma di diritto a chi è già lontano sia con la propria natura che con le scelte a un modo di pensare "cristiano", oppure, in definitiva, l'obbedienza cieca alla dottrina (che poi tanto cieca non è neppure, viste le deroghe).
    Sono quasi alla fine. Pure tutto questo, non mi esimo dal considerare anche gli effetti di questi cambiamenti sulla società nel suo insieme, alcuni dei quali, per esempio sul divorzio e il disgregamento della famiglia (a dire cattolico) sono visibili anche agli occhi laici. Forse è il puntiglio di chi vuol essere o sembrare veramente libertario quello di volere il massimo della libertà possibile per tutti salvo il danno che si arreca all'altro: in quest'ultima categoria è doveroso metterci anche la società nel suo insieme riflettendo se la sua modifica attraverso un cambiamento dei costumi finirebbe per tradursi in un danno o un miglioramento.

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  3. Grazie.
    Trovo le tue ultime parole piuttosto criptiche. Lasci intendere, se ho ben capito, che sia da valutare se il cambiamento dei costumi costituisca un danno o conduca a un miglioramento. Il punto è che tale valutazione può esistere ed è legittima: il problema subentra quandosi vuole trasferire questa valutazione dal piano assiologico, ideologico, al piano giuridico, proibitivo-sanzionatorio. Il particolarismo dei giudizi deve lasciare spazio al principio del danno: un danno concreto, identificabile.

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  4. Capisci bene. Il punto di vista che definisci assiologico o assolutistico può, nel suo insieme essere fallace, ma non per intero. Cioè: si può difendere l'istituto della famiglia al modo degli integralisti (cattolici) e nel contempo consentire la formazione di famiglie (finora) inusuali.
    Ripeto: non posso esimermi dal considerare in entrambi gli schieramenti (grosso modo, assolutisti e relativisti) quello che di buono c'è dal punto di vista di quello che provano le persone (che pure non è una buona misura di un modo di pensare giusto). Alla fine, però, se scegli il relativismo positivistico, rischi di impoverire le relazioni sociali di un vissuto emotivo-empatico. Ugualmente non rinuncio a combattere le opinioni dei massimalisti.
    Bye

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