Appunti di Storia moderna

venerdì 3 agosto 2012

Della criminalizzazione di fuori corso e disoccupati ai tempi di Monti

Scritto per terrearse.it

E’ da un po’ di tempo che circolano notizie e pseudostatistiche sul peso economico e sociale di una manica di banditi che lucrano astutamente alle spalle dello Stato, meglio noti come “fuori corso”. Non abbiamo ancora dimenticato la battuta di Michael Martone del team Monti, sui 28enni non ancora laureati definiti in termini sottilmente istituzionali come “sfigati”, che oggi la spending review propone di tassare ulteriormente i fuori corso. Ciò è la riprova che presso il governo si promuove una certa polarizzazione ideologica: parassiti buontemponi pigri sfaticati da un lato, martiri dell’efficienza incompresa dall’altro – dove i secondi tassano i primi, naturalmente, rieducandoli a suon di insulti (“sfigati” docet), perle pseudoneoliberiste di saggezza e tasse.
La logica appare un po’ la stessa della criminalizzazione ideologica del disoccupato: si tende a far passare per parassita quello che, spesso, subisce delle inefficienze e delle miopie istituzionali.
Certo, nessuno può escludere che molti studenti pascolino pigramente nelle università, e questa è per l’appunto la rappresentazione corrente che si fa – e, sembra, conviene fare – dei fuori corso. Al contempo trascurare che una grande percentuale di fuori corso lavora e non può permettersi di non farlo, che magari ha anche figli e al contempo non intende rinunciare a studiare, e in ciò è completamente sola, è un tantino disonesto.
Ce lo dicono, fra l’altro, le statistiche di Eurostudent, secondo cui oltre il 40% degli studenti (dati 2009) lavora: va da sé, precariamente. Quest’ultima precisazione è fondamentale: per fare un esempio, la legge delle 150 ore per il diritto allo studio concesse a chi lavora non vale – come la maternità, la malattia, le ferie e quant’altro – per chi è precario e lavora magari in nero.
Gli studi richiedono dedizione, tempo, energie, risorse economiche tali che lo studente, per rispettare la durata normale dei corsi di studio avrebbe bisogno di essere mantenuto per anni dalla famiglia – unico vero grande welfare italiano -, magari non abbiente, magari precaria anch’essa. Ciò evidentemente non è sempre possibile. Studiare laureandosi in tempo e al contempo dover lavorare per mantenersi, fra l’altro, gli studi, è impresa che neanche i supereroi. Eppure lo Stato oggi chiede ai giovani proprio questo. Come per la ministra Fornero il lavoro non è un diritto, e sono i giovani difettosi di una qualche specie di qualità morale (magari genetica?) di frainteso stacanovismo che li porterebbe naturalmente a lavorare qualora la possedessero; così per gli autori della spending review i fuori corso (per soffermarci solo su quest’aspetto dell’emendamento) sono dei buontemponi che succhiano risorse all’università e allo stato, che per parte loro, vere “vittime”, fanno il possibile.
Ora, una riflessione seria sull’eliminazione degli sprechi e l’acquisizione di risorse richiederebbe che si chiamasse in causa la vera realtà delle università italiane. La fonte dei loro sprechi sono davvero i fuori corso? Se lo sono, in virtù del 40% di studenti lavoratori di cui sopra, ciò è anche per l’incapacità istituzionale di garantire il diritto allo studio, questo concetto astratto che trova assai scarsa realizzazione in Italia. Nel 2009, circa il 65% degli studenti non ha ricevuto alcun aiuto economico, considerando che la ristretta fetta di beneficiari di borse non può contare su più di 1600 euro di sostegno, che in un anno sono veramente pochi e che non permettono a chi non può fare diversamente di non lavorare.
Le istituzioni non fanno nulla per garantire la possibilità di studiare anche a chi non può permettersi di non lavorare. Anzi, a quanto sembra, penalizzano proprio coloro che dovrebbero sostenere. Il risultato è disperatamente classista: solo chi ha a monte una famiglia con un reddito alto può studiare e laurearsi in tempo. E oggi chi è ricco potrà permettersi di pagare più tasse se fuori corso, chi non lo è, no. E’ l’ennesimo incentivo ad abbandonare gli studi, in sostanza.
Qual è la vera fonte di sprechi delle università? Non pretendiamo di esaurire il problema in poche battute, ma ci sembra quanto mai curioso attribuire nel maxiemendamento ai soli fuori corso il carico degli stessi. Le nostre università non brillano notoriamente affatto per trasparenza, meritocrazia, efficienza: il cosiddetto baronato e annesso blocco del turn over delle docenze è solo un esempio di un sistema farraginoso che gli autori della spending review hanno evidentemente dimenticato. Alla luce del suddetto articolo sui 4,4 miliardi che i fuori corso costerebbero allo Stato, verrebbe da suggerire analoga analisi sugli sprechi che queste falle determinano sul sistema università in Italia, con annesso enorme costo per la collettività. Fuori corso compresi.
Inoltre se il 56% dei laureati nel 2010 era fuori corso, fossi il governo qualche domanda me la farei. Davvero oltre la metà degli studenti è, come piace pensare, “bambocciona”? Strano, no? Caspita che popolo di sfaticati gli italiani. Riformiamo gli italiani, allora, se le cose stanno così.
Per l’appunto, il pedagogist… ehm ministro Martone – simbolo della scuola di pensiero dell’attuale governo, imperniata sul concetto di scaricabarile delle responsabilità istituzionali sulla coscienza individuale – dice di voler “spronare i giovani”. Riecco il ritornello già cantato da Fornero, del lavoro che non è un diritto. Cos’hanno in comune le due prospettive? Una contraddizione: da un lato, un pedagogismo dell’ultim’ora, da Stato paternalista che impartisce lezioni morali alla popolazione (“studiate e lavorate insieme e laureatevi anche in tempo”; “rimboccatevi le maniche: se non trovate lavoro è colpa vostra”), la quale evidentemente è difettosa delle virtù richieste dal mercato che per contro funziona nel migliore dei modi; dall’altro, tale pedagogismo sembra funzionale a giustificare mosse istituzionali improntate alla deresponsabilizzazione: il contrario, cioè, del paternalismo. Il concetto è, infatti, sempre lo stesso: “fatti vostri, noi non c’entriamo. Quindi pagate”.
Ecco il diagramma: criminalizza una categoria, attribuendole la colpa – cioè il costo – di sprechi e inefficienze, e secondo la logica del “nemico ideologico” avrai la tua giustificazione all’introduzione di nuove tasse. La gente penserà che è giusto tassare i buontemponi, il governo apparirà buono e giusto, e intanto per gli “sfigati” fuori corso che spesso lavorano e pensa un po’ pretendono anche di studiare, le tasse aumentano. L’ombra del sospetto dello spreco viene distolta dalla sua vera fonte: clientelismo, burocratismo – e gettata sulla cosiddetta povera gente. Come per il lavoro che non è un diritto, valutazione che esclude i privilegi della casta politica e i redditi alti dalla critica, uguale uguale. Tac, perfetto: falso moralismo a scopo di tassa.
Sarebbe dunque giusto supertassare i fuori corso solo se in Italia esistesse davvero il diritto allo studio (permettere di non lavorare a chi non ha risorse allargando il ristrettissimo target e la portata delle borse di studio, per esempio; o ancora ideare un sistema per la conciliazione genitorialità/studio) e se l’università funzionasse in modo trasparente, meritocratico, razionale, “efficiente”. Allora si sgombrerebbe il campo dalle responsabilità istituzionali del “fuori corsismo” e si potrebbe eventualmente addebitare allo studente fuori corso la colpa di esserlo.

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