Appunti di Storia moderna

martedì 21 giugno 2011

Il ricatto ordinario

Il lavoro, così com'è correntemente concepito, è un sequestro di persona realizzato tramite ricatto: senza questo sequestro a cui "liberamente" ti sottoponi, ci dispiace, ma schiatti
[Qui lascio fluire la mia adolescenzialità senza freni, senza riguardo per la reputazione sociale (sei un'adulta ormai; sei fortunata; ti lagni sempre; ma cosa vai cercando; non si può avere tutto; et sim.) né per ciò che il buon borghese medio è stato addestrato a dire sin dalla più tenera infanzia]. Qui lo dico e qui non lo nego: lavorare è un ricatto sociale perpetrato con le maschere della libertà. Dal momento che il sistema ha sancito il lavoro, precisamente questo specifico tipo di lavoro, ripetitivo, a orari fissi, ecc come caratteristica principale della vita sociale, lo spazio per modi alternativi di vita sono espulsi sul nascere. E tutti considerano questo sistema di vita normale, ovvio, indiscutibile. Si tratta di un ricatto, dunque, che ha il consenso di tutti.
Ed ecco che un'esigenza produttiva fa presto a trasformarsi in un tutto ideologico, culturale, esistenziale. Il concetto del "dalle 8 alle 14 devi restare incollato davanti a quel computer ad obbedire ai miei ordini" diventa una perversione, una prassi di deformazione umana, la deriva, l'alienazione. Gli impulsi vitali devono gettarsi, in massa, nel sacchetto del tempo libero, precostruito ad arte anch'esso dal lavoro così concepito. Perché se ogni santo giorno, tranne se dio vuole ad agosto, dalle 8 alle 14 sei sotto sequestro, la tua vita prenderà una certa piega - tale che anche dopo il timbro del cartellino d'uscita, tu ti ritroverai comunque a perpetrare atteggiamenti e a vivere i limiti imposti - in altra sede, dicono - dal sequestro.
Non puoi scappare in India all'improvviso. Non puoi decidere di passare le giornate in biblioteca. Non puoi decidere, sempre all'improvviso, di chiuderti in casa per un periodo imprecisato. E questo sistema ti ha persino insegnato - qui sta l'ideologico, il culturale - che tutto ciò va derubricato alla sezione "capriccio". Ma smettila, sei grande ormai. Essere grandi è rassegnarsi allora innanzitutto cognitivamente. E' dividere il mondo in due: da un lato ciò che è produttivo e dunque buono, auspicabile, rispettabile; dall'altro l'amusement, che è, in blocco, tutto ciò che non produce strictu sensu.
L'addestramento è innanzitutto mentale. Ma è difficile che la vita non continui a scalpitare sotto questa scorza coattiva, tale perché si presenta come l'unica possibile, in termini di valore oltre che di semplice evidenza. 
La gente protesta perché vuole il posto fisso, ultima vera grande illusione morale del XX secolo. La pre-formazione dei desideri ha già luogo nella culla: desidera il lavoro, la sedentarietà, la ripetizione, la funzionalizzazione del tuo essere, il ricalcare in piccolo i grandi meccanismi produttivi. Il vagabondo fa schifo: va disprezzato in ogni modo.
Ma vai a lavurar terùn. Nasce la retorica del lavorare sodo, criterio essenziale per definire la levatura morale di una persona. 
E c'è lo standard. Nel lavoro non conta la tua storia, chi sei, cosa provi, conta la tua conformità allo standard, e le performance sono valutate a suon di bastonate metaforiche o di premi produzione (la carotina al coniglio, o la nonna che dà i 5 euro al nipote "tò, comprati il gelato"). 
I soldi. Ci aboliamo per riprodurre, coi soldi incassati, lo stesso meccanismo che ci ha costretto a guadagnarli. E' una coazione a ripetere amplificata per ogni individuo. Per ogni precario per il quale è stato prescritto il piangere, per ogni cassintegrato che deve elemosinare dignità, per ogni lavoratore che si è deformato ma deve comunque ringraziare e dirlo a voce alta - non sia mai il contrario - che lui è fortunato e che dio c'è. Salvo poi covare rancore e disprezzo in silenzio, unendosi al coro degli altri multiformi disperati - dal cocopro allo stagista, dal disoccupato alla casalinga. 
Il preambolo per dire: una società diversa è possibile. In cui si possa vivere senza rinunciare per contratto a se stessi - che vale a dire: la vita - con ciclicità giornaliera.
Qualche passo qualcuno osa farlo, sempre da dentro il sistema. L'azienda che ha stravolto la concezione oraria degli oltre 1000 dipendenti: puoi lavorare 6 mesi e i 6 successivi no; scegliendo i turni che più ti aggradano.
Già questa è una buona cosa. Rara, isolata, per lo più citata per scherzo. Ma mostra che spesso è una questione di mentalità più che di reali necessità produttive. Si può opprimere di meno, e integrare a livello aziendale la riduzione del tasso di oppressione - finanche per motivi produttivi: così i lavoratori sono contenti e lavorano meglio.
Ma anche questa conclusione, così, sa di rassegnazione, sa di: tanto è impossibile altrimenti. E' impossibile cambiare del tutto sistema. Per le ambizioni di mutamento radicale rinviamo pure a Marx. Per le ambizioni di aggiramento individuale dell'oppressione del lavoro - e principalmente del sistema di vita che esso promuove - devo trovare una soluzione che non consista nella prostituzione. Come poter studiare, vivere di scienza, mantenendosi dignitosamente indipendenti e senza ipotecare se stessi a una frustrante bustapaga? Come poter lavorare vivendo il lavoro come compimento e espressione creativa di sé? Come poter combinare lavoro e libertà?

2 commenti:

  1. Il tuo coraggio mi fa paura... Sei una delle persone che ammiro di più anche se non ti conosco, effettivamente.

    Comunque, noto una specie di lamento, negli occhi di alcuni lavoratori. Dietro i loro sorrisoni c'è lo sconforto, il desiderio di trovare un senso e allora si buttano su attività come lo shopping, le vacanze, per tornare a pezzi e incapaci di capire perché, dopo, si è insoddisfatti.

    Secondo me la paura più grande è relativa al dolore fisico e all'ansia per il futuro da vecchi. Con la tal ripetizione ti paghi la pensione, quindi un futuro senza dolore (puoi permetterti le cure, ecc.). Quindi, va al di là della "sicurezza" (saggi su saggi, ecc.), si tratta di una totale mancanza di fiducia nel prossimo, cioè nel fatto che qualcuno, anche senza pagarlo, potrà aiutarti.

    La ripetizione ci sta strasformando in cellule nacisiste alimentate dalla frustrazione giornaliera.

    (Non mi riesce di postare; non so se ti stanno arrivando molti messaggi...)

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  2. Secondo me questa esigenza sempre frustrata di capire "perché, dopo, si è insoddisfatti" può essere la chiave della questione. Se cerchi tra i vecchi post trovi "il martirio dell'impiegato" che si rifà un po' al tema. La frustrazione è una specie di base comune: il cosiddetto sistema ti dà tutto, eppure è come se nell'atto stesso di dartelo te lo togliesse; come se nel prometterti felicità a ogni passo in realtà ti obbligasse a firmare la tua disfatta. Il tutto, sempre, sottoforma di "libertà". Una libertà illusoria.
    Un mondo che prescrive per contratto l'abdicazione da se stessi non può che produrre tristezza.
    La fiducia nel prossimo, già. Nelle relazioni si sedimenta la perdita di senso. E non già il narcisismo, ma l'estraniazione, penso, è il segno di un individualismo che fallisce sul nascere: l'in-dividuo in realtà è diviso, mancano dunque i presupposti per il narcisismo stesso.
    Ti ringrazio per i complimenti. Ma devo smentire: ho il coraggio di una pecora anche se ruggisco come un leone.

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