Appunti di Storia moderna

martedì 10 maggio 2011

Ai confini del linguaggio.

Scritto per filosofipercaso.splinder.com
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l'impossibile del linguaggio
lo stremo del fonema
il verbo liminare
lo strapiombo del dire
l'indicibile
affogato in un altrove

 
Wilhelm von Humboldt sosteneva che le lingue sono come dei recinti posti attorno alle menti dei parlanti - offrendo così un’immagine chiave per pensare il linguaggio: il recinto, che da un lato è limite e chiusura, dall’altro consente di non perdersi grazie alla possibilità di un movimento sicuro al suo interno. Nel linguaggio – nel recinto – il caos delle rappresentazioni diventa qualcosa, i nomi sono la soluzione preventiva al disordine, ancore sicure che rendono possibile un aggancio di senso alla realtà – immensa miniera semantica su cui le parole hanno agito come straordinarie cesoie storiche.
Ancora, Humboldt riteneva che le lingue fossero “visioni del mondo”: si può vedere solo nel linguaggio, le lingue sono rappresentazioni oltre che insiemi di parole e regole sintattiche. La geniale definizione ci rimanda ad almeno due osservazioni: da un lato, vediamograzie al linguaggio (o solo nel linguaggio), dall’altro, il nostro vedere è particolare – e potrebbe essere diverso in ragione della particolarità della lingua.


L’ultimo aspetto è efficacemente esemplificato dal celebre esperimento di Quine, in cui un ricercatore si reca in un paese indigeno per comprendere i meccanismi di comprensione linguistica. L’indigeno, di fronte a un coniglio che corre, pronuncia il nome “gavagai”. La facile tentazione del ricercatore di operare la corrispondenza gavagai = coniglio è frenata da un dubbio: “chi ci dice che gli oggetti cui il termine si applica siano proprio conigli, anziché singoli stadi o piccoli segmenti temporali di conigli?”. Come scrive Raffaella Petrilli [“Le regole trasparenti dell’abitudine”, in Aperture, 14-15 2003]: “il dubbio riguarda il problema che non solo i suoni delle lingue ma anche gli “atteggiamenti ontologici” del ricercatore e dell’indigeno siano, in realtà, molto diversi (…). Il termine  gavagai potrebbe essere il nome proprio di una ricorrente coniglità universale (…) il punto di vista dell’indigeno potrebbe essere così diverso che, in base ad esso, non avrebbe alcuna apparenza di senso parlare di oggetti” [Quine 2002; p.143]. Le categorie di fondo o gli schemi cognitivi con cui pensiamo, e persino sentiamo, il mondo, sembrerebbero originariamente e costitutivamente condizionati dal linguaggio. Esso, in modo misterioso, vivendo nei parlanti, nelle culture, negli usi e costumi, in una parola nella storia, delimita i campi e definisce preliminarmente il pensabile. Se ad esempio alcune tribù non possiedono il tempo verbale del passato, ciò significa che manca la categoria del passato e con essa la sua percezione o possibilità di rappresentazione. Presumibilmente, non esistendo nel linguaggio, per i membri di quelle tribù il passato non esiste. 

 
Le rappresentazioni senza le lingue dunque non potrebbero essere, come a dire: il pensiero è il linguaggio. La tensione prensile nascosta nel linguaggio ci consente allora di stabilire un legame con le cose che è anzitutto possibilità di vederle. Così forse possiamo intendere i versi di Stefan George, tanto amati da Heidegger - per il quale il linguaggio è persino fondamento ontologico della realtà:
“…Kein Ding sei
wo Das Wort gebricht”
[Tr: Nessuna cosa sia / dove la parola manca]
L’imperativo rimanda alla solennità di una legge oggettiva: nessuna cosa può essere là dove manca la parola. Esiste dunque un nesso sostanziale tra il linguaggio e l’essere delle cose per noi – ovvero ciò che siamo, che è anche ciò che possiamo vedere e pensare.
Ciò premesso – che ruolo può avere la poesia all’interno del linguaggio, intesa come estrema possibilità linguistica e, quindi, di rappresentazione e approccio al mondo?
Richiamando l’immagine del recinto, potremmo descrivere la poesia come quel tentativo estremo di scavalcare la staccionata, uno sporgersi arrischiato oltre i confini del dicibile. Il recinto della lingua, infatti, è un principio selettivo, un modo di esclusione della totalità; peraltro necessario per non perdersi nel caos del tutto. Fuori dal recinto, o sotto, esiste un magma semantico altro, rispetto al quale il poeta avverte una sorta di richiamo primordiale. L’esigente prensilità del linguaggio non può essere soddisfatta con le proposizioni riccorrenti, le immagini usuali, le combinazioni verbali comuni. Il sentire poetico le eccede – e deve essere detto secondo categorie altre. La tensione è intensa, l’urgenza di catturare ciò che sfugge agli schemi cognitivi correnti non trova casa nelle parole di sempre – se è vero, come sostiene Heidegger, che il linguaggio è la casa dell’uomo. La visione si spinge oltre il visibile stesso: oltre la lente “ontologica” del linguaggio.
Forse è in questo spaccato tra l’urgenza del dire e la sua impossibilità che nasce la poesia, intesa come esperienza assoluta vissuta forzando i confini del linguaggio, in un luogoaltro; un evento che, pur nel linguaggio, ne supera le stesse possibilità.
Scrive Giorgio Agamben:
"Supponiamo adempiuti tutti i segni, scontata la pena dell'uomo nel linguaggio, tutte le possibili domande soddisfatte e proferito tutto quanto poteva essere detto, che cosa sarebbe allora la vita degli uomini sulla terra? (...) Ma supponendo che provassimo ancora voglia di piangere o di ridere, per che cosa piangeremmo o rideremmo, che cosa sarebbero quel pianto e quel riso, se, finché eravamo prigionieri nel linguaggio, essi non erano, non potevano essere altro che l'esperienza, triste o beata, tragedia o commedia, dei limiti, dell'insufficienza del linguaggio?
Dove il linguaggio fosse perfettamente delimitato, là comincerebbero l'altro riso, l'altro pianto dell'umanità. (… ) La poesia è l'unicità destinale del linguaggio".[Idea della prosa, Feltrinelli, Milano, 1985]
E’ nella scoperta dell’insufficienza del linguaggio che è possibile l’evento poetico; è nell’ombra del linguaggio, in quello che esso non dice, che ha allora luogo l’estrema, impossibile coincidenza tra le esperienze assolute e il linguaggio. La sfera semantica non è più quella che credevamo acquisita, essa è ora un repertorio di inesauribile rappresentatività. La visione svincolata dal solito significabile, può ora aprire varchi nuovi sulla realtà, e farla essere di nuovo in modo inusitato – rigenerandola con e nelle parole. Nella poesia si compie l’estrema “visione del mondo” possibile nelle lingue. Un vedere che scavalca il vedere stesso – e gioca coi significati a ripartorire il mondo.
Quale esempio più calzante delle poesie di Andrea Zanzotto:
Da "Vocativo"
Esistere psichicamente
Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch'io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d'inferno
degli atomi e il conato
torbido d'alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.
Giova ai fini del discorso sul “semantico” riportare un commento di Pasolini alla poetica di Zanzotto:
“Non si sa mai in che campo semantico ci si trovi: il lettore è messo in uno stato di estraniamento delle abitudini che non ha precedenti. Non solo Zanzotto estranea il lettore da ogni possibile campo semantico perché li rifiuta tutti nella sua protesta di uomo disgustato e deluso, ma addirittura fa sì che non ci sia nemmeno il campo semantico della mancanza di campo semantico”. (1971)
In questo scavalcare la connettività di senso usuale, la logica, l'esplicazione, talora coltri oscure gettate sulla realtà piuttosto che varchi aperti su di essa, consiste la poesia che giace nell'irraccontabile per scoperchiarlo e toccare 
Das Ding, La Cosa.
Come ebbe a dire Borges, il piacere infinito della fruizione poetica va oltre il significato. Esso stesso non può essere raccontato: giace nel luogo, afono a asemantico, delle esperienze assolute.

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