Appunti di Storia moderna

sabato 15 maggio 2010

L'ideologia negli aggettivi I

Disamina disarticolata dell'aggettivo "utile" senza pretese di esaustività
Ci sono tre aggettivi di uso corrente su cui vorrei porre l'attenzione. Si tratta di parole chiave, parole particolarmente rappresentative del cosiddetto "sistema", ma in quanti altri modi potremmo chiamare questa entità informe - o meglio dalle infinite forme - che ci avvolge e ci intride di sé quotidianamente: potere onnipervasivo, industria culturale, forma mentis capitalista? Insomma, si è capito.
Queste parole sono, in ordine casuale, utile, attuale, ingenuo. Le “tratterò” (è una parola grossa chiaramente) in sedi distinte - oggi tocca a utile, fermo restando che di termini ideologici ce n’è un abisso (ad esempio: innovativo, produttivo, concreto, ecc.)
Qui le uso polemicamente: il mio pseudonimo è "Anacronista" e questo è il "taccuino di un'ingenua". Il riferimento implicito a "utile" è nel trafiletto introduttivo, in alto a destra.
Propongo una disamina disarticolata di questi aggettivi, alla luce della loro forza esemplificativa rispetto al sistema di cui sopra, per mostrare la loro deformazione semantica, o, meglio, la loro tensione semantica orientata dal contesto capitalista. C'è, cioè, un sostrato ideologico che fa prendere al loro significato una direzione specifica, ideologica appunto. Ciò è l’espressione della tendenza intrinseca del potere multiforme ad espandersi indefinitamente, fino a penetrare il linguaggio. Se le lingue sono “visioni del mondo” (Humboldt), non si vede infatti perché le parole di una lingua non debbano prendere la piega che questo mondo fa loro prendere.
Utile. Una cosa è utile quando sortisce o si pensa possa sortire, cioè le si attribuisce, l'effetto di un guadagno o un generico beneficio; generalmente mi pare che si ritenga utile ciò che contribuisce a fare un “passo avanti” in determinate operazioni, le più diverse. La pluridirezionalità, o se vogliamo vaghezza, della sfera semantica di quest'aggettivo considerato isolatamente è ampia: in sé definisce solo una tendenza, quella di considerare positivamente una cosa che produce un surplus, sia esso un progresso concettuale, un guadagno economico, una direzione che è auspicabile che il processo X prenda.
E’ un concetto, dunque, vuoto, che indica solo la tendenza progressiva dietro cui però si nasconde un giudizio di valore: è utile, poiché porta un progresso, quindi è buono. (Si possono invertire i termini: è buono, perché porta un progresso, quindi è utile). E’ chiaro che nulla di esplicito motiva il passaggio inferenziale dalla prima frase (è utile) all’ultima (quindi è buono): in mezzo c’è “poiché porta un progresso”. In ciascuna componente del sillogismo faidate qui proposto c’è un presa di posizione in termini di giudizio di valore. “E’ buono” in realtà, mi sembra, è contenuto già nella convinzione del progresso. 
Il progresso stesso è un concetto ideologico. Qualcuno ha cercato di dare un’impronta evoluzionista alla giustificazione di questa comunissima tendenza a considerare “ciò che va avanti” come buono, o anche “ciò che sale” come buono; al contrario di ciò che regredisce o ciò che va giù; posizioni peraltro verificabili nello stesso significato del pollice in su/pollice in giù – secondo qualcuno, dicevo, è per la posizione eretta: stare su è prerogativa dell’Homo sapiens. Il resto pertiene alla scimmia.
Dietro questo esempio c’è il tentativo di assolutizzare ciò che appare o è relativo. Il progresso, il “passo in avanti” è tale perché si giudica positivamente l’oggetto verso cui il movimento progrediente è diretto. La bontà sta nell’oggetto e il movimento assume la caratteristica della bontà solo per riflesso. Ergo, il progresso non è assoluto, ma relativo appunto all’oggetto verso cui tende.
Ad oggi mi sembra che sia in corso una selezione interna al ventaglio di tutti i suoi significati possibili, una specie di selezione "naturale" semantica che induce ad usare l'aggettivo solo in un determinato senso, che coincide col senso specifico del, di nuovo, sistema di cui sopra. Questa evoluzione o involuzione interna del termine è forse spiegabile alla luce delle considerazioni sul progresso. Se, come ho detto, il progresso è buono, ed è buono perché conduce ad un oggetto che è considerato buono, qual è oggi l’oggetto che più diffusamente si associa al concetto di utilità?
Utile è ciò che si conforma al sistema, ciò che per il sistema e la mentalità che esso promuove ed esercita è tale. Utile è, insomma, ciò che rafforza i paradigmi del sistema, e contribuisce a rendere solida, costantemente, la convinzione della sua necessità.
Esempio: studiare ingegneria è utile, studiare filosofia è inutile. Questo schema consolidato si riproduce incessantemente in tanti modi, fra cui, ad esempio, l'autopercezione dell'ingegnere come operante in un settore superiore alle altre professioni o agli altri ambiti di studio; oppure la felicità del genitore che ha un figlio prossimo a scegliere come percorso universitario quello di ingegneria, cui fa da contraltare quello che si intristisce dell'opzione per scienze politiche. Questo ha effetti interminabili, specie a livello sociologico: l’ingegnere è rispettato, il filosofo è guardato sottecchi. Il farmacista è ben visto, il sociologo è considerato uno scarto della, appunto, società. Per non parlare degli antropologi, poveretti.
Il carattere ideologico di questo termine emerge in particolare là dove si provi un po’ ad interrogarlo, a chiedergli cioè qual è esattamente il suo contributo di senso alle frasi che partecipa a rendere compiute. A cosa è veramente utile l’ingegneria? (Non ce l’ho con l’ingegneria, è bene precisare, ma purtroppo per lei si presta bene all’esempio). L’ingegneria è una scienza che sfrutta le conoscenze teoriche proprie della matematica, della fisica, dell’elettronica o dell’architettura e quant’altro, per trasformare la realtà materiale, introducendovi nuovi apparati di varia natura (impianti elettrici, informatici, edili, ecc). Li può inventare, può crearne di simili agli esistenti, può modificarli, può ripararli. Tali apparati svolgono una funzione specifica, richiesta dal committente: un frigorifero, un computer, una macchina per il caffè, un distributore di sigarette, un iPod. A ben vedere, l’importanza dell’ingegnere è stabilita, in ultimo, dalla richiesta del committente.
Insomma, se non esistesse un ramo crescente di mercato che sopravvive grazie allo smercio di elettrodomestici e tecnologie, l’ingegnere non solo sarebbe un morto di fame, ma la sua scienza sarebbe considerata una roba da topi di laboratorio un po’ sfigati.
Il concetto semanticamente ampio di “utilità” si è come definitivamente economicizzato.
La selezione naturale, dunque, ha a che fare proprio col fatto che altri motivi per considerare utile una cosa non sono ammessi. C’è uno scarto valoriale interno alla sfera semantica dell’utilità, che riflette una sorta di macroapparato ideologico: l’oggetto verso cui tende il progresso considerato buono è questo e non può essere quell’altro. Cosa motiva questo vincolo? L'ideologia.
Quello che si adatta - riproducendolo - al sistema è buono, dunque è utile: perché ci fa vendere, perché fa lavorare tante persone (dagli operai ai pubblicitari), perché la-gente-lo-vuole. Il che presuppone un preciso e ricco retroscena ideologico, che fa perno su: l’immediatezza, il tangibile - in senso stretto-, il maneggiabile e/o manipolabile, il consumabile, il direttamente visibile, l’esplicitamente funzionale. 
Il filosofo è inutile allora perché il suo campo d’azione non produce in senso stretto, non apporta novità immediatamente tangibili, anzi, la sua scienza ha come proprietà costitutiva proprio l’indeterminatezza. E' la "fungibilità" (o la strumentalità) a fare da spartiacque ideale, che presuppone la semplice materialità: il preferibile è ciò che si può toccare, vedere, usare, senza mediazioni e senza interpretazioni. Dunque vendere.
[Per questi e altri motivi è bene fidarsi poco della disinvoltura con cui si utilizza l'aggettivo in questione, e perché no adottare una specie di tendenza polemica e bastian-contrarista a considerare buono ciò che presenta caratteristiche opposte a quelle della cruda funzionalità materiale]. 

13 commenti:

  1. Cominciamo con il dire che sono sostanzialmente d'accordo. Considera però che il raffronto che tu fai tra ingegneria e filosofia lo si può estendere a qualsiasi coppia di attività: astronomo-fisico; matematico-biologo; ricercatore-clinico. Sempre si effettuano paragoni e si cerca "quello più utile". Diciamo che è un portato filogenetico: da qualunque situazione, come organismi viventi, dobbiamo trarre il meglio e scegliere quello più utile. E' il problema della scelta quando si presenta una dicotomia: basta non presentarla e il problema non si pone. L'investigazione di ogni campo del sapere è lecita e augurabile: però, che diremmo di soldi pubblici spesi in materie occulte? Anche se non lo sono, anch'io mi sento filosofo, seppure solo per la parte di "amore per la conoscenza".
    Quanto al retroterra ideologico dico che è quasi un obbligo. Anche nelle discriminazioni razziali, p.e., vi èuna ideologia di sottofondo, che appoggia su stereotipi che appartengono a tutta la specie.
    Forse possiamo fare una distinzione tra utile e più utile: come puoi negare che acqua e cibo siano utili, mentre, per esempio, cibi raffinati e bibite dolcificate, sono più utili, se raffrontate con le altre. L'utilità appartiene ai viventi, sia per il pane delle necessità primitive che per il companatico di quelle intellettuali e sociali.
    La distorsione subentra quando si vuole assolutizzare un'utilità relativa (a un soggetto o gruppo) e soprattutto contingente (perchè domani, magari, potrebbero essere più utili i filosofi degli ingegneri).
    Aspetto con impazienza il prosiueguo.
    E mi chiedo: questo tuo articolo, mi è stato utile?

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  2. Benché a prima vista mi senta di confermare quello che scrivi, mi accorgo in effetti che non coincide con il nocciolo della questione così come l'ho posta io: c'è un po' di dispersività nella tua pur interessante lettura. Cioè, io non metto in questione che l'utilità sia un portato filogenetico, o una specie di necessità evolutiva, a me interessava sottolineare che il concetto oggi corrente di utilità è diventato "centralizzato", e siamo portati a credere assoluta l'utilità che è dettata dalle norme in senso lato del sistema.E' vero, dici che l'ideologia è imprescindibile. Però si tratta di un'ideologia problematica, perché economicistica in maniera "imperialista": cioè crea dei valori e degli stili di vita conformi ai criteri di produzione, cioè ai suoi propri criteri. L'invito è: stiamo attenti a valutare quest'uso degli aggettivi funzionale a questa precisa ideologia, o meglio stiamo attenti a credere eterno un concetto che è relativo, non tanto a un gruppo quanto a un sistema economico.

    Se l'utilità aveva a che fare con criteri "evolutivi", ora questa è appannaggio di gruppi economici, che, poiché dominano ogni angolo si esistenza, orientano semanticamente aggettivi come "utile", o meglio li monopolizzano, e fanno in modo che coincidano con la loro "visione del mondo". L'immediatamente manipolabile, il vendibile e il consumabile, ciò che produce ciò finisce col coincidere con ciò che oggi si ritiene utile. Questo è un portato filogenetico, o questo portato filogenetico, a un certo punto della storia, ha come dire inciampato in qualcosa che lo ha modificato nel profondo?

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  3. Volevo dire "il vendibile e il consumabile, quel che produce ciò finisce col coincidere con quello che oggi si ritiene utile"

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  4. "La mia vita, come tendo a raffigurarmela, il mio orrore e la mia volontà di conoscenza, mi sembrano altrettanto giustificati del mestiere stesso di medico, anche se, immediatamente, non posso aiutare nessuno".

    Il tuo post mi ha fatto pensare all'aforisma Contraddizioni (Dialettica dell'illuminismo), e di questo ti ringrazio.
    Come molte altre volte sono d'accordo pressoché su tutto. Solo non mi convince l'ultima frase, quella tra parentesi quadre. A mio parere (che mi sembra sia anche il tuo, a giudicare dalla sostanza del post) il concetto di utile strumentale e "fungibile" è problematico, in prima istanza, a causa della sua unilateralità. In quanto, cioè, è un concetto che se potesse parlare direbbe "io sono ciò che è utile e che quindi è buono, tutto il resto non serve, né a vendere né a curare la gente né a fare altro". Ha la sua parte di ragione in questo (perché, in effetti, con la filosofia non ci curi il cancro), ma non detiene il monopolio della ragione, né dell'ambito dei bisogni umani. Per questo è ugualmente problematico opporre ad esso "una specie di tendenza polemica e bastian-contrarista a considerare buono ciò che presenta caratteristiche opposte a quelle della cruda funzionalità materiale". Non si tratta di contrapporre unilateralità a unilateralità, strumentalità a regno della comunicazione e della filosofia, ma far vedere come il concetto di utile strumentale sia, in quanto tale, assolutamente parziale, e oppressiva la logica che vorrebbe farlo passare per totalità. Su questo punto (il dominio nell'ideologia) sono sulla tua stessa lunghezza d'onda. Complimenti per il blog, leggo sempre ma di solito non commento

    Eleonora

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  5. Porca miseria, Eleonora, hai citato il libro che in assoluto è alla base della mia formazione. E in particolare, citi una parte di quel libro che coglie proprio nel segno, che ho apprezzato sin da subito, e che ricordi opportunamente, dato che ha molto a che fare col senso del post.
    Beh, per il resto, concordo su tutto, anche sulla faziosità dell'ultima frase.
    PS: commenta più spesso, commenti così sono pane per i denti del blog !

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  6. Quel libro è ciò che anni fa mi fece pensare "io voglio fare questo per tutta la vita", e con "questo" intendevo studiare filosofia e scrivere di filosofia. Il dominio dell'utile fungibile lo viviamo tutti sulla nostra pelle, in modi e circostanze diverse, e ormai con un'intensità tale che il fine dell'autoconservazione e quello del ritorno a Itaca sembrano antitetici, mentre dovrebbero procedere insieme. Solo un modo un po'criptico per dire che la tendenza alla "faziosità dell'ultima frase" ce l'ho anche io: quando tutti intorno a te dicono che Itaca non esiste, o che per quanto "sacrificherai" non potrai mai raggiungerla perché il "sistema" non lo consente, è umano e perfino coraggioso pensare solo a Itaca, negare nel pensiero ciò che ti sembra, nella realtà, l'antitesi più immediata delle tue aspirazioni. Però è parziale. Si potrebbe dire che è una falsa coscienza che riflette una distorsione reale.
    Nel mio caso, aver letto la Dialettica dell'Illuminismo a 22 anni mi ha portata a un dottorato senza borsa che, ogni giorno che passa, si rivela in misura crescente anche senza prospettive, non per mie mancanze ma per mancanza di risorse economiche. Eppure, per quanto in un'immensa rabbia e frustrazione, non vorrei non aver mai incontrato quel libro e fatto le scelte che ho fatto. Sono sicura che una storia così ce l'abbiamo in molti... e che chi non ce l'ha, perché fa "l'ingegnere" o il direttore di marketing, è ben pagato e mamma e papà sono contenti, è altrettanto scontento e incompleto, oltre che maggiormente inconsapevole, se tutto quello che riesce a vedere è l'utile fungibile che nega validità a ogni altra cosa. Siamo tutti vittima della ragione unilaterale, quindi. Ma da qui, dove si va? Come si cambiano le cose (perché accettarle così fa un po'schifo)? Adorno su quest'ultimo punto ci è rimasto fregato, e anche io (ma pensa un po':)) non so che pesci pigliare.
    P.S.: commenterò, il fatto che esistano "luoghi" come questo è già qualcosa.

    Eleonora

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  7. Stesso pensiero mio. E' stato un libro di svolta assoluta, di cui oggi non riesco a liberarmi ogni volta che faccio valutazioni sul reale. Si è conficcato nel mio pensiero e, se un giorno ne uscirà, sarà stato dopo averlo stravolto profondamente.
    La faziosità, dici bene, sembra quasi un effetto collaterale aggirabile fino ad un certo punto quando si è assorbito un tale "sistema interpretativo": una falsa coscienza che riflette una distorsione reale. Usando le parole di Adorno potremmo tradurlo in un: non c'è la falsa conciliazione, ma l'effetto della contraddizione.
    Condivido tutto. In particolare mi fa sorridere il fatto del dottorato dovuto alla lettura del libro. Sento di capire: apre prospettive e griglie interpretative così dinamiche che è impossibile non crescere se lo si è capito.
    Infine, purtroppo il diktat del "dove si va?" secondo me, per Adorno, sarebbe uno stesso cedere ai meccanismi ideologici dell'"Illuminismo". Mi piace l'idea che un pensiero espresso così ferocemente, intensamente e acutamente viva di luce propria alimentando altre luci per le sue sole qualità interne. LA mancanza di una "soluzione pragmatica" è onestà e coerenza: proporre una "redenzione" in un mondo autocorrottosi sarebbe prospettare una falsa conciliazione. Penso al proposito alla famosa frase su Auschwitz, che secondo me c'entra molto anche qui.
    C'è da dire che qualche studioso ha notato che Adorno & Horkheimer hanno posto più volte l'attenzione sulle proprietà emancipative della ragione. Questa teoricamente sarebbe la via d'uscita.

    Grazie Eleonora, sarei felicissima di rileggerti qui o altrove. E in bocca al lupo per il dottorato.

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  8. Chiaramente è presente una distorsione nell'imposizione del concetto di utilità, basti pensare che oggi è "utile" qualcosa che può durare pochissimo, come un cellulare, una batteria o cose simili. Questo effetto, dell'informare e conformare, è da una vita che gli intellettuali lo denunciano e che esiste, non per questo bisogna smettere di farlo notare.
    Ma la sostanza è questa: come ci si difende dal tentativo di plagio? Perchè se io estendo la visione noto che anche molti concetti, per esempio quelli della politica, introdotti recentemente (legittimo impedimento, difesa della privacy dalla stampa, e così via) sono figli di interessi individuali o di pochi , che si cerca di far passare come concezioni generali e perciò utili.
    Anche l'idea stessa di diritto, che magari segue un percorso più virtuoso, non è immune dall'influenza del modello di pensiero dominante. Ne segue che il godimento dei diritti è una cosa che si dà di per sè, utile al buon andamento della società senza che il soggetto che ne gode abbia a fornire qualcosa di suo (chi può, ovviamente): questa cosa da fornire sarebbero i doveri.

    Però, provate a considerare, per un attimo, una società basata meno sul concetto di utile tipo il medico e l'ingegnere e una basata di più sul concetto di utile allargato tipo filosofo sociologo.
    Ho come la sensazione che il modello di progresso & sviluppo scelto dalle società moderne tipo-capitalistico sia forzatamente utilitaristico nel senso che intendete e che il ripristino di un modo di pensare meno materiale potrebbe giovare al disincanto degli individui.

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  9. In effetti sono innumerabili le parole ad oggi distorte dal monopolio linguistico e culturale del "tipo-capitalistico".
    Comunque, più che giovare al disincanto, sarebbe bello giovare al cambiamento...!

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  10. "La sofferenza incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie" (Dialettica negativa)

    Poi prometto che la pianto con le citazioni :)
    Penso anche io che in Adorno fosse irrinunciabile il momento emancipativo della ragione. Detto in termini che spero non siano troppo personalistici ma che, da honnethiana qual sono, mi pare rendano: il mondo ha preso a partire da sé una direzione "sbagliata", ma è sbagliata perché si soffre, perché siamo tutti estraniati, e chi non ne è consapevole magari pensa di star meglio ma sta peggio degli altri. E'attraverso la sofferenza umana che la distorsione si rivela, insomma; ma la sofferenza umana c'è unicamente perché è ancora viva negli esseri umani la tensione quasi istintiva verso un mondo migliore, e forme d'azione che fanno ancora balenare, qua e là nel mondo distorto, questo mondo migliore. E'quello che fa lo stesso Adorno con il suo esprimere un pensiero che, come dici tu, Denise, "vive di luce propria alimentando altre luci per le sue sole qualità interne". Per questo mi incazzo come una biscia quando si tagliano i fondi all'editoria, alla ricerca umanistica (oltre che a quella scientifica) ecc ecc: perché si tagliano le gambe alla critica, l'unica che può portare al disincanto per il mondo in cui viviamo (cfr. paopasc ;)) mentre ti incanta con l'immagine di un mondo emancipato; indeterminato nelle sue forme (il divieto di raffiguarsi la divinità ebraica e compagnia bella :)) ma in qualche modo presente in noi, sebbene fino a quel momento a noi stessi nascosto. Solo da qui può venire il cambiamento, sempre se non si inizia con il cupio dissolvi secondo il quale in un mondo estraniato tutto quello che possiamo fare è prendere coscienza dell'irrimediabile estraniazione e deprimerci sempre di più... quella secondo me non sarebbe coerenza, ma la smentita non solo del pensiero dialettico, ma anche di una teoria che vuole essere critica. Adorno a mio parere avrebbe dovuto pensare di più alle potenzialità concrete di emancipazione già presenti (e da sviluppare) nel mondo corrotto, e secondo me non sarebbe stato incoerente in questo, dato che a livello teoretico prefigura l'emancipazione come autosuperamento della ragione strumentale. O quantomeno dovremmo pensarci noi, che ci troviamo a vivere in questa mezza schifezza... scrivendo, criticando, facendo "lagne", rompendo le palle e agendo in modo il più possibile non-alienato/alienante a partire dalle piccole cose che nella vita di tutti i giorni non ci vanno giù... anche questo è conflitto. Forse non basta, ma di meglio non mi viene :)

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  11. Cioè, sono interpretazioni.Forse dici il vero, ma io non avrei potuto leggere con lo stesso spasimo Adorno se alla fine, in appendice, avesse aggiunto le "soluzioni". Sarebbero state le "solite soluzioni impossibili". Avrebbe aperto il terreno a critiche sulla fattibilità. I realisti (concetto ideologicissimo anche questo, a proposito) avrebbero potuto liquidarlo più facilmente, per rafforzare la dicotomia strumentale "realistiVSidealisti", strumentale perché rappresenta uno dei tanti schemi che in questo contesto indeboliscono tutto ciò che ad esso non si sovrappone del tutto. Cioè, il suo carattere totalitario e il suo potere consentono al sistema di elidere ogni entità che non si adegui alle sue regole ovvero a se stesso.
    Se vogliamo perciò (forse è il caso) aggirare il parametro della coerenza, non possiamo, secondo me, negare che la "soluzione" di Adorno risieda nella critica stessa. E sembrerà una banalità. E pure mi sembra che siamo d'accordo...le lagne, cos'altro sono poi, se non questo, la manifestazione della lacerazione, della scissione e della loro presa in carico da parte della coscienza. Dicendo la scissione la indebolisco, e incoraggio a guardarla da una prospettiva che aggira quel carattere totalitario, dunque in qualche modo lo rovescia.
    Non so se mi spiego. Sunto: la lagna è una verità, che racconta la divisione, e questo raccontare, con il suo stesso esistere, contiene già in sé una soluzione. Soluzione da intendere non nel senso ideologicamente "realistico".

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  12. Certo, sono interpretazioni e critiche contestabili... e ci mancherebbe altro! Anche se io non pensavo alle "solite soluzioni impossibili" in appendice; semplicemente notavo come una più costante considerazione di tutte le forme di resistenza, di critica e di conflitto che hanno luogo nella società (e nella storia) a mio parere non sarebbe stata incoerente, poiché avrebbe costituito il giusto corrispettivo pratico dello schema dialettico-emancipativo che Adorno a mio modo di vedere sottende alla sua opera. Insomma, se a livello teorico Adorno afferma la negazione determinata, il trascendimento del reale a partire dalle sue proprie insufficenze, perché a livello pratico delinea invece un "sistema totalmente amministrato"? A me sembra che sul piano dell'analisi sociale egli faccia troppo spesso astrazione dalle forze antagoniste che pure nella società si possono sempre ravvisare (e che non coincidono con soluzioni immediate e determinate, piuttosto con uno spazio politico di "apertura"); a volte ho l'impressione che egli considerasse la sua critica come l'unica forma pratica di opposizione al sistema ormai rimasta... e vista la sua concreta situazione storica e umana, da una parte è anche comprensibile! Ma che senso avrebbe la sua stessa opera di critica (e la critica tout court), in un mondo che non potesse recepirla, né effettuarla e rilanciarla, perché ormai imbevuto di dominio in OGNI suo poro, senza ambiti di resistenza per quanto marginali e parziali? In sintesi: le ricettine pratiche per l'emancipazione non piacciono neanche a me, ma l'affermare che esista sempre una possibilità pratica di sottarsi al dominio mi piace molto, invece. E secondo me non sarebbe un affermare privo di basi empiriche. Troppo ottimista-consolatoria? Sulle "lagne", te la appoggio su tutta la linea. Comunque, e chiudo lo sproloquio, è un piacere discutere con te di queste cose!

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  13. Grazie, anche per me - credo si sia capito.

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