Appunti di Storia moderna

sabato 21 novembre 2009

"Me ne fotto del Rwanda".

Lentamente prende forma la-mia-visione-del-mondo: da incerta e sfocata quale è sempre stata, comincia ad assumere tratti netti, ma sempre con molta molta lentezza. Nel senso che per arrivare definitivamente all'assunzione di un'idea possono passare anni e anni di spunti, elaborazioni, rielaborazioni, ripescaggi e abbandoni, consapevoli o non consapevoli, finché mi sento addosso un'idea corposa, la sento tutta, intera, ed è mia fino in fondo.
Ok. Racconterò brevemente la travagliata genesi dell'idea che solo stasera, dopo anni di arrancamento a fatica, ho cominciato a focalizzare davvero.

Sul sociale.

Anni fa vidi la famosa puntata del Maurizio Costanzo Show in cui Carmelo Bene si confrontò bizzarramente con le "masse". Insomma, come tutti, rimasi molto colpita da alcune sue frasi (non tanto dall'atteggiamento, invece, che ho trovato perfetto) che a distanza di tempo mi tornano in mente con una certa insistenza ad ogni occasione che mi consenta un'associazione di idee.
Dopo vari "Me ne fotto della storia" e invettive condivisibilissime contro l'istituzionalizzazione della cultura, rimasi folgorata dalla frase che funge da titolo del post.
Amai moltissimo la crudele e compiaciuta sincerità con cui pronunciò quelle parole, ma ancor più mi sentii costretta a rielaborarle e da allora non me ne sono più liberata.
Traccia del tema: Il sociale.
In adolescenza ho letto parecchi libri che ponevano, tragicamente o meno, il famoso problema dell'engagement. Temo che abbia prodotto degli effetti notevoli il fatto che il primo fra questi fosse Cesare Pavese - ad essere sincera non ricordo se si trattasse di La casa in collina o de La luna e i falò. In quei libri c'era un'angoscia con cui ho empatizzato subito e che distiguo chiara e nitida ancora adesso: l'angoscia del disimpegno.
Di Pavese mi è rimasta un'immagine -preziosa, mia - di abulia colpevole: l'inazione e il senso di colpa avvertiti in un unico moto asfittico. (Ricordo che, leggendo, immaginavo il protagonista della storia camminare come trascinandosi le gambe, con gli occhi socchiusi e il sole caldo sulla testa sudata, lo immaginavo affaticato, stanchissimo).
Agire. No, non proprio agire, dico impegnarsi. Nel sociale. Perché?
Questo dilemma mi è stato irrisolvibile da allora fino a stasera. Nel mezzo, tantissima roba. Nella fase esistenzialista della mia vita ho creduto a Sartre ma ho dimenticato la "seconda parte del suo pensiero", ho preso da lui il senso dell'assurdità dell'esistenza, dell'essere vivi e liberi, ma l'ho come zittito là dove ha inteso trasformare questa condizione in qualcosa di così irrimediabilmente terreno come l'impegno sociale e politico. Che ne è dell'assurdo nell'impegno?
Poi ho visto film, letto ancora. A scuola capitava la manifestazione, se vi partecipavo, era sempre con scarsa convinzione. Non mi sentivo a mio agio a camminare incastrata tra un mucchio di gente che cantava slogan per spirito di cameratismo più che per autentica sollecitudine morale. Era un pretesto per socializzare. In quella manifestazione, poniamo, contro la mafia, tra quelle persone, quelle urla, quel sole e quei negozi, c'era tutto meno che il dolore atroce e solitario del parente della vittima di tal dei tali. C'era molto rumore, e le persone sembravano pensare a tutto fuorché a quello che sarebbe stato coerente pensare. Mi sentivo, in effetti, un'imbecille.
Quanti film ho visto sul tema? Sempre hanno lasciato intatto il mio dilemma. Ne ricordo uno, abbastanza mediocre, in cui ad un certo punto si diceva Se non io, chi? Se non ora, quando? e mi immaginai grande attivista in tutti i campi, dai diritti umani ai diritti dei minerali e dei funghi e, ovviamente, delle bestie. Se non io, chi? Se non ora, quando? Eccola, la risposta! Io, io, sennò chi?
Poi mi fermavano per strada, per firmare contro lo stato disumano in cui versano le foche libanesi. Mi dicevo "Dai, è giusto" nascondendo a me stessa, in combutta col mio super-io, che, in fondo, non me ne fregava niente.
Non me ne frega niente.
Lo pensano in molti, in moltissimi, forse tutti, lo pensano, ma lo tacciono perché sanno che è politicamente scorretto, anzi di più: si rischia il linciaggio.
Ma vabè. Poi ho letto quest'articolo e, in qualche modo, mi ha ferito. Adrienne Rich, che ho amato molto, viene liquidata con l'epiteto "spazzatura". Alla rabbia iniziale di leggere un simile giudizio, è seguita l'irrefrenabile riflessione - dico irrefrenabile perché i ricordi di quello che leggo o vedo o penso, emergono in un modo completamente estraneo alla volontà: sento che mi prendono per mano e mi guidano da sé, i nessi. Bloom si esprime poi così:

"se un lavoro non possiede splendore estetico, forza cognitiva e autentica originalità, non vale la pena leggerlo. La letteratura è un' epifania individuale e non deve avere alcuna valenza di riscatto socio-politico" (...) "I miei autori preferiti restano Dante, Shakespeare, Cervantes, Faulkner, Omero, Proust e Wilde, perché espandono la nostra coscienza senza deformarla. E toccano l' individuo, senza pretese di cambiare il mondo"

Per me, il problema dell'impegno nella vita non è affatto scisso dalla questione dell'impegno dello scrittore. Certo, dire "non è affatto scisso" non significa "necessariamente legato". Semplicemente, c'è un gioco di rimandi che mi costringe a pensarli insieme, anche se poi si tratta di questioni diverse.
Stasera sono stata ad un piccolo spettacolo organizzato fra l'altro da Amnesty, "L'essenziale invisibile". In quest'occasione, tutto l'accumulo di contenuti sul tema che avevo sedimentato in così tanto tempo, ha finalmente preso una direzione. Ho ascoltato delle poesie con molto piacere, salvo poi udire parole che ho trovato inautentiche: si parlava di prigionia, dell'amore della pace, del diritto di amare; la mostra fotografica aveva un solo oggetto: l'oppressione dei popoli, la fame, la povertà. Mi sono irritata. L'interesse per il sociale assunto dall'arte la tradisce. Ho pensato alla poesia esattamente nei termini con cui Bloom ha parlato della letteratura, questa è un'epifania individuale ed espande la coscienza ; se subordinata ad assunzioni socio-politiche la si de-vitalizza, le si toglie la sua verità. Un poeta che scriva del sociale, è un poeta che scrive a tavolino, che ci ragiona: dov'è l'illuminazione febbrile? L'unica sincera, per me.
Io nella poesia, nell'arte, ho sempre trovato la rappresentazione dell'inafferrabile verità, dell'indicibile che pure, dentro, conosco. La poesia è tragica, l'arte lo è, perché assume fino in fondo il contrasto, e, come si dice, lo sublima, perché lo racconta così perfettamente. L'attivismo , mi è sembrato, non racconta la verità, è, come il lavoro, un modo per passare il tempo, un modo per dare un senso a tutto questo. Ma la libertà e la condizione umana forse sono meno schematiche di quanto l'attivismo vuol far credere. La libertà è un concetto così univoco come promettono gli engagés? Coincide davvero con la felicità? Durante la serata è emersa infatti una rappresentazione decisamente schematica della realtà: da un lato l'oppressione, dall'altro la libertà. Che è felicità...

Ho osservato il cameratismo goliardico e l'atmosfera liceale dei ragazzi cosiddetti attivisti e ho pensato che non avrei potuto condividere molto con loro. Ho pensato: perché le foche libanesi e non gli scoiattoli del Tagikistan? Ogni volta che mi sono confrontata con un attivista, ho sempre provato un senso di incomunicabilità gravissimo, mi sono sentita sola, schiacciata da tanti ismi, e ho trovato negli occhi del mio interlocutore una certa frivolezza: non autentico interesse, ma voglia di avere qualcosa da fare e persone con cui condividere questo fare. Ho sempre trovato più affine a me il solitario affranto piuttosto che l'impegnato. Quello che oltre a combattere per i diritti di x e y è sempre in prima fila nelle assemblee studentesche, quello che ha sempre il megafono insomma.
Ma io con questo non voglio svilire l'attivismo: solo cogliere una parte della sua fenomenologia, riservandomi però di riconoscergli un senso.
Nell'attivismo, così come io vorrei fosse inteso davvero, c'è qualcosa di fondamentale, un moto emancipativo di per sé irrefrenabile. Chi è attivo crede nel cambiamento, perché ha messo in discussione quello che gli è stato detto o che è comodo credere. In questo senso l'attivista è più disincantato dell'inerte, più sincero di lui.

Tra gli ultimi, ho visto Le diable, probablement che con brutale profondità ha affrontato l'argomento. Da un lato, ci sono i drammi del mondo, dall'altro io. Tra i personaggi, ci sono gli attivisti e l'inerte. Nel film è rappresentato così sinceramente, da suscitare dolore. C'è un'inerzia irredimibile nel protagonista, una persistente immobilità, che muove dalla percezione della vanità di tutto. Una percezione decisamente dolorosa. Solo la morte può risolvere il contrasto di chi osi affrontarlo fino in fondo e senza pietà: non c'è illusione che tenga.
Nel film l'"attivista" dice più o meno questo: "So della vanità delle cose, però sento lo stesso un attaccamento così forte alla vita". L'inerte poi suicidatosi, evidentemente, no.
Si riduce sempre tutto a quel che si sente?
Infatti non riesco a fare a meno di interessarmi a certo sociale e politico. Sento un'irrefrenabile interesse e desiderio di cambiare molte cose che tecnicamente non dipendono da me, così come sento un'irrefrenabile indifferenza per molte altre. Non posso motivare fino in fondo questa condizione, posso solo assumerla come tale.
Allora ecco la mia idea. La mia idea assume il tragico della poesia e dell'arte che raccontano le contraddizioni di questa vita. C'è uno scarto incolmabile in cui vivo, fra la prospettiva individuale e quella universale: non so risolvere la loro conciliabilità, ma sono due poli di attrazione che in qualche modo indirizzano i miei percorsi. Forse il senso è vivere la contraddizione fino in fondo, senza la pretesa di annullarla in un unicum, accettare la polivalenza e a partire da questa cercare ancora.

PS: Senza Nicola non ci sarei mai arrivata, credo.

4 commenti:

  1. Grazie per la segnalazione dell'articolo di Bloom,e grazie a te per l'onestà intellettuale e la lucidità con cui hai dato voce a fondatissimi dubbi sul dovere del cosidetto sociale nell'arte,quasi una conditio sine qua non che ho sempre trovato limitante...quanto alla sbrigativa definizione di "spazzatura" riguardo a King e a Rich,beh,credo sia da prendere con le pinze,è un punto di vista piuttosto arrogante,da quasiottantenne carismatico onnipotente con la salute sgangherata...e il bastone !!;))
    Ciao
    Barbara

    RispondiElimina
  2. Beh, anch'io in un primo momento confesso di averlo trovato arrogante. Ma adesso gli riconosco il merito di avermi fatto pensare meglio alla questione, perché la sua opinione nega la contraddizione, e anche grazie a lui ho capito che è di estrema importanza assumere la contraddizione come tale.

    RispondiElimina
  3. Dio mio quasi perfetto. Per me intendo dire. Cioè sottoscrivo in pieno. Insomma io nel "sociale" ci lavoro e non avrei saputo descrivere meglio la sua ambivalenza. E poi in quello "scarto incolmabile fra la prospettiva individuale e quella universale" ci vivo anch'io, da sempre. E' difficile leggere riflessioni così interessanti: sono obbligato a postarti sul mio blog. Grazie. Giovanni

    RispondiElimina
  4. Dici bene, si tratta di un'ambivalenza costitutiva. Grazie

    RispondiElimina

Per motivi imperscrutabili, capita spesso che i commenti spariscano nel nulla. Io tolgo solo insulti e spam. Meglio perciò eventualmente salvarli e riprovare.