Scritto per liberareggio.org
Oggi nel corpo delle donne si condensano i modi dell’oppressione femminile. Esso è segregato nelle gabbie di un marketing massmediatico improntato al sessismo, ultimo insospettato erede della secolare cultura maschilista e patriarcale. Negli anni ‘60 il corpo era la sede della liberazione, quel crocevia ideale e reale a partire dal quale avviare l’emancipazione; le donne cominciavano a cercare il proprio piacere, a renderlo autonomo da quello dell’uomo, a conoscere il proprio corpo prima monopolizzato dai fini cui questi aveva deciso di destinarlo, come la procreazione e la seduzione; oggi torna ad essere la sede della mercificazione, della reificazione delle donne, ridotte ad appendici erotiche da annettere ad ogni trasmissione televisiva perché il pubblico maschile non venga perduto.
Cosa resta oggi, nelle immagini televisive, nei cartelloni publicitari, nelle idee del femminile che circolano presso il senso comune, delle voci femministe – che avrebbero guardato con orrore a un simile fraintendimento, a una tale degenerazione del concetto di libertà femminile? Non indossiamo il burqa, da queste parti, ma forse pesa su di noi una patina più pesante, perché meno evidente ma decisiva: la patina del corpo inteso come insieme preconfezionato di forme aderenti al modello di bellezza femminile che l’industria culturale promuove assolutizzandolo, e quindi in qualche modo impone nel costume e nell’immaginario collettivo; ciò che a livello individuale si traduce nel rapporto alienato che molte donne bombardate da tanti imperativi estetici hanno col proprio corpo, nel senso di ansia e di inadeguatezza là dove ci si discosti da essi, nel ricorrere a correzioni d’ogni sorta per aderirvi con più successo.
E’ come se le donne facessero di tutto per nascondersi e così negare se stesse, e l’industria televisiva usasse tutte le sue energie per incoraggiarle in questa direzione: è, evidentemente, una vincente strategia di marketing. Forse molte accettano un tale stato di cose perché quella della seduzione è stata l’unica vera forma di potere che sia stata loro mai riconosciuta, l’unico modo con cui possono tenere il maschio sotto un giogo e così reagire all’oppressione facendone una specie di riscatto, o perché ancora durante la loro formazione non hanno conosciuto alternative a partire dalle quali costruire la propria identità, dei modelli altri di donna in cui ritrovarsi – ipotesi questa a mio avviso più che probabile. Lungi da me, però, dipingere le donne come mere “vittime”; esse sembrano rivelarsi infatti insospettabili complici ( inconsapevoli?)del sistema che le opprime.
Una seduttività così intesa, una seduttività erta a modello normativo del femminile, diventa il luogo dell’alienazione: lei esiste solo per lui, in funzione del suo godimento, della sua approvazione, sino ad interiorizzarne lo sguardo e perdere così definitivamente se stessa, replicando dei paradigmi che si credevano definitivamente sepolti con la rivoluzione femminista. Ma dietro il gioco seduttivo, dietro la dinamica duale si nasconde un terzo artefice, il mercato televisivo e pubblicitario, che sfrutta gli stereotipi sessisti per fini commerciali. Il corpo delle donne è al suo servizio. Sembrerà retorico ricordare che mai come adesso la vecchia massima kantiana per la quale gli esseri umani andrebbero trattati come fini e mai come mezzi, pena la ricaduta nella barbarie, ha subito un radicale rovesciamento. Il mezzo del corpo femminile ridotto a strategia d’intrattenimento, a criterio privilegiato di attrazione del consumatore, funziona perché fa leva sulla parte più animale, primordiale, degli uomini; esso evoca – neanche allusivamente, ma in modo pornografico – il coito per far presa sulla parte più debole del maschio, gli promette un piacere che però, come diceva Adorno, è frustrazione, spingendolo così a dimenticare la sua dimensione civile, esistenziale, viva, e in definitiva reificando anche lui, attraverso una specie di ipnosi a sfondo sessuale che sembra cancellare le mediazioni della coscienza, e va dritta all’istinto, onde assicurarsi la fedeltà al programma.
La deformazione dell’idea di bello, ridotto alla semplice adesione al modello mediatico femminile della presunta perfezione, al possesso di un paio di curve e di un sorriso sciocco, la sua subordinazione tanto alle logiche di mercato e alle statistiche dell’audience, quanto a un concetto di sessualità senza relazione, deformato e imperialista, morbosamente insistente e sempre decontestualizzato, forse non renderebbe l’idea dell’oppressione, se non si tenesse conto anche solo di alcuni aspetti importanti: in tv è quasi sempre l’uomo a parlare mentre la donna gli fa da contorno decorativo; se è la donna a condurre la trasmissione deve essere necessariamente bella, requisito che sembra non risultare essenziale per un uomo; la tv non propone modelli alternativi di donna, non c’è diversificazione, ma è come bloccata nella proposta della sempre uguale polarità: bellaemuta/bellaeparlante (dove ovviamente la prima supera quantitativamente la seconda); abitualmente si fa slittare il discorso sugli attributi fisici anche quando il contesto non lo richieda affatto, per criticare o approvare una donna; le regie delle più disparate trasmissioni preferiscono labbra, gambe, seni di una donna che magari in quel momento sta parlando della fame nel mondo, alle inquadrature del volto, in una sorta di sineddoche visiva incompiuta, perché la parte non rinvia al tutto, ma semplicemente lo ignora.
Queste e altre realtà reintroducono nel presente una sfilza di dicotomie a suo tempo aspramente contestate dalle femministe, ove l’uomo è il discorso, il pensiero, la cultura, e la donna istinto, natura, ma non già emozione, dato che l’attrazione sessuale che si vuole suscitare mediante l’esposizione bruta del suo corpo imbalsamato è ben anteriore alle emozioni: è pura e semplice brutalità. (Per farsene un’idea basta, non solo fare zapping in tv durante un qualunque pomeriggio della settimana, ma anche dare una scorsa a questo blog interamente dedicato al rapporto autocoscienza femminile/donne nei media, sondato anche attraverso l’analisi critica di alcuni famosi programmi televisivi).
Gli uomini sono più rappresentati dai media, c’è, per così dire, più democrazia quando si tratta di loro. Al contrario, manca un pluralismo femminile, una rappresentanza adeguata delle donne: tutte le diverse donne esistenti vengono ridotte al solo monolitico stereotipo della belloccia senza cervello in balìa del maschio, dal quale è non di rado espressamente ridicolizzata suscitando magari presso di lei una per noi ributtante risata. Quella risata è il simbolo del “fallimento” del femminismo, in essa si condensa l’ignoranza, la totale mancanza di autocoscienza femminile e di spirito critico, l’adesione passiva al diktat estetico e caratteriale di turno, la subordinazione cieca a logiche di mercato sessiste scambiata per libertà.
Basta guardare 5 minuti di Sarabanda, quel grottesco programma che va in onda ad un orario diurno senza che nessuno abbia da ridire, in cui risulta impossibile trovare un nesso tra l’insistenza ossessiva delle inquadrature del corpo della velina e il format della trasmissione, che dovrebbe consistere in un quiz musicale: qui la decontestualizzazione.
Le differenze vengono azzerate, in un caparbio esercizio di semplificazione e di uniformizzazione della realtà che si pretende di rappresentare e che a un tempo si crea. Così uno degli assi teorici portanti del pensiero femminista, la rivendicazione di identità femminili diverse e individuali contro le categorie essenzialiste d’ogni sorta e le facili equazioni che per secoli hanno dominato, vedi donna=madre, donna=sensualità, donna=debolezza/emotività, ecc. subisce l’ennesima dissoluzione: in questo caso è la categoria donna-corpo, donna-oggetto erotico a sopraffare, cancellandola, ogni individualità femminile.
Considerando l’enorme potere educativo e di orientamento del costume della televisione, tutto ciò fa presto a tradursi nell’imbarbarimento generale delle nuove generazioni sin dalla tenera età educate a disprezzare le donne, mentre persiste il senso di umiliazione di quelle che non si riconoscono in quel modello, che non si sentono affatto rappresentate dalla tv, che provano un fastidio indicibile, segnato dalla mortificazione e dal disgusto, nel vedere così trattato il proprio sesso con l’approvazione di tutti e che – pensano – già da tempo avrebbe dovuto muoverci a un dissenso intransigente.
Ne risulta un’alienante condizione per cui da un lato chi non ha gli strumenti per criticare il sistema vi aderisce ciecamente così contribuendo al suo ulteriore successo , dall’altro chi questi strumenti li ha non trova altre possibilità che ripiegare verso se stesso/a, estraniandosi.
Una società così pervasivamente dominata dai media non fa nulla per promuovere nelle donne (e in tutti, aggiungerei, ma nelle donne in particolare dato lo stato di cose) l’intelligenza e lo spirito critico, dal momento che il suo scoraggiarli è proporzionale alle possibilità di guadagno; evidentemente la complessità non fa audience perché costringe le persone a pensare, a trascendere la pura animalità che invece ha una presa immediata sullo spettatore inerme. Pongo l’accento sull’aggettivo “immediato” non a caso, perché un aspetto cruciale è proprio quello dell’assenza di mediazioni culturali, le stesse che dovrebbero distinguere l’essere umano dall’animale. Dal momento che questa animalità viene evocata con la monopolizzazione dei modelli, attraverso la drastica decurtazione di tutte le alternative normative possibili, mi chiederei quanto spazio ci sia per la libertà, quel concreto e attuale poter scegliere fra più alternative, specie in fase di formazione, quando per la prima volta ci affacciamo al mondo e in modo ineluttabile ne assorbiamo i caratteri normativi?
E’ come se ci fosse stato rubato il corpo, come se non fossimo più padrone delle nostre vere facce, come scrive Lorella Zanardo, in una parola delle nostre identità: come se non ci fosse più permesso di essere noi stesse.
Ne parla meglio di me questo video andato in onda su La7 qualche mese fa, molto efficace e incisivo, perché va al nocciolo della questione, che fra le altre cose ha ispirato questo articolo e consiglio vivamente di guardare a tutti. Esso si conclude con un quesito cui non riesco a rispondere che con incertezza e confuse congetture: perché non ci arrabbiamo?
Quello di cui parli in questo post è un argomento che mi sta particolarmente a cuore...
RispondiEliminaMi piacerebbe citarlo nel mio blog!
Me ne dai il consenso? Ovviamente con debita sottoscrizione :-)
Fai pure!
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