Considerazioni sparse sul libro di D.Winnicott
Trovo geniali le intuizioni di Winnicott sulla genesi delle esperienze culturali. Esse sarebbero il naturale prolungamento di quello che, nei primi anni di vita, è stato il gioco.
Nel gioco rintraccia una sorta di area intermedia tra il soggetto e il mondo esterno. A suo avviso, focalizzare, come si è sempre fatto, solo sull'uno o sull'altro porta a ignorare quella sorta di terzo luogo in cui si sviluppano delle dinamiche decisive per la vita futura; questo luogo, dice, non è il soggetto ma non è neanche l'oggetto. "Se noi guardiamo alle nostre vite probabilmente scopriamo che noi passiamo la maggior parte del nostro tempo né nell'agire né in contemplazione, ma in qualche altro posto".
Quello che genericamente chiamiamo gioco rappresenta, per semplificare, la libertà di essere creativi, di essere se stessi e interi, che è il frutto di un lungo e faticoso processo ove l'interazione mamma-bambino è protagonista.
La dinamica fra i due sin dai primi giorni di vita del lattante, è improntata a sua volta al complesso meccanismo della illusione/disillusione, o fusione/separazione: la "madre sufficientemente buona" saprebbe gestirlo in modo da permettere la creatività.
L'illusione consiste nella convinzione preverbale di onnipotenza nel bambino, per cui egli non sa ancora di essere qualcosa di separato dalla madre, dato che la percepisce come una sua naturale creazione al bisogno. Essa esiste perché il figlio onnipotente la crea: qui l'illusione. La madre, per parte sua, deve illuderlo, salvo in seguito disilluderlo. E' infatti necessario che "la legittima esperienza di onnipotenza da parte del bambino, non venga violata".
Winnicott dedica pagine interessantissime persino allo sguardo che i due si scambiano al momento della poppata: il bambino cerca se stesso nel volto di sua madre ("il precursore dello specchio è la faccia della madre"); là dove non vi si trovasse, per esempio nel caso che prevalessero gli "umori" della madre sulle necessità del bambino, si andrebbe incontro a una distorsione del processo: non sarà libero di essere creativo per far spazio a quella che Winnicott chiama compiacenza. Essere compiacenti significa sviluppare un falso Sé, un sé che si adatta alle richieste identitarie dell' ambiente sociale; un Sé che, per far spazio all'immagine che ne hanno scelto gli altri, occulta se stesso e si perde.
Illuminante in questo senso l'illustrazione del caso clinico di una donna malata per il "troppo fantasticare".
"Mentre giocava i giochi degli altri era sempre impegnata nel fantasticare"
"In ogni momento, senza saperlo, mentre era a scuola e più tardi al lavoro, c'era un'altra vita che procedeva nei termini della parte dissociata". Ella non era in grado "di raggiungere quello stato di riposo da cui può scaturire un atteggiamento creativo".
Per quella donna ciò che non è esiste di più, è più reale di ciò che è, e il fantasticare tenderebbe a render giustizia a questo. Come se la fantasia si installasse disperatamente nello spaccato insanabile tra ciò che si era e ciò che si è dovuti diventare.
(Fra le altre cose, penso che sarebbe interessante reinterpretare le vicende di una Madame Bovary alla luce di queste righe).
C'è una "necessità dell'individuo di raggiungere l'essere prima del fare" altrimenti il fare "non ha significato per l'individuo". Al proposito mi vengono in mente le pagine di Alice Miller dedicate alla necessità di amare la persona per se stessa e non attraverso quello che essa fa, altrimenti l'oggetto dell'affetto falsato finirà per passare la vita a cercarsi per mezzo dell'approvazione dei suoi prodotti: il disturbo bipolare alterna euforia e depressione nello stesso modo con cui un falso Sé si adatta alla sua accettazione o mancata accettazione da parte degli altri, che lo amano solo a determinate condizioni. Penso al teatrante che alterna riso e pianto davanti a una platea che gli concede crudelmente ora fischi ora applausi; in quella disperazione delirante si esprime l'io mancato di una persona a cui non è stato concesso essere e manifestarsi per se stessa in modo autentico. Essa ha conosciuto un processo fusione/separazione fallito, poiché, se la separazione è il presupposto dell'identità, una stortura in questo cammino si riflette sulla costruzione dell'identità, che sarà barcollante e incompiuta.
Ma presumo che copiosi volumi di psicologia abbiano trattato a dovere l'argomento.
Chi vive nella compiacenza, secondo Winnicott non potrà mai essere pienamente creativo. Cercherà di esprimere se stesso attraverso questa o quella creazione artistica, ma vivrà sempre quella tensione che deriva dalla scissione del falso Sé. "La creazione compiuta non risana mai la sottostante mancanza del senso di sé". Come se quelle creazioni fossero tentativi disperati di riesumare un sé sopraffatto dalle macerie di un vivere troppo adattativo e mai espressivo.
Le cause di questa dissociazione, hanno radici molto lontane: Winnicott accenna a una "cura" che la madre aveva adottato per la sua bambina quand'era piccolissima, consistente nel levarle il "vizio" di succhiare il pollice.
Qui emerge una delle idee centrali di Winnicott, per le quali è passato alla storia, fra l'altro, l'idea degli oggetti transizionali, oggetti o abitudini con cui il bambino stabilisce un contatto costante che mediano appunto la transizione dall'io "onnipotente", dal controllo magico degli oggetti, al suo scontro doloroso con la consapevolezza che esiste un mondo esterno autonomo, quello che l'autore chiama di tanto in tanto non-io.
Il passaggio è lungo e comporta molta sofferenza. Esso rientra nella dinamica menzionata dell'illusione/disillusione: gli oggetti transizionali si collocano in quell'area terza in cui, in modo prelogico (ed è come se Winnicott ne desse solo una definizione negativa, non afferma ma toglie) vengono poste le basi dei futuri interessi culturali, nonché le basi della persona stessa. C'è insomma una sorta di linea continua che va dal gioco alla creatività culturale, con tutto quell'insieme di cose a cui queste vaghe ma a un tempo precise parole rimandano; e c'è nel gioco qualcosa di fondamentale per la costruzione dell'identità.
La transizione tra i due "stadi" - termine che dà un'idea di immobilismo ed è classificatorio, quindi forse inadatto - ha luogo attraverso un processo particolare. Il bambino con gli oggetti transizionali sostituisce la madre. Il che implica che, togliergli l'oggetto, significa in qualche modo togliergli la madre, che è in ultima istanza la risposta ai suoi bisogni, sia pure indistinta rispetto ad essi; la madre è cioè, in un primo momento, lui stesso.
La madre, gli oggetti, devono inizialmente illuderlo rafforzando il suo essere onnipotente, il suo essere tutto. Gradualmente, egli affronterà una fase distruttiva, in cui la madre è oggetto di un'"aggressività" che ha il preciso scopo di saggiarne la realtà. Non è tuttavia un'aggressività che scaturisca dalla rabbia, perché semmai porta alla "gioia per il sopravvivere dell'oggetto".
Il compito della madre è, per Winnicott, sopravvivere a questi tentativi di distruzione. Lei deve continuare a esistere, e saper gestire il passaggio in cui il bambino lentamente apprende che la madre è altra cosa da lui, che le cose non sono se stesso. La "madre sufficientemente buona" dovrà allora lentamente disilluderlo, privando il bambino dell'adattamento totale ai suoi bisogni, in modo da fargli "tollerare i risultati della frustrazione" nel "più arduo di tutti i primi insuccessi" : ecco la separazione dopo la cosiddetta "fusione", un processo che in qualche modo forse non finisce mai.
"Se tutto va bene il bambino può in effetti ottenere un guadagno dall'esperienza di frustrazione, poiché l'adattamento incompleto al bisogno rende gli oggetti reali, vale a dire odiati altrettanto quanto amati".
L'importanza di questo percorso è dovuta alla possibilità di imparare la fiducia.
"Là dove c'è fiducia o attendibilità, vi è uno spazio potenziale che può diventare un'area infinita di separazione che il lattante, il bambino, l'adolescente, l'adulto, possono creativamente colmare con il gioco, che col tempo diventa il godimento della eredità culturale"
Interessantissima a questo proposito l'analogia con la pratica della psicoterapia. Winnicott riporta una serie di esempi di sedute, in cui lo psicanalista funge per così dire da oggetto transizionale per il paziente; egli lo vuole distruggere, perciò il suo compito essenziale è non già fornirgli interpretazioni e pseudorisposte, quanto piuttosto sopravvivere all'atto distruttivo. Il percorso così tracciato, porterebbe poi spontaneamente all'emersione dei nodi irrisolti da parte dello stesso paziente: un'eventuale interpretazione inibirebbe il processo transizionale, falsando le possibilità di cambiamento.
C'è insomma qualcosa di essenziale nei primi momenti di vita, delle dinamiche inafferrabili che in modo relativamente graduale tracciano delle linee indelebili sul "poter essere" di ciascuno. Noi innestiamo la nostra identità su un solco che è stato già tracciato, ma che resta aperto. Soprattutto, la cultura qui manifesta la sua essenzialità in rapporto a ciò che siamo, il suo essere il prolungamento di quel qualcosa che, da bambini, definiva il nostro primo rapportarci al mondo. Noi sperimentavamo noi stessi, ci misuravamo e allo stesso tempo misuravamo per la prima volta le cose, attraverso un'"attività" come il gioco che persiste dopo nelle forme impensate delle esperienze culturali. Sembra che il gioco nel bambino, e la cultura nell'adulto, abbiano un ruolo centrale nella definizione del senso dell'esistenza della persona. Infatti, là dove manca il gioco, manca, in qualche modo, un io completo, pronto per diramarsi a partire da un intero che è intatto solo perché qualcuno ha amato, per così dire, nel modo "giusto".
Ma qual è il modo giusto? Non possiamo chiedere a un libro teorico di essere quello che non è, e cioè un manuale. Benché mi piacerebbe saperne di più, apprezzo comunque il senso di apertura delle definizioni di Winnicott, che forniscono l'essenziale come su un piatto - esso è senza condimenti, e lascia agli astanti la libertà e l'opportunità di abbinarli eventualmente nel modo più adatto.
Per concludere, riporto un passo che rende in maniera intuitiva un aspetto fondamentale del discorso: "Considero alla stessa stregua il modo di godere altamente sofisticato della persona adulta rispetto alla vita, o alla bellezza o all'astratta inventiva umana, e il gesto di un bambino, che tende la mano alla bocca della madre, e che tocca i suoi denti, e che al tempo stesso la guarda negli occhi, e la vede creativamente".
"Benché mi piacerebbe saperne di più, apprezzo comunque il senso di apertura delle definizioni di Winnicott, che forniscono l'essenziale come su un piatto - esso è senza condimenti, e lascia agli astanti la libertà e l'opportunità di abbinarli eventualmente nel modo più adatto".
RispondiEliminaPer ogni buon libro dovrebbe essere così! Anzi non solo per i libri... Lasciare un margine al combinatorio è quanto di più auspicabile, sempre.