Appunti di Storia moderna

mercoledì 26 luglio 2017

Microgerarchie quotidiane

Ci sono alcune persone con cui, per relazionartici, devi sempre in qualche modo mostrare quel minimo di subordinazione che rende loro la conversazione tollerabile. Questo è possibile solo nei termini da loro stabiliti: in realtà, nessuna relazione, solo un rapporto univoco, dove tu hai sostanzialmente la funzione di conferma del loro ego. C'è come dire tutta una psicologia del ranking dietro. Niente di esplicito, sia chiaro, lo si capisce da un certo modo di fare.
Tutto nel loro atteggiamento dice: ''non siamo pari'', oppure ''spiacente, mi concedo a pochi''. Gli costa moltissimo, per esempio, darti una qualsivoglia, minima e ridicola soddisfazione, come che ne so, quelle cose anacronistiche come essere gentili gratis, o qualunque cosa in generale presupponga il considerarti come una persona con una storia e una sua dignità: impossibile senza che te lo sia guadagnato abbassando un pochino la testa con qualche piccolo segno di sottomissione [ringraziare più del dovuto, sorridere troppo, essere sempre tu a sollecitare la relazione, ripetere qualche frase di adulazione, o semplicemente, essere la persona che loro vogliano tu sia, e simili]. Se ti concedono qualcosa, cioè se ti considerano più del minimo politico per continuare ad esserti superiori, quando capita te la fanno subito pagare. Si affrettano a ridimensionare l'azione compiuta, sempre per dire: ''ehi, comunque non credere di valere più di quanto io possa tollerare''. Il dubbio che questo estremo contegno dai tratti dominanti sia un'altra faccia dell'insicurezza - come una paura del rifiuto degli altri, o di perdere il controllo - è allora difficile da fugare. 
Queste persone si prendono licenze che - loro lo sanno - non sono per tutti. Non tutti possono, per esempio, non rispondere a una mail o a un messaggio [è davvero solo un esempio fra gli altri] o essere più scortesi del tollerabile con quella nonchalance che solo le personalità dominanti possono permettersi, e poi fare finta di nulla quando ti reincontrano, come fosse la cosa più naturale del mondo. In qualche modo, nella conversazione, devi piegarti un pochino al loro ego, quel tanto che basta per far capire che comunque non intendi mettere in discussione che valgono tantissimo. Non sia mai. 
Ci sono intere esistenze edificate sopra questa specie di ricatto psicologico. Queste forme di micro-dominio quotidiano segnano territori, alzano staccionate, pompano alcuni ego e ne sgonfiano altri, continuamente ridisegnano gerarchie invisibili fra le persone. 
Talvolta faccio tutto quello che gli serve perché possano rivedere confermata la propria immagine di sé, perché penso che si tratta fondamentalmente di una debolezza e decido, in silenzio e fingendo di non vederla, di essere complice di quest'impalcatura che si sono costruiti per continuare a volersi bene. Per esempio, ho detto a un tizio che aveva tutte le caratteristiche del micro-dominante, che ha un talento straordinario: non che non penso davvero sia bravo, ma l'ho detto con il preciso obiettivo di farlo sciogliere un po', di fargli capire che poteva fidarsi di me o qualcosa del genere. Però serve a poco. La truffa di fondo rimane - il ricatto psicologico appunto - e questo rende davvero impossibile la relazione. Oltre una certa soglia non puoi andare, c'è una barriera. 
Altre volte mi irrita molto, e non posso fare altro che sottrarmi alla relazione. C'è un aut aut invisibile: o sei come dico io, oppure non puoi parlarmi. Quando è così, i nostri ciaone non saranno mai abbastanza. Mi stacco un attimo da questo microcosmo miserabile popolato da manici di scopa e ego claustrofobici, e guardando la cosa da lontano, altezza universo, ne vedo le giuste dimensioni: non posso che ridere, allora, perché loro non le conoscono. C'è fondamentalmente un errore di valutazione alla base, un fraintendimento epistemico. Magari non è colpa loro, magari glielo hanno fatto sempre credere. Forse da bambini i genitori gli dicevano continuamente ''sei speciale'', perché avevano letto nelle riviste di pedgogia che faceva bene all'autostima, chi lo sa. Eppure, funziona. Essere dominanti - qui in quel senso lì di micro-dominanti -, paga. Gli altri ci credono: credono davvero che chi crede di meritare tantissimo, di valere un sacco più degli altri, alla fine valga davvero un sacco di più e meriti di più. Il fraintendimento epistemico iniziale diventa contagioso. Gli altri credono alla narrazione che fai di te stesso, le danno i crismi della verità e la riproducono. Incredibile. Non è tutta una colossale presa in giro, in fondo? 
Particolarmente aberrante, per me, è tuttavia vedere come questa sovrastima del sé, come dire, si sciolga come neve al sole di fronte a personalità più dominanti di loro, che fanno parte della cerchia di quelli che contano e a cui i nostri manici di scopa vorrebbero tanto appartenere. In quel caso diventano degli agnellini. Inedite forme di cortesia, insospettate creatività relazionale, immaginazione sociale, empatia e solerzia vengono fuori. In fondo, c'è una paradossale coerenza in questo. Infatti, i micro-dominanti quotidiani sono tali in virtù di un preciso presupposto logico: l'idea che c'è una gerarchia legittima, il fatto che degnamente qualcuno possa occupare lo scranno dei migliori, e che ad altri sia da riservare uno spazio inferiore. La paradossale coerenza risiede nel fatto che se è vero che c'è una gerarchia, la stessa per cui io posso pretendere dagli altri forme più o meno innocue di sottomissione, allora è anche vero che al di sopra di me c'è qualcun altro cui va riconosciuto il ruolo di essere più dominante di me: perciò non mi resta che passare al ruolo di dominato, lo stesso che prima riservavo ad altri. Può, qualcosa, farmi più orrore di questa, chiamiamola così, vischiosità morale? Il dominio è a targhe alterne per definizione: presuppone una scala, una piramide, e nella piramide la propria posizione è sempre relativa a un sotto e a un sopra. 

Sono sicura che mia nonna - una contadina dalla personalità prorompente, la cui figura quando era in vita ero troppo sciocca per apprezzare - avrebbe trovato la giusta espressione per questo fenomeno. A un tizio che faceva un po' così, diciamo, se la tirava, disse in dialetto stretto: caro mio, siamo figli dello stesso padre. Cara nonna, come dobbiamo fare? 
Io una risposta ce l'avrei. Serve in primo luogo tanta, tanta ironia. Bisogna saper ridere di se stessi. Ma sul serio, sì ridere sul serio, non per finta. Per ridere di sé, occorre tutta un'operazione guardarsi dall'esterno e vedere i propri limiti; non ultimo, occorre rilassare i nervi: gli stessi che, quando si tratta di micro-dominare, sono tesissimi.
E serve che la gratuità e del piacere reciproco vadano di moda. Serve che le persone si rendano conto, prima che sia troppo tardi, che bisogna spargersi in giro gratis, mettersi in circolazione senza il timore di perdere qualcosa, praticare la gratuità relazionale e guardare alle cose dal punto di vista del piacere reciproco, non dal punto di vista della paura di quanto il mondo possa diminuirci se gli diamo troppo spazio. E' vero: gli altri, spesso, sono una minaccia, e solo con queste tattiche di micro-dominio si riesce a contenerne il potere su di noi. Ma questa è la storia classica. Perché non cambiamo storia? Ecco cosa serve: il coraggio di cambiare storia - la storia che ci raccontiamo sugli altri, su noi stessi, e su chi sa quante altre cose. L'immagine del castello di carta non potrebbe essere, ancora una volta, più pertinente. 

3 commenti:

  1. Questo è un mio punto debole. Non riesco proprio a reggere questi comportamenti, specialmente in ambiti nei quali non sarebbero per nulla necessari come amicizie o associazioni di volontariato.
    Tempo fa, mi ribellavo a queste persone e cercavo di smontare la loro costruzione egocentrica, rispondendo con sarcasmo e cercando di mostrare che non sono quel granché che si credono. Non funziona quasi mai. Iniziano faide eterne. Hanno bisogno di quello che cercano continuamente, di quest'affermazione sugli altri, forse perché sono personalità narcisistiche e quindi insicure. Ultimamente, invece reagisco evitando la persona. Che se la veda con qualcun altro. Che il deserto che gli si farà attorno quando tutti faranno lo stesso, gli faccia imparare qualcosa.

    Per coincidenza, proprio ieri avevo trovato un altro articolo a tema simile: https://c4ss.org/content/49600

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    1. Condivido il tuo approccio maturo. Ci vuole pazienza per stare dietro a questi giochetti, e a un certo punto uno preferisce impiegare il proprio tempo altrove. Ho però meno fiducia di te circa il deserto: no, quelle persone funzioneranno, come ho scritto il loro racconto di sé è creduto dagli altri.

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  2. Benvenuta nel mondo della carriera accademica...

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