Appunti di Storia moderna

martedì 16 luglio 2013

Il non detto

Appunti ridondanti su un aspetto del fantastico mondo delle relazioni.

Definirei il non detto come un’ingombrante assenza, come un fantasma nelle relazioni. Il non detto è scivoloso e prepotente. E’ un’omissione che vuole comunicarsi proprio in quanto omissione: mi taccio, ma sottolineo e comunico (senza le parole) che ho scelto di tacermi - per imperscrutabili motivi; perché anche le ragioni dell’ostentato silenzio sono, naturalmente, non dette. Sicché spesso proprio per instillare – in modo talora un po’ cattivo, quasi sempre compiaciuto – il dubbio, si tace. Quindi è un silenzio che parla, un’omissione che insiste, un togliere che pone, un apparentemente mesto non che è con dissimulata prepotenza.
In questo suo porsi nascondendosi spesso agisce o vuole agire come causa di una reazione nel prossimo, cui questa intenzionale omissione è indirizzata. Per esempio, molto spesso la reazione che si vuole suscitare è il senso di colpa. Altre volte, si vuole sottolineare un concetto già espresso proprio rimarcando il venir meno della comunicazione.
Il non detto è un'istanza di comunicazione subdola, obliqua, indiretta, asimmetrica e codarda. Significa impedire ai partecipanti alla relazione di, appunto, relazionarsi, e di farlo con gli stessi mezzi. E' un relazionarsi ad armi dispari che vuole disorientare. Spesso, allora, il non detto prende le mosse da una debolezza che sa di essere debole, e per recuperare terreno lo fa con un atto di forza – io ti tolgo i mezzi della relazione per confonderti, di modo che io alla fine io sono più forte.
Ma non sempre il non detto vuole essere causa di alcun ché: spesso vuole evitare, anziché suscitare, delle reazioni. E’ frequentissimo, infatti, non dire quello che si pensa per evitare per esempio un conflitto con un interlocutore. Il non detto come prevenzione del confronto o della reazione può essere giustificato, ma dipende dai contesti. Spesso è dovuto alla pigrizia del dare e ricevere ragioni. Qui escludiamo infatti tutte le altre condizioni in cui può darsi il non detto: antipatia, mancanza di interesse per la persona o l'eventuale argomento, eccetera. In questo caso, ovviamente, nulla da eccepire. Escludiamo anche la sfera del non detto in senso positivo; quell'enigmaticità intrinseca a ogni comunicazione, che è fra l'altro fonte di emozioni e curiosità. Qui consideriamo solo il non detto come silenzio ostentato, come non comunicare che tuttavia vuole comunicare ma senza accollarsi la responsabilità del confronto.
Il non detto diventa problema quando, di fatto, è un dire che non usa le parole e proprio nel non usarle vuole trasmettere un contenuto, magari di rancore, ma non necessariamente. Il non detto, in questo modo, consente alla persona di dire qualcosa che di contro non dice, così evitando di esporsi, cioè di mettere in conto il rischio della relazione. L’altro viene sottratto degli strumenti razionalmente controllabili – le parole, i contenuti – ma viene al contempo invitato tacitamente a confrontarsi con strumenti che trasmettono contenuti ambigui e sfuggenti, proprio perché rifugiatisi nelle rassicuranti pareti del non detto. Privando l’altro della trasparenza nella comunicazione, si indebolisce il suo potere d’azione e si rafforza il proprio. Il tutto è ottenuto, però, in modo tendenzialmente scorretto.  Si affida la comunicazione ai sottintesi, al contesto, alle espressioni facciali, meglio ancora: alle supposizioni. La sfera del supporre subentra a quella del capire. Il feedback cade nella vaghezza. Una nuvola di fumo sostituisce la trasparenza. Si scappa anziché affrontare la relazione con l’altro.
Il non detto è, comunque, una forte istanza di comunicazione, alla quale è preferibile, tuttavia, la comunicazione in atto: non quella in potenza. Non è infatti prevedibile quali saranno le reazioni dell’altro, come interpreterà il non detto: è vero che la comunicazione non è mai veramente lineare, e anche quando si usano le parole il feedback dell’interlocutore è imprevedibile; tuttavia, proprio in virtù del potenziale casino insito nel comunicare, meglio mettere carne sul fuoco anziché toglierla per stimolare inferenze incontrollabili, che possono sortire gli effetti opposti da quelli desiderati.
Per esempio, facciamo finta che z e j siano amici. Z ultimamente è un po’ scontento per alcuni atteggiamenti di j – perché non gli ha telefonato per andare a mangiare la pizza, come fanno di consueto ogni giovedì. Quando j lo chiamerà, poniamo, il sabato, z alla domanda “ehi, c’è qualcosa che non va?”, risponderà “nulla”, cambiando argomento, magari ostentando noncuranza, proprio per far capire che non è vero che “Nulla”. J, chiuso il telefono, comincerà a domandarsi dove ha sbagliato. Si torturerà per giorni senza trovare una risposta, benché più volte abbia posto a z la stessa domanda. Alla fine dunque j sarà un po’ seccato e penserà che z, in fondo, sa essere proprio uno stronzo. Il gelo cadrà sulla relazione z-j, per un periodo imprecisato, che potrà finire soltanto quando z si deciderà a comunicare tranquillamente e direttamente a j il suo non detto. In questo caso dunque il non detto è generato da rancore e magari un po’ di orgoglio, e vuole generare senso di colpa. L’unica cosa che ottiene, invece, è uno stallo comunicativo, confusione, contorsioni emotive senza sbocchi, freddezza inutile.

Le relazioni sono, molto spesso, sede di dinamiche di potere, volute o subìte, da cui probabilmente è molto difficile, se non impossibile, liberarsi. Il non detto è un caso voluto di esercizio di potere, cattivo e dannoso, perché vuole mettere l'altro spalle al muro, senza tuttavia correre il rischio di questo implicito aut aut; senza esporsi alla risposta dell'altro. Il non detto può essere una reazione sfuggente al potere che l'altro esercita su di noi; una sorta di punizione psicologica: tu hai un potere su di me, allora io te lo tolgo con le armi del disorientamento, della confusione, del venir meno eloquente ma di non si sa bene cosa. E' un modo per riscattarsi, il cui significato ultimo, però, consiste in fondo soltanto in una forma più o meno sofisticata di vendetta relazionale - con tutto il contenuto di codardia e di rabbia cui ogni tentativo di vendetta rimanda. Trovo dunque che il non detto sia moralmente sbagliato (magari non lo è da altri punti di vista).
In conclusione, se si vuole ottenere un determinato effetto (se si vuole comunicare), parlare è meglio che tacere. E lo so che detta così sembra una banalità, ma data la frequenza con cui si ricorre a siffatti stratagemmi pseudocomunicativi, evidentemente non è per nulla scontato.

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