Scritto per recensionifilosofiche
Il volume raccoglie alcuni fra i testi
più rilevanti pubblicati nel decennio 1979 - 1989 da Axel Honneth, esponente
della terza generazione della Scuola di Francoforte; essi sono esemplificativi
dell'evoluzione teorica dell’autore, culminata nella più tarda e compiuta teoria
sociale normativa del riconoscimento consegnata al testo del '92 Lotta per il
riconoscimento. Gli scritti preannunciano in modo abbozzato e programmatico,
all'interno di contorni teorici ancora in via di definizione, obiettivi di
analisi che si dispiegheranno sistematicamente solo negli anni
'90: nel volume il percorso si articola in
un sempre superiore livello di determinazione delle categorie, finalizzate alla
spiegazione del conflitto di classe in chiave normativa e morale.
Complessivamente, gli scritti di
Honneth testimoniano almeno due esigenze teoriche: da un lato, l'autore intende
contestualizzare le istanze morali delle classi subordinate nell’ambito del
conflitto con le classi dominanti, sondandone il potenziale d’azione politica;
dall'altro, Honneth intende recuperare il contenuto normativo ed emancipativo
della teoria, anche attraverso un costante confronto con l’eredità marxiana e
con le precedenti evoluzioni della teoria critica. Secondo Honneth, che in
questo segue una linea di pensiero habermasiana, Marx non ha considerato a
sufficienza l’elemento di interazione discorsiva e comunicativa connesso al
carattere morale ed emancipativo del lavoro sociale; d'altro canto nella
maggiore astrattezza della teoria di Habermas è implicito un sostrato sostantivo
che, se ignorato, porta un indebolimento delle istanze normative della teoria
(Cfr. in particolare il saggio Etica del discorso e concetto implicito di
giustizia, p. 129 e segg.); tali limiti costituiscono, tuttavia, il terreno sul
quale Honneth articola le proprie ipotesi alternative.
I primi scritti raccolti nel volume
tematizzano una “fenomenologia della subordinazione sociale” (p. 11)
particolarmente attenta, come rileva la curatrice e traduttrice Piromalli, al
problema dell’identità “implicitamente declinata come ‘identità di classe’”
(ibd.) e sviluppata tenendo conto del punto di vista dei soggetti implicati. In
La "biografia latente" dei giovani della classe lavoratrice, Honneth muove dalla
considerazione che le dinamiche di costruzione dell'identità sono determinate
dai contesti di socializzazione ma anche da una specifica cultura di classe non
esplicitata: nel concetto chiave di ‘biografia latente’, è possibile
ricomprendere l'identità implicita dei soggetti appartenenti ad una classe cui
pertengono modelli e culture specifiche, una sorta di "memoria collettiva" (p.
36) di classe tramandata "in modo non intenzionale, e pertanto 'oggettivo'" (p.
35), al contempo suscettibile di modifica e rielaborazione da parte dei soggetti
sociali. Il concetto di identità sociale viene allora ricondotto alla sua
specificità di classe, dal momento che al di sotto del sistema valoriale
dominante la classe operaia mantiene "strutture di valori e di azioni non
assimilate ad esso, bensì indipendenti" (p. 37). Tale indipendenza non esclude
tuttavia un condizionamento e una frizione coi modelli egemoni, determinando
tentativi di "'minimizzazione'" e di "rideterminazione di modelli tipici di
espressione e di azione" (p. 38): è sul terreno della tensione fra norme
dominanti e identità collettiva di classe che si sviluppano le potenzialità
della critica sociale delle classi subordinate.
Il sostrato culturale e morale delle
classi subordinate è da Honneth concepito dunque in termini di risorsa per
l’emancipazione dei soggetti (cfr. p. 13): come rileva Piromalli, qui risiede
fra l’altro l’originalità dell’autore, che si distanzia dalla rappresentazione
tradizionale delle classi lavoratrici come “prive delle risorse per interpretare
la propria condizione di classe” (ibd.); un punto di vista che implica, fra
l'altro, il rifiuto della riduzione corrente dell'azione sociale dei lavoratori
"alla dimensione meramente cognitiva della coscienza operaia" (p. 36). A
innescare il conflitto di classe è, secondo Honneth, non già la consapevole
rappresentazione di un'alternativa sociale migliore, bensì la violazione di
quello che Moore ha definito ‘contratto sociale implicito’ fra classi dominanti
e classi dominate: il venire meno di quella "serie di accordi reciproci non
verbalizzati" (p. 115), di quel “consenso morale fragile e aperto” (p. 116)
oggetto di continua e implicita rinegoziazione sociale. Laddove tale consenso
risulti minacciato, la tensione conduce a un’opposizione di tipo reattivo da
parte delle classi subordinate, legata alla percezione del “mancato rispetto
delle aspettative di riconoscimento che tali classi nutrivano verso la
collettività” (p. 17). Declinato in termini morali, il conflitto di classe non
può dunque esclusivamente risolversi nella reazione a un’ineguale distribuzione
delle risorse materiali: nella sua spiegazione deve rientrare la "ripartizione
asimmetrica di opportunità di vita dal punto di vista culturale e psicologico"
(p. 15). Lo stesso conflitto che scaturisce da deprivazioni di tipo materiale
conduce infatti alla "percezione, ad essa associata, che il proprio contributo
alla riproduzione della società non venga adeguatamente riconosciuto" (p. 16).
E' su questo terreno che maturano "zone di conflitto normativo che si sono
silenziosamente insinuate nella quotidianità" (p. 108) - idea formulata sulla
scorta del Richard Sennett teorico della "diseguale distribuzione della dignità
sociale" (p. 109) in The Hidden Injuries of Class. La reazione pragmatica alle
esperienze di ingiustizia consiste allora, nel contesto di controllo sociale
imposto dalle classi dominanti, in "azioni pre-politiche individualizzate, come
anche in tentativi solipsistici [...] di innalzare simbolicamente lo status
della propria attività lavorativa" (p. 109), ma anche in tentativi di "controllo
informale sul processo produttivo" (p. 110) per un'"autodifesa pratica sul posto
di lavoro" (ibd.), nell’ambito di un conflitto di classe "mantenuto al di sotto
della soglia dell'espressione articolata" (p. 108).
Tali aspetti non sono tuttavia
sufficientemente raccolti dalle precedenti versioni della teoria critica. In
Coscienza morale e dominio di classe l'autore osserva che se Adorno e Marcuse
non hanno ricollegato "i principi normativi della loro critica della società ad
una moralità empiricamente effettiva" (ibd.), finanche Habermas è teoricamente
insufficiente laddove mostra di trascurare "tutte le forme esistenti di critica
della società che non siano riconosciute dall'opinione pubblica politicamente
egemone" (ibd.): la sua etica del discorso focalizza infatti le sole forme
espressive delle classi dominanti, presentandole tuttavia in termini
formalistici e universalistici. Vi è piuttosto, osserva Honneth, una radicale
distanza tra "le idee di giustizia su base normativa formulate nella cultura
specialistica borghese e nelle avanguardie politiche" (p. 95) e "la moralità
sociale altamente frammentaria e dipendente dal contesto espressa dalle classi
subordinate" (ibd.). Preso atto di tale involuzione in seno alla teoria critica,
Honneth si propone di mostrare che "al di sotto della facciata di integrazione
tardo-capitalistica, potrebbe nascondersi un ambito di conflitti pratico-morali
nel quale i vecchi scontri di classe continuano a riprodursi in forme nuove" (p.
94). Tale ambito di conflitti affonda le proprie radici in un’‘etica sociale
delle classi subordinate’ che si presenta come “un eterogeneo complesso di
richieste di giustizia formulate in reazione ad esperienze di ingiustizia" (p.
96); lungi dall'essere consapevolmente formalizzata in un coerente sistema
morale di principi e giustificazioni argomentate, essa indica le "possibilità di
giustizia rese ineffettuali dai rapporti di dominio" (ibd.) in virtù di quella
‘moralità interna’ o ‘coscienza dell'ingiustizia’ che agisce in forma di "filtro
cognitivo" (ibd.), espressa da Barrington Moore. La sua mancata formalizzazione
non va intesa come espressione di "un'inferiorità cognitiva delle classi
subordinate" (ibd.), bensì come risultato del suo contesto storico-sociale di
elaborazione. Per riconoscere il contenuto morale delle azioni delle classi
subordinate al di là degli schemi teorici correnti che fissano la moralità ai
paradigmi formalistico-argomentativi propri della classe egemone, è dunque
necessario un lavoro categoriale che riesca a non "lasciarsi sfuggire questa
moralità implicita" (p. 99), di modo che le "azioni sociali che, a prima vista,
sembravano prive di ogni intenzione e orientamento pratico-normativo, possono
invece essere riconosciute come manifestazioni della coscienza dell'ingiustizia
sociale" (ibd.): vi è qui uno dei primi riferimenti alla lotta per il
riconoscimento, in base al quale i soggetti nutrono delle aspettative morali in
termini di opportunità sociali di stima di sé.
E’ ancora sul terreno del lavoro che si
concentra la riflessione di Honneth in Lavoro e azione strumentale. Problemi
categoriali per una teoria critica della società, poiché è a suo avviso a
partire da una sua rivalutazione che può e deve svilupparsi una teoria
dell'azione in chiave emancipativa. A tal fine Honneth riflette sullo stato del
marxismo contemporaneo, rilevando la diffusa convinzione che vi sia una "crisi
della teoria della rivoluzione" (p. 43) che non consenta più di conciliare
l'analisi del capitale con gli obiettivi della teoria critica. Secondo l'autore
va recuperato il concetto marxiano di lavoro sociale, compreso "non solo in
relazione allo sviluppo economico della società, ma anche alla finalità
pratico-normativa di una Bildung rivolta all'emancipazione" (p. 44). Se, data la
sua "posizione categorialmente privilegiata" (ibd.) nella riflessione di Marx,
il significato del lavoro vi è declinato in più modi (come "forma specificamente
umana di riproduzione dell'esistenza" (ibd.); come attività sociale che consente
un'apertura cognitiva alla realtà; come “Bildungsprozess" [ibd.]), tale
polisemicità del concetto di lavoro è ad oggi ridotta alle letture
intersoggettivistiche o strutturalistiche – tanto più che le teorie del
diciannovesimo secolo (per esempio, quelle di Max Scheler e Hannah Arendt) hanno
proseguito nel processo teorico di negazione del nesso normativo fra lavoro e
emancipazione, in virtù di un generalizzato appiattimento dell'analisi alla
situazione storico-sociale sopraggiunta con il taylorismo: di qui il "graduale
processo di depurazione del concetto di lavoro dai suoi tradizionali contenuti
normativi" (p. 61) con l'esito che oggi "nessuno attribuirebbe più un'azione
emancipativa al lavoro in quanto tale" (p. 151). D’altronde, se Marx secondo
Honneth non si è spinto al punto di "comprendere il processo lavorativo
direttamente come un processo di formazione in grado di liberare motivi
pratico-morali" (p. 54), è perché "metodologicamente richiesto dalla
riconversione della sua teoria della società in analisi del capitale” che come
critica immanente “può tematizzare le connessioni d'azione sociale unicamente
nella forma di determinazioni del capitale". Di fronte alle difficoltà che
Honneth mette in luce, all’interno dello stesso paradigma marxiano, nel
connettere teoria dell’azione sociale e teoria dell’emancipazione (pp. 54 - 55),
egli propone dunque di fare ricorso alla distinzione elaborata da Habermas tra
agire comunicativo e agire strumentale, abbandonando quindi il monismo della
produzione teorizzato da Marx. Al contempo, però, in questo scritto egli intende
integrare nella sfera habermasiana dell'agire strumentale un criterio normativo
interno, relativo allo svolgimento di un’attività lavorativa non alienata, ossia
il più possibile rimessa al controllo e al sapere del lavoratore (pp.
85-86).
Il confronto con l’eredità del marxismo
prosegue in La logica dell'emancipazione - sull'eredità filosofica del marxismo.
Se il marxismo analitico è il solo in cui il marxismo sopravviva "nella sua
forma tradizionale" (p. 140), tuttavia soffrendo del contrasto tra le prognosi
empiriche della teoria e la prova dell'esperienza storica (cfr. pp. 140 - 41);
la "critica riparatrice del marxismo" (p. 142) – distinta in: marxismo in chiave
di teoria dei giochi, marxismo teorico-culturale, marxismo in chiave di teoria
del potere - fa strada all'idea che una teoria sociale ispirata a Marx debba
rinunciare al primato funzionalistico recuperando gli altri ambiti d'azione. Ciò
si risolve, tuttavia, nella mera contrapposizione di un diverso paradigma al
funzionalismo economicistico marxiano; essa inoltre non rende conto delle
intenzioni di riconoscere un contenuto espressivo, emancipativo, al lavoro. Si
pone allora il problema: "In che modo il concetto di emancipazione e l'analisi
del capitalismo possono essere nuovamente riuniti in un'unica teoria sociale"
(p. 153)? Nella risposta a questa domanda Honneth riprende esplicitamente il
punto di vista di Marx, nel suo concepire il lavoro come essenziale per la
"riuscita formazione dell'identità" (p. 154) ostacolata dal capitalismo che
"distrugge ogni valenza espressiva connessa al lavoro" (p. 153). E' in nuce,
confinata al livello di implicita premessa, la prospettiva che in luogo di una
"logica del lavoro" (p. 154) predilige la logica del riconoscimento, per la
quale nell'ambito del capitalismo il processo di riconoscimento intersoggettivo
è interrotto. Non a caso se nel primo saggio l'analisi focalizza "i giovani
della classe lavoratrice", nel percorso honnethiano la griglia teorica del
riconoscimento si universalizza progressivamente, fino a comprendere non solo la
specifica conflittualità propria della lotta fra classi dominanti e classi
subalterne, ma “potenzialmente ogni conflitto su basi normative e ogni oggetto
sociale” (p. 11), aprendo in tal modo alla prospettiva più onnicomprensiva del
'92. Il volume può allora concludersi, significativamente, tracciando le linee
per un futuro approfondimento della categoria del riconoscimento, ritenuta da
Honneth in grado di assumere "l'eredità del paradigma marxiano del lavoro" (p.
156) all’insegna di una convergenza di una teoria dell'emancipazione con
l’analisi della società (cfr. ibd.), nell'ambito di "un unico concetto di teoria
dell'azione" (ibd.).
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