Appunti di Storia moderna

lunedì 5 novembre 2012

Honneth A.; Piromalli E. (a c.di), Riconoscimento e conflitto di classe. Scritti 1979 - 1989 - Recensione

Il volume raccoglie alcuni fra i testi più rilevanti pubblicati nel decennio 1979 - 1989 da Axel Honneth, esponente della terza generazione della Scuola di Francoforte; essi sono esemplificativi dell'evoluzione teorica dell’autore, culminata nella più tarda e compiuta teoria sociale normativa del riconoscimento consegnata al testo del '92 Lotta per il riconoscimento. Gli scritti preannunciano in modo abbozzato e programmatico, all'interno di contorni teorici ancora in via di definizione, obiettivi di analisi che si dispiegheranno sistematicamente solo negli anni '90: nel volume il percorso si articola in un sempre superiore livello di determinazione delle categorie, finalizzate alla spiegazione del conflitto di classe in chiave normativa e morale.
Complessivamente, gli scritti di Honneth testimoniano almeno due esigenze teoriche: da un lato, l'autore intende contestualizzare le istanze morali delle classi subordinate nell’ambito del conflitto con le classi dominanti, sondandone il potenziale d’azione politica; dall'altro, Honneth intende recuperare il contenuto normativo ed emancipativo della teoria, anche attraverso un costante confronto con l’eredità marxiana e con le precedenti evoluzioni della teoria critica. Secondo Honneth, che in questo segue una linea di pensiero habermasiana, Marx non ha considerato a sufficienza l’elemento di interazione discorsiva e comunicativa connesso al carattere morale ed emancipativo del lavoro sociale; d'altro canto nella maggiore astrattezza della teoria di Habermas è implicito un sostrato sostantivo che, se ignorato, porta un indebolimento delle istanze normative della teoria (Cfr. in particolare il saggio Etica del discorso e concetto implicito di giustizia, p. 129 e segg.); tali limiti costituiscono, tuttavia, il terreno sul quale Honneth articola le proprie ipotesi alternative.
I primi scritti raccolti nel volume tematizzano una “fenomenologia della subordinazione sociale” (p. 11) particolarmente attenta, come rileva la curatrice e traduttrice Piromalli, al problema dell’identità “implicitamente declinata come ‘identità di classe’” (ibd.) e sviluppata tenendo conto del punto di vista dei soggetti implicati. In La "biografia latente" dei giovani della classe lavoratrice, Honneth muove dalla considerazione che le dinamiche di costruzione dell'identità sono determinate dai contesti di socializzazione ma anche da una specifica cultura di classe non esplicitata: nel concetto chiave di ‘biografia latente’, è possibile ricomprendere l'identità implicita dei soggetti appartenenti ad una classe cui pertengono modelli e culture specifiche, una sorta di "memoria collettiva" (p. 36) di classe tramandata "in modo non intenzionale, e pertanto 'oggettivo'" (p. 35), al contempo suscettibile di modifica e rielaborazione da parte dei soggetti sociali. Il concetto di identità sociale viene allora ricondotto alla sua specificità di classe, dal momento che al di sotto del sistema valoriale dominante la classe operaia mantiene "strutture di valori e di azioni non assimilate ad esso, bensì indipendenti" (p. 37). Tale indipendenza non esclude tuttavia un condizionamento e una frizione coi modelli egemoni, determinando tentativi di "'minimizzazione'" e di "rideterminazione di modelli tipici di espressione e di azione" (p. 38): è sul terreno della tensione fra norme dominanti e identità collettiva di classe che si sviluppano le potenzialità della critica sociale delle classi subordinate.
Il sostrato culturale e morale delle classi subordinate è da Honneth concepito dunque in termini di risorsa per l’emancipazione dei soggetti (cfr. p. 13): come rileva Piromalli, qui risiede fra l’altro l’originalità dell’autore, che si distanzia dalla rappresentazione tradizionale delle classi lavoratrici come “prive delle risorse per interpretare la propria condizione di classe” (ibd.); un punto di vista che implica, fra l'altro, il rifiuto della riduzione corrente dell'azione sociale dei lavoratori "alla dimensione meramente cognitiva della coscienza operaia" (p. 36). A innescare il conflitto di classe è, secondo Honneth, non già la consapevole rappresentazione di un'alternativa sociale migliore, bensì la violazione di quello che Moore ha definito ‘contratto sociale implicito’ fra classi dominanti e classi dominate: il venire meno di quella "serie di accordi reciproci non verbalizzati" (p. 115), di quel “consenso morale fragile e aperto” (p. 116) oggetto di continua e implicita rinegoziazione sociale. Laddove tale consenso risulti minacciato, la tensione conduce a un’opposizione di tipo reattivo da parte delle classi subordinate, legata alla percezione del “mancato rispetto delle aspettative di riconoscimento che tali classi nutrivano verso la collettività” (p. 17). Declinato in termini morali, il conflitto di classe non può dunque esclusivamente risolversi nella reazione a un’ineguale distribuzione delle risorse materiali: nella sua spiegazione deve rientrare la "ripartizione asimmetrica di opportunità di vita dal punto di vista culturale e psicologico" (p. 15). Lo stesso conflitto che scaturisce da deprivazioni di tipo materiale conduce infatti alla "percezione, ad essa associata, che il proprio contributo alla riproduzione della società non venga adeguatamente riconosciuto" (p. 16). E' su questo terreno che maturano "zone di conflitto normativo che si sono silenziosamente insinuate nella quotidianità" (p. 108) - idea formulata sulla scorta del Richard Sennett teorico della "diseguale distribuzione della dignità sociale" (p. 109) in The Hidden Injuries of Class. La reazione pragmatica alle esperienze di ingiustizia consiste allora, nel contesto di controllo sociale imposto dalle classi dominanti, in "azioni pre-politiche individualizzate, come anche in tentativi solipsistici [...] di innalzare simbolicamente lo status della propria attività lavorativa" (p. 109), ma anche in tentativi di "controllo informale sul processo produttivo" (p. 110) per un'"autodifesa pratica sul posto di lavoro" (ibd.), nell’ambito di un conflitto di classe "mantenuto al di sotto della soglia dell'espressione articolata" (p. 108).
Tali aspetti non sono tuttavia sufficientemente raccolti dalle precedenti versioni della teoria critica. In Coscienza morale e dominio di classe l'autore osserva che se Adorno e Marcuse non hanno ricollegato "i principi normativi della loro critica della società ad una moralità empiricamente effettiva" (ibd.), finanche Habermas è teoricamente insufficiente laddove mostra di trascurare "tutte le forme esistenti di critica della società che non siano riconosciute dall'opinione pubblica politicamente egemone" (ibd.): la sua etica del discorso focalizza infatti le sole forme espressive delle classi dominanti, presentandole tuttavia in termini formalistici e universalistici. Vi è piuttosto, osserva Honneth, una radicale distanza tra "le idee di giustizia su base normativa formulate nella cultura specialistica borghese e nelle avanguardie politiche" (p. 95) e "la moralità sociale altamente frammentaria e dipendente dal contesto espressa dalle classi subordinate" (ibd.). Preso atto di tale involuzione in seno alla teoria critica, Honneth si propone di mostrare che "al di sotto della facciata di integrazione tardo-capitalistica, potrebbe nascondersi un ambito di conflitti pratico-morali nel quale i vecchi scontri di classe continuano a riprodursi in forme nuove" (p. 94). Tale ambito di conflitti affonda le proprie radici in un’‘etica sociale delle classi subordinate’ che si presenta come “un eterogeneo complesso di richieste di giustizia formulate in reazione ad esperienze di ingiustizia" (p. 96); lungi dall'essere consapevolmente formalizzata in un coerente sistema morale di principi e giustificazioni argomentate, essa indica le "possibilità di giustizia rese ineffettuali dai rapporti di dominio" (ibd.) in virtù di quella ‘moralità interna’ o ‘coscienza dell'ingiustizia’ che agisce in forma di "filtro cognitivo" (ibd.), espressa da Barrington Moore. La sua mancata formalizzazione non va intesa come espressione di "un'inferiorità cognitiva delle classi subordinate" (ibd.), bensì come risultato del suo contesto storico-sociale di elaborazione. Per riconoscere il contenuto morale delle azioni delle classi subordinate al di là degli schemi teorici correnti che fissano la moralità ai paradigmi formalistico-argomentativi propri della classe egemone, è dunque necessario un lavoro categoriale che riesca a non "lasciarsi sfuggire questa moralità implicita" (p. 99), di modo che le "azioni sociali che, a prima vista, sembravano prive di ogni intenzione e orientamento pratico-normativo, possono invece essere riconosciute come manifestazioni della coscienza dell'ingiustizia sociale" (ibd.): vi è qui uno dei primi riferimenti alla lotta per il riconoscimento, in base al quale i soggetti nutrono delle aspettative morali in termini di opportunità sociali di stima di sé.
E’ ancora sul terreno del lavoro che si concentra la riflessione di Honneth in Lavoro e azione strumentale. Problemi categoriali per una teoria critica della società, poiché è a suo avviso a partire da una sua rivalutazione che può e deve svilupparsi una teoria dell'azione in chiave emancipativa. A tal fine Honneth riflette sullo stato del marxismo contemporaneo, rilevando la diffusa convinzione che vi sia una "crisi della teoria della rivoluzione" (p. 43) che non consenta più di conciliare l'analisi del capitale con gli obiettivi della teoria critica. Secondo l'autore va recuperato il concetto marxiano di lavoro sociale, compreso "non solo in relazione allo sviluppo economico della società, ma anche alla finalità pratico-normativa di una Bildung rivolta all'emancipazione" (p. 44). Se, data la sua "posizione categorialmente privilegiata" (ibd.) nella riflessione di Marx, il significato del lavoro vi è declinato in più modi (come "forma specificamente umana di riproduzione dell'esistenza" (ibd.); come attività sociale che consente un'apertura cognitiva alla realtà; come “Bildungsprozess" [ibd.]), tale polisemicità del concetto di lavoro è ad oggi ridotta alle letture intersoggettivistiche o strutturalistiche – tanto più che le teorie del diciannovesimo secolo (per esempio, quelle di Max Scheler e Hannah Arendt) hanno proseguito nel processo teorico di negazione del nesso normativo fra lavoro e emancipazione, in virtù di un generalizzato appiattimento dell'analisi alla situazione storico-sociale sopraggiunta con il taylorismo: di qui il "graduale processo di depurazione del concetto di lavoro dai suoi tradizionali contenuti normativi" (p. 61) con l'esito che oggi "nessuno attribuirebbe più un'azione emancipativa al lavoro in quanto tale" (p. 151). D’altronde, se Marx secondo Honneth non si è spinto al punto di "comprendere il processo lavorativo direttamente come un processo di formazione in grado di liberare motivi pratico-morali" (p. 54), è perché "metodologicamente richiesto dalla riconversione della sua teoria della società in analisi del capitale” che come critica immanente “può tematizzare le connessioni d'azione sociale unicamente nella forma di determinazioni del capitale". Di fronte alle difficoltà che Honneth mette in luce, all’interno dello stesso paradigma marxiano, nel connettere teoria dell’azione sociale e teoria dell’emancipazione (pp. 54 - 55), egli propone dunque di fare ricorso alla distinzione elaborata da Habermas tra agire comunicativo e agire strumentale, abbandonando quindi il monismo della produzione teorizzato da Marx. Al contempo, però, in questo scritto egli intende integrare nella sfera habermasiana dell'agire strumentale un criterio normativo interno, relativo allo svolgimento di un’attività lavorativa non alienata, ossia il più possibile rimessa al controllo e al sapere del lavoratore (pp. 85-86).
Il confronto con l’eredità del marxismo prosegue in La logica dell'emancipazione - sull'eredità filosofica del marxismo. Se il marxismo analitico è il solo in cui il marxismo sopravviva "nella sua forma tradizionale" (p. 140), tuttavia soffrendo del contrasto tra le prognosi empiriche della teoria e la prova dell'esperienza storica (cfr. pp. 140 - 41); la "critica riparatrice del marxismo" (p. 142) – distinta in: marxismo in chiave di teoria dei giochi, marxismo teorico-culturale, marxismo in chiave di teoria del potere - fa strada all'idea che una teoria sociale ispirata a Marx debba rinunciare al primato funzionalistico recuperando gli altri ambiti d'azione. Ciò si risolve, tuttavia, nella mera contrapposizione di un diverso paradigma al funzionalismo economicistico marxiano; essa inoltre non rende conto delle intenzioni di riconoscere un contenuto espressivo, emancipativo, al lavoro. Si pone allora il problema: "In che modo il concetto di emancipazione e l'analisi del capitalismo possono essere nuovamente riuniti in un'unica teoria sociale" (p. 153)? Nella risposta a questa domanda Honneth riprende esplicitamente il punto di vista di Marx, nel suo concepire il lavoro come essenziale per la "riuscita formazione dell'identità" (p. 154) ostacolata dal capitalismo che "distrugge ogni valenza espressiva connessa al lavoro" (p. 153). E' in nuce, confinata al livello di implicita premessa, la prospettiva che in luogo di una "logica del lavoro" (p. 154) predilige la logica del riconoscimento, per la quale nell'ambito del capitalismo il processo di riconoscimento intersoggettivo è interrotto. Non a caso se nel primo saggio l'analisi focalizza "i giovani della classe lavoratrice", nel percorso honnethiano la griglia teorica del riconoscimento si universalizza progressivamente, fino a comprendere non solo la specifica conflittualità propria della lotta fra classi dominanti e classi subalterne, ma “potenzialmente ogni conflitto su basi normative e ogni oggetto sociale” (p. 11), aprendo in tal modo alla prospettiva più onnicomprensiva del '92. Il volume può allora concludersi, significativamente, tracciando le linee per un futuro approfondimento della categoria del riconoscimento, ritenuta da Honneth in grado di assumere "l'eredità del paradigma marxiano del lavoro" (p. 156) all’insegna di una convergenza di una teoria dell'emancipazione con l’analisi della società (cfr. ibd.), nell'ambito di "un unico concetto di teoria dell'azione" (ibd.).

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