Appunti di Storia moderna

mercoledì 4 gennaio 2012

L'imprenditore

Segue profilo unilaterale e fazioso e stereotipato dell'imprenditore. 

Dottore, la signora Cipolletti vuole conferire con Lei. Le dico, come sempre, che è in riunione?
Ah, che noia! E’ la tredicesima volta che il Nostro rinvia a data da non destinarsi la Signora Cipolletti, sua dipendente cui sono state ridotte, in ordine sparso: la mole di lavoro, le responsabilità, lo stipendio. E’ stata in vacanza per un anno – in maternità, pardon – e, si sa, le esigenze produttive: al rientro per lei solo sguardi torvi e tante insospettate novità. Ogni giorno al lavoro è un continuo, non detto ma lampante non ci servi più.
Dio, la faccia entrare.
Cipolletti: ma che succede, non capisco! Prima gestivo un intero ufficio! Adesso solo fotocopie, perché?
Imprenditore: ha ragione, mi rendo perfettamente conto della sua situazione. In realtà, la domanda scarseggia, e l’Azienda non vi manda a casa perché vi vuole bene.
Seguono: lacrime, disperazione, false speranze.

Il nostro imprenditore ha capito tutto della vita e non fa nulla per nasconderlo.
Ogni atto, ogni gesto verbale non è che un mal dissimulato pretesto per mostrarlo al mondo. L’imprenditore è la punta della piramide sociale, e la gerarchia vissuta ogni giorno dall’alto si muta presto in una forma mentis. Egli impara presto ad autorappresentarsi come un leader e l’idea non gli dispiace affatto. Forgia la sua intera esistenza sulla base di questa corroborante convinzione, non smentita da alcuno, anzi indefessamente fomentata dal tutti.
Ha iniziato con poco. A scuola non era un genio, ma era sciolto e disinvolto, aveva già capito il meccanismo: una buona dialettica, un briciolo di attenzione e tanto ardimento sostituiranno ampiamente gli anacronistici sacrifici sui libri. Un complimento azzardato alla prof, un’intuizione geniale che sviasse il baricentro dell’interrogazione sullo stupore ammirato per un ragazzino così sveglio, e il gioco è fatto.
Dopo la scuola si guarda intorno, e mentre gli altri studiano o si affannano tra umilianti concorsi e colloqui di lavoro a Milano e Torino, capisce l’antifona. Due conti, qualche conoscenza, più che sufficiente autostima e genetica insubordinazione lo conducono presto nella seducente strada dell’autoimprenditorialità. Gli è bastato poco per afferrare le leggi del mercato, e il suo sesto senso gli ha presto rivelato la chiave del successo, nella vita come negli affari. Che poi, in fondo, sono la stessa cosa.
I primi anni sono faticosi, ma non desiste, l’impresa cresce a colpi di ottimismo e con essa il suo autore. L’imprenditore impara a stare tra i grandi, affina le tecniche del galateo a proprio vantaggio, va nei posti giusti al momento giusto. E’, come dire, brillante; le sue conversazioni sono in primo luogo performance, prestazioni produttive prima che umane. Una conoscenza tira l’altra e il giro d’affari aumenta con le amicizie. Procedendo per trial and errors pian piano affina l’approccio: l’impresa è snella, la produzione efficiente e crescente, gli investimenti si recuperano agevolmente e, a parte qualche noiosa parentesi critica, i conti non sono mai in rosso. Il conto personale lievita: i capricci?  solo un vecchio ricordo – ora sono concrete realtà sfoggiabili.
Nel nominare la parola azienda si sente eccitato e fomentato. E’ il brivido del successo. Parallelamente, sviluppa dei piccoli feticismi nascosti: dal nodo della cravatta ai polsini della camicia, tutto deve essere in ordine, ogni venerdì è dal barbiere e non si separa dalla 24ore Montblanc che ha acquistato in uno dei sempre meno rari momenti di shopping compulsivo. La sua vita, all’apice del successo, si arricchisce di piccole superstizioni come non uscire mai senza i polsini stirati e le cene di lavoro sono l’occasione per tirare fuori i suoi vini d’improbabile annata e dunque costo. 
Il gergo si affina come la metodologia. Il capitalese anglofono penetra senza difficoltà nel suo vocabolario, che tira fuori con sempre maggiore dimestichezza nell’intento mai fallito di impressionare gli altri al fine di ribadirne l’abissale distanza. Empowerment, know-how, management, problem solving, turnover, assessment, team building, compliance, sono le stelle che progressivamente illuminano il firmamento linguistico del Nostro; gli assi della manica da tirar fuori nei ricorrenti giochi di prestigio sociali.
L’imprenditore è il compimento della scissione storica tra bourgeois e citoyen. La dimensione privata e quella pubblica si rapportano l’un l’altra all’insegna della schizofrenia. Tutta la sfera comportamentale riflette separazioni nette. Con i suoi simili imprenditori mostra compiaciuta e ostentata sicurezza. Con il resto della popolazione,  è il  missionario che salva l’umanità dalla disoccupazione. Nell’intima profondità del suo io,  le ricadute sociali del suo operato occupano poco spazio; eppure, il Nostro ha sentito l’argomento da qualche parte e si affanna appena può a ripeterlo. Non gli dispiace, in termini di autostima, di figurare come Il Benefattore.
L’estetica completa il tutto. Giacca e cravatta, capelli impomatati, mento scrupolosamente glabro, suv, neanche a dirlo. E tanto, tanto, tanto savoir faire. Ma pure lui ha i suoi incubi, checché se ne dica. Il suo pensiero fisso è il concetto di brand. Brand, brand, brand, ripete ossessivamente la sua mente. Il brand è l’obiettivo assoluto  da raggiungere per mettere la parola fine al margine di incertezza che, nonostante tutto, persiste.
Ma la vera chiave del suo successo verbale risiede altrove. Nei termini complicati? Nei feticismi anglicistici? Nelle frasi prestampate? No. Negli eufemismi.
L’imprenditore capisce che c’è una base sociale fermentante dietro la sua azienda. Questo cane sciolto va tenuto a bada. Capisce che bisogna saperci fare, per indorarle la pillola e promuovere una sottile forma di assoggettamento presso i recalcitranti dipendenti, che da due sono diventati presto cinquanta, con annessa moltiplicazione delle noie pro capite.
La strategia si affina, e inconsciamente usa l’alibi del fatalismo per difendersi da ogni attacco: non è colpa mia è il suo argomento preferito, anche se sotto sotto ha l’aria di non crederci lui stesso.
Pensa con pena ai tempi del liceo – riserva al suo passato lo stesso sguardo che non ha mai risparmiato ai questuanti del lavoro, come i vecchi compagni di classe; gli stessi che ora bussano alla sua porta curriculum alla mano. Ricordi i vecchi tempi! Li ricorda bene, ma è meglio non suscitargli simili memorie. Ci tiene a precisarlo, sia pure senza dirlo – ora lui è un altroIntanto, in quanto brillante selfmade man e in quanto tutto questo è merito del suo genio, in quanto il salto di qualità esistenziale è compiuto, ci tiene moltissimo a farsi chiamare dottore, benché col diploma da perito tecnico si sia  conclusa la sua carriera scolastica. 
Comunque, basterà mezzo sorriso per mettere a tacere quell’impudente esclamazione, gli affari sono affari. Il volto si contrae, nello sguardo balena l’ombra della razionalità manageriale, la mano sul mento perplesso introduce il vero senso della nuova identità: siamo in fase di assessment. La Sua figura al momento è già ricoperta da 7 dipendenti; per un ottavo posto in tal senso dobbiamo attendere che lo richieda il ventaglio produttivo aziendale;ad ogni modo inseriremo il suo curriculum nel database e faremo in modo di tenerlo presente per ogni evenienza produttiva. = non ci interessi.
Ma nell’intento di corredare il tutto di pseudo-empatia e vantaggioso vittimismo, il Nostro concluderà nei termini che seguono: Mi rendo drammaticamente conto della Sua necessità di svolgere una mansione lavorativa retribuita, noi stessi siamo in crisi, si sa, il mercato è una jungla, e con tutte le imposte da versare allo stato la situazione si fa sempre più pressante. Non ho licenziato i 9 dipendenti in esubero perché hanno famiglia e per me conta più l’etica e l’umanità degli affari, mi creda, sembra un luogo comune ma chi mi conosce sa bene quanto per me sia fondamentale la dimensione umana dell’azienda. Lo sguardo è franco, ma chi lo ascolta ha sempre la stessa impressione: c’è un’ombra di burla dietro quel ciarlare eufemisticamente ricercato. Il margine tra realtà e rappresentazione, però, è troppo labile perché l’impressione diventi certezza. Qui risiede lo straordinario talento dell’imprenditore. Il mercato non c’entra, le strategie di vendita neanche. E’ tutto merito degli eufemismi e di quell’aria sarcastica intangibile che li accompagna. Chi ci parla, ha sempre il dubbio: ma dice sul serio, o è tutta una colossale presa per il fondelli?
E’ tale il furore dell’intepretazione, che senza difficoltà consegue l’obiettivo: ammansire l’interlocutore,  prevenirne la rabbia incutendo sentimenti di compassione del tutto irrazionali, perché l’interlocutore sa benissimo che quel tono da “morto di fame” poco si addice a un multimilionario con 50 persone al suo servizio. Nello slang di noantri si dice rigirare la frittata. Il gioco, come sempre, è fatto.
Congeda il tanto comprensivo ex compagno di classe alla porta, per tornare alla sua scrivania 2mx2m, iperlucida, priva di qualsiasi oggetto che ne giustifichi anche un po’ l’esistenza. Spicca per unicità un tagliacarte in oro massiccio, che ha tutta la valenza simbolica di un pugnale puntato sui dipendenti.

2 commenti:

  1. Non so se ti riferisci a qualcuno in particolare o intendessi abbozzare la descrizione dell'imprenditore in generale. Se si tratta della seconda ipotesi, è una descrizione che non condivido: sia perché nel capitalismo il potere non coincide con il tipo umano dell'imprenditore, ma con i processi anonimi e automatizzati di riproduzione del capitale, dei quali l'imprenditore, con il suo peculiare carattere, è solo un esito. Tante volte l'imprenditore fallisce pure, dal momento che l'altra faccia del profitto è appunto il fallimento. Pertanto, in certo senso - in un sistema come quello capitalistico, in cui spesso è difficile chiarificare dove sia la vittima e dove il carnefice - anche l'imprenditore potrebbe essere considerato una vittima. Ciò deriva dal fatto che la competitività - sorta di selezione naturale dedotta nelle categorie capitalistiche - non è un meccanismo che procede regolarmente e stabilmente all'infinito, in modo da dare come risultato una sistematica frammentazione dell'offerta: se storicizzata, si osserva come essa sia invece direzionata verso l'accumulazione e quindi la centralizzazione. Accumulazione con la quale coincide la morte di tutti coloro che non sono riusciti a fare sufficienti profitti, ovvero sono precipitati nell'indebitamento.
    Quindi, oltre alla tipica relazione contraddittoria tra capitale e lavoro, andrebbero anche messi in luce i dissidi tutti interni allo stesso capitale e alle logiche del profitto: come le logiche del profitto siano essenzialmente logiche della sopraffazione, dialettica del cannibalismo. Sia perché - e vengo al secondo aspetto come corollario di quanto ho appena detto - bisognerebbe evidenziare la centralità che assume il debito nel sistema capitalistico: le prestazioni finanziarie - che stanno alla base anche dell'imprenditorialità - vertono sul debito, ovvero su una circolazione di denaro che aspetta di essere perimetrato, di ricevere una forma; su un accrescimento degli indici nominali che non è anche e contemporaneamente arricchimento materiale. Qui il denaro esibisce il suo doppio carattere di illusione e scommessa: qui allora - ed è questo il ruolo che spetta all'imprenditore - si tratta di materializzare quel debito, di trasformare l'apparenza del denaro nella tangibilità della merce. L'imprenditore insomma è l'anello di congiunzione tra le funzioni nominali e astratte della moneta e la forma reale e vincolante della merce.

    Dr. Benway

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  2. Non ho mai pensato che il potere coincida con "il tipo umano dell'imprenditore", né in questo post intendevo riflettere direttamente sul potere o sul capitalismo. Semmai rispetto a questi è presente solo qualche allusione, in ogni caso finalizzata a mostrare l'elemento compiaciutamente trash ed esistenzialmente ottuso che caratterizza talora (talora, Cfr. incipit) chi ha fatto molti soldi perché "ci sa fare". Questo imprenditore è più un abbozzo di personaggio di un film, per esempio, piuttosto che l’imprenditore di Marx o di una riflessione sociologico-economica coerente.
    Non sono, comunque, mai riuscita a capire fino a che punto l’imprenditore sia “vittima”, “esito”, e fino a che punto sia responsabile di quel che succede. Tu hai già la risposta. Io no…In fondo, spesso, molte scelte imprenditoriali relative per esempio al personale sono dettate da mentalità e “costume”, o morale corrente dell’imprenditore standard, piuttosto che da reali necessità economiche. Il tuo discorso è macro, il mio è micro, e comunque diverso.

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