Oggi è uscita la mia recensione del testo a cura di Nicla Vassallo "Donna m'apparve" sul sito www.recensionifilosofiche.it , la ripropongo qui:
Il libro rappresenta una risposta filosofica a più voci a stereotipi e modelli culturali che storicamente hanno espropriato le donne della loro soggettività, perpetrati attraverso il senso comune, i paradigmi scientifici e filosofici e il linguaggio stesso.
Partendo da tre prospettive tematiche (l’io, il rapporto con gli altri, il rapporto col mondo) il libro segue due esigenze teoriche di fondo: da una parte, la critica all'essenzialismo attraverso la promozione di un ‘pluralismo femminile’ rispettoso delle singole identità delle donne; dall'altra, il bisogno di sconfessare tutti quei clichés normativi che vorrebbero intrappolare le donne nella donna.
Diviso in sette capitoli scritti da autrici diverse, con un prologo e un epilogo di Nicla Vassallo, il testo si caratterizza per una struttura che rende giustizia ai concetti rivendicati: pluralismo e rispetto delle individualità.
Nella ricchezza degli spunti, è possibile rintracciare alcuni nuclei tematici essenziali.
Irrazionali. "Dato che in termini aristotelici a distinguere gli animali umani (ovvero gli esseri umani) dagli animali non umani è proprio la razionalità, ne segue banalmente e rischiosamente che, se sono irrazionali, le donne non sono esseri umani" (pag. 9): la rappresentazione sancita da Aristotele in campo filosofico sarà destinata a percorrere la storia della filosofia per i successivi millenni. La donna, emotiva, irretita nella natura, nella soggettività e nell’irrazionale, meriterebbe così un’estromissione dal sapere cui Vassallo attribuisce i caratteri della violenza: epistemologica, là dove le esclude come oggetti di conoscenza, epistemica, quando nega loro lo status di soggetti conoscenti (pag. 12).
Come osserva la curatrice nel Prologo, queste opinioni consolidate hanno la stessa consistenza filosofica di superstizioni e credenze, entrambe noti esempi di irrazionalità: curiosamente, la stessa caratteristica che si voleva attribuire alle donne. Ma “nel tentativo di rimediare, sarebbe erroneo rinunciare al concetto di razionalità” (pag. 8) che porterebbe di nuovo a un irretimento nell’irrazionale, dunque si rivela più proficuo mettere in discussione l’idea di razionalità che la storia della filosofia ci ha consegnato, liberandola dalla sua astrattezza. È quanto ciascun capitolo a suo modo si propone di fare, individuando nella necessità di riportare il pensiero alla concretezza un valido antidoto contro le persistenti rappresentazioni essenzialiste sulle donne.
Diffidenti verso tutto quanto non corrispondesse al loro modello di ragione, i filosofi hanno ricondotto l'empatia nella sfera dei sentimenti, fatta coincidere col femminile, sottodeterminandola indebitamente (mentre la razionalità, la cultura, la politica sarebbero appannaggio degli uomini). Al contrario, osserva Laura Boella, si tratta di un’idea "molto superficiale”(pag. 64): come mostra la fenomenologia, l’empatia “non è per definizione ‘buona’ (...) il suo esito può essere la prossimità, ma anche l'estraneità" (ivi), poiché "empatizzare non significa assimilare l'altro/a a sé o immedesimarsi in lui/lei, bensì attribuirgli/le un'esperienza autonoma e distinta" (pag. 54). Queste componenti liberano l’empatia dall'ambito del sentimento, rivelandone l’importanza non solo sul piano relazionale, ma anche sul piano cognitivo dell'autocoscienza, specie nell’accessibilità del diverso cui apre la possibilità con l'ausilio di quella capacità di superare i confini della percezione che è l'immaginazione, in uno "sperimentare se stessi al di là dei propri confini" (pag. 62), che è in definitiva il modo migliore per sottrarsi agli stereotipi e a rappresentazioni fuorvianti dell'altro, quindi anche della donna.
Natura. Il concetto di natura riveste un ruolo chiave nella riflessione critica delle autrici, consapevoli che l'operazione tradizionale di presentare come naturale ciò che ha una genesi culturale, porta a conferire i caratteri di ineluttabilità e necessità a dei modelli di donna che riconoscere come culturali renderebbe suscettibili di una messa in discussione. Parlare di natura, infatti, equivale a parlare di destino, della necessità irrevocabile che contraddistingue i fenomeni naturali dal mondo umano, morale, libero e aperto alla scelta, che pertiene all'uomo. Non a caso Francesca Rigotti conclude con un invito a pensare contro natura il suo capitolo sui rapporti tra maternità e filosofia. È infatti nel concetto di maternità che la parola ‘natura’ rivela un valore chiave: la natura in senso biologico, intesa come quell'insieme di caratteristiche fisiche che distinguono i sessi. La storia segnata dall'androcentrismo ha trasformato le caratteristiche riproduttive delle donne nelle loro caratteristiche essenziali, dando luogo a quella ingiustificabile equazione tra donna e madre che la distinzione tra “sesso” e “genere” introdotta dal femminismo ha contribuito a sfatare.
Madri: sul “partorire figli e idee”. È vero che "chi fa la scienza non fa figli" (pag. 122)? Come noto, l'alternativa ha sempre solo riguardato le donne, mai gli uomini. Ma, invita a pensare Rigotti, si tratta necessariamente di un aut-aut? Se la filosofia così come venne dipinta da Seneca o Platone, e come l’etimo della parola ‘astrazione’ suggerisce, è un'attività per uomini liberi da svolgersi in un tempo dilatato e senza interruzioni, al di sopra del ‘concreto’, come può conciliarsi con la cura di figli bisognosi di costanti attenzioni e completamente dipendenti? “Per fortuna la filosofia non corrisponde per natura o essenza a tale definizione"; "come non c'è una ‘natura umana’ e tanto meno una ‘natura della donna’, non c'è nemmeno una ‘natura della filosofia’, qualcosa che la filosofia sia ad aeterno e una volta per sempre" (pag. 43).
Muovendo dall'ipotesi di un parallelismo tra forme di vita e forme di conoscenza, Rigotti rintraccia nelle proposte teoriche di Sara Ruddick una linea interpretativa capace di fare della maternità uno ‘stile di pensiero’ adottabile anche da chi madre non è. L’amore e l’attenzione - intesa "come metodo di comprensione delle cose, da guardare appunto con intensità e attenzione finché non ne zampilli la luce" (pag. 38) - ne sarebbero i cardini, dal momento che l’esperienza (reale o immaginata) della maternità costituirebbe una fonte di particolari stimoli cognitivi; il rischio di una deriva essenzialista viene però scongiurato: “importante non è quello che le madri sono bensì quello che le madri fanno” (pag. 35).
Diversità. Come osserva Eva Cantarella nel primo capitolo, la storia ha costantemente rappresentato le donne in termini di diversità corporea, mentale, caratteriale, che ha fatto presto a tradursi in inferiorità ("la sola ragione che potevano possedere era la métis, l'intelligenza astuta, diversa e inferiore", (pag. 23)). Questa è stata rappresentata dalla mitologia greca ancor prima che i filosofi la consacrassero alla storia in forma teorica, rintracciando nella figura di Pandora non solo l’origine dell’infelicità umana ma anche l’inizio del genere femminile. In seguito, molti filosofi hanno accostato spregiativamente le donne al mondo animale, scorgendo in esse la sola funzione biologica della riproduzione sebbene mai dimentichi di attribuire all’uomo il ‘vero’ potere della generazione. L’effetto più immediato di ciò è stato, fra gli altri, quello del controllo della sessualità della donna all’interno di una polis che riflette nello spartiacque pubblico e privato le differenze tra uomini e donne, in quel contesto consegnate irrevocabilmente all’istituto del matrimonio e al rispetto della monogamia, in una subordinazione all'uomo ormai sancita dalla legge. Da allora, il concetto di diversità femminile conoscerà un primo riscatto solo col femminismo, quando “la teorizzazione della differenza non è stata più tradotta inesorabilmente in svalutazione del femminile” (pag. 23).
Relazioni. Costante nelle filosofie femministe è il tentativo di riscattare la corporeità e le relazioni umane dall'oblio di una storia della filosofia tradizionalmente votata all'astrattezza e al solipsismo del soggetto morale. È quanto discute nel quarto capitolo Claudia Mancina, proponendo una panoramica degli ultimi sviluppi della filosofia morale che hanno visto contrapporsi l'etica femminista alla teoria della giustizia rawlsiana intorno ai concetti di "esperienza, relazione, responsabilità, cura" (pag. 67). Pur condividendo col comunitarismo la critica all’atomismo del soggetto di Rawls, le analogie col femminismo non vanno oltre perché esso non comprende nel concetto di relazione i rapporti affettivi, che l’etica femminista ha mostrato essere così importanti nella costituzione del senso morale del singolo. In questo si evidenzia l'eredità della dicotomia tradizionale fra pubblico e privato che i comunitaristi omettono di criticare, e anzi confermano: essa ha portato per secoli a sottodeterminare l'ambito del privato, fatto di relazioni affettive e di cure ritenute meramente ‘naturali’, quasi che non rivestissero alcun ruolo nella genesi della moralità del soggetto. È dunque possibile rivalutare la corporeità da un punto di vista epistemologico e morale riconoscendo che "un corpo non è pura biologia, ma un campo di interazione di forze culturali e sociali" (pag. 72), ed è a partire da ciò che è possibile divincolare la procreazione dalla sua pretesa naturalità per riconoscervi la valenza morale e umana che invero possiede. Di qui la proposta di una ‘teoria relazionale dell'io’ (per certi versi analoga a quella proposta da Botti, 2007), critica verso l'astrattezza e l'individualismo nella filosofia, a favore di una moralità più situata, critica verso il concetto di "autonomia come indipendenza" (pag. 81). La riconosciuta valenza morale di quello che tradizionalmente veniva definito il ‘privato’ emerge in particolare nella questione dell'aborto: la donna, lungi dal rapportarsi al suo feto in nome di un'etica universalistica o di un qualche principio razionale, opera un autentico processo di ponderazione in relazione al suo contesto affettivo e personale, che sfocia in una scelta che ha tutte le caratteristiche della scelta morale.
Linguaggio e potere. Riflettere sul nesso tra linguaggio e potere maschile rappresenta un momento di ricognizione fondamentale per le femministe, che nelle loro analisi hanno svelato la falsa neutralità con cui le parole depositano le asimmetrie di genere. Quanto agli usi linguistici, Claudia Bianchi presenta criticamente le diverse posizioni che si sono distinte sul tema nell'ultimo secolo: il modello del deficit, per il quale le donne parlerebbero un linguaggio inferiore e deficitario rispetto a quello degli uomini; il modello del dominio, secondo cui il linguaggio è una manifestazione del potere patriarcale, tanto pervasivo da impedire l'articolazione di "immagini alternative del mondo" (pag. 91); il modello della differenza, che vede i due sessi caratterizzati da "aspettative discorsive diverse" (pag. 92), quindi da stili di conversazione diversi, quello femminile cooperativo e paritario, quello maschile gerarchico e competitivo; il modello dinamico, che rifiuta la facile opposizione tra identità maschile e identità femminile, e teorizza una intrinseca mutevolezza dell'identità di genere, pensando al linguaggio nella sua "dimensione performativa, di azione e non di semplice espressione" (pag. 94), in virtù del fatto che "il genere non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che facciamo" (pag. 94).
Soltanto un'integrazione tra i modelli può portare a ovviare ai limiti di ciascuno, come evidenzia l'autrice, che conclude: "gli stereotipi sono il punto di partenza di molti lavori su linguaggio e genere, anche di quelli che si propongono di refutarli" (pag. 98) tanto da realizzare una "sostanziale conferma degli stereotipi" (ivi); ne risulta significativamente che "enfatizzare le differenze può essere allora una reazione alla paura di vedere destabilizzate le identità di genere" (pagg. 98-99).
Donne e scienza. L'oggettività è quel requisito ritenuto indispensabile per praticare la scienza, teso ad espungere dalla ricerca qualsiasi elemento che potrebbe contaminarla, comportando una radicale omissione degli interessi, del contesto storico-culturale, dei valori morali, della propria soggettività per rapportarsi impersonalmente alla realtà. Per questo motivo, osserva Alessandra Tanesini, sembrerebbe quasi incompatibile col femminismo, portatore di interessi e valori particolari. Tuttavia è possibile sciogliere la contraddizione formulando un nuovo concetto di oggettività, consapevoli che il suo significato è cambiato nei secoli, quindi forse "è possibile pensare che il modo contemporaneo di concepire questa nozione non sia necessario" (pag. 104), di conseguenza anche le relative concezioni femministe potrebbero sostituire il modello vigente. Il femminismo, attraverso la figura di Haraway, ha visto nell’oggettività un'‘illusione’ capace di generare una pretesa "di onniscienza e infallibilità" tale da rendere "il soggetto cieco di fronte ai propri pregiudizi" (pag. 108), poiché la conoscenza è parziale - nel doppio senso di incompleta e non imparziale - e credere il contrario può portare a una falsa coscienza nello scienziato. Si apre allora la possibilità di ripensare l'oggettività, rivalutando i cosiddetti "vantaggi della parzialità" (pag. 112): riprendendo un'idea marxiana, si può sostenere che gli individui di classi sociali svantaggiate vedano meglio gli aspetti oppressivi del sistema e siano privilegiati dal punto di vista epistemologico rispetto alle classi avvantaggiate. Pur nell'imperfezione della proposta, resta importante avanzare dei modelli alternativi al modello dominante di oggettività che benché si presenti come "la forma suprema di neutralità è invece maschile" (pag. 112).
Sesso e genere. Prima di affrontare sul piano teoretico la questione del rapporto fra donne e scienza, le femministe vi si sono confrontate su un piano storico, focalizzando sui fattori che per secoli le hanno allontanate dai circoli scientifici costituiti da uomini che ne hanno sottovalutato o ostacolato le prestazioni, dando forma a una prassi fedele al luogo comune per cui le donne non sarebbero "brave in matematica". Sorge così un interrogativo: le donne in quanto donne fanno scienza in modo diverso dagli uomini? Per Garavaso, le basi concettuali che giustificherebbero tale "privilegio epistemico" (pag. 127) consisterebbero nella prospettiva essenzialista e nel determinismo biologico, entrambe insostenibili: in primo luogo, "nessuno è mai solo una donna o un uomo, ciascuno di noi vive molte identità" quindi l'essenzialismo, che pretende di spiegare le differenze presunte o reali tra i sessi, si rivela indebitamente semplificatorio, poiché, come afferma Vassallo nell'Epilogo, "ci costringe ad appellarci ad un'oscura entità, la donna, entro cui costringere a ogni costo le tante differenze tra donne e varietà di donne, per sconfessarle o addirittura cancellarle"(pag. 142); mentre il determinismo biologico, per il quale sarebbe il sesso a determinare nelle donne delle caratteristiche cognitive diverse, non riesce a spiegare le così tante ‘eccezioni’ di donne che hanno contribuito significativamente al progresso scientifico e culturale. Di qui la nozione di genere, per Garavaso "il prodotto più importante dell'elaborazione teorica femminista" (pag. 124) poiché vede "un processo di indottrinamento culturale" là dove la tradizione ha visto un determinismo biologico. Come suggerisce Vassallo, se si finisce col vedere nel sesso un fattore determinante nella definizione dei tratti cognitivi e comportamentali, "si finisce con il dover cedere anche alla tesi razzista secondo cui le razze sentono, pensano e conoscono in modo differente" (pag. 138), quindi alla tesi classista, alla tesi eterosessista e via dicendo."In fondo, la donna non è che pura apparenza, una finzione al servizio dell'androcentrismo (...), uno strumento normativo utile per costringere gli esseri umani a comportarsi in determinati modi, per legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre" (pag. 142).
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